martedì 17 dicembre 2013

Medimex 2013

Il cartellone del Mediterranean Music Expo 2013 ha proposto, dal 6 all’8 dicembre, una serie di appuntamenti parlati e vetrine live con cantori smaniosi di raccontarsi, musicisti indie in cerca di gloria, artisti spesso sottovalutati, scapestrati del rock’n’roll e dozzinali urlatori. Quasi senza soluzione di continuità il susseguirsi di attività, in un vortice di tavole rotonde dedicate alle argomentazioni di operatori del settore, organizzatori di festival, dirigenti di case discografiche, giornalisti, fotografi e soprattutto affaristi del nuovo mondo musicale, quello che lega indissolubilmente la quarta arte ad app(licazioni) sempre più innovative.

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lunedì 25 novembre 2013

George Martin - L’estate di Sgt. Pepper

La musica è fatta di movimenti meccanici: gente che batte, soffia, pizzica, gratta; ma alla fine il risultato non è tangibile, è un sogno”. Tradurre l’utopia in note era l’obiettivo dei Beatles e di George Martin, loro produttore all’epoca della realizzazione di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.
Era una visione onirica e improba che mirava a raccogliere le fantasie e a rinchiudere le allucinazioni (indotte oppure spontanee) dentro un nastro magnetico.

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lunedì 4 novembre 2013

Ed Kowalczyk - The Flood and The Mercy

Ed Kowalczyk pare aver raggiunto il suo equilibrio grazie alla fede. L’assunto del suo nuovo The Flood and The Mercy è che con l’esperienza mistica si può trovare la forza per combattere ogni avversità. Questa la tesi del cantautore americano che, in odor di redenzione, torna sulla scena certificando la propria inclinazione religiosa e aggregando nuove consapevolezze in una restaurazione rock.

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 Ascolta il singolo Seven.

venerdì 5 luglio 2013

Leitmotiv - A tremulaterra

Cosa succede all’interno di una band quando un membro fondatore lascia? Come mutano le dinamiche nell’ambito del gruppo? Reagire per non soccombere è tutto quello che resta. Occorre adattarsi in fretta, modificare ciò che è preesistente per non far svanire il sogno. I Leitmotiv hanno subito una perdita importante quando era prossima la lavorazione del terzo album A tremulaterra.

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giovedì 4 luglio 2013

Patti Smith - I tessitori di Sogni

Il 30 dicembre del 1991 Patti Smith si concede un regalo per il suo quarantacinquesimo compleanno, ultimando I tessitori di sogni. Il desiderio di fermare su carta momenti che, diversamente, sarebbero andati persi è assolto, come la possibilità di fermare vita che altrimenti sarebbe scivolata via come un’outtake scartata da un disco. Un’opera che consente di comprendere meglio come occhi curiosi possano cogliere la grandezza dell’arte in ogni contingenza. Come fosse l’unico vero motivo di vita.

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(grazie a Frida e Iris)

venerdì 28 giugno 2013

Pearl Jam - Vitalogy Tour Movie 1995

Ai fans che hanno seguito i Pearl Jam sin dagli esordi farà piacere sapere che, sul web site del regista Duncan Sharp, è stato – finalmente – caricato il Vitalogy Tour Movie 1995.
La selezione di questi 40 minuti, da ritenersi ufficiali, suscita emozioni a stento traducibili.
Per capirne la portata è doveroso vederlo. E magari rivederlo.
Un post relativo a questo agognato video si trova qui.

Enjoy!

mercoledì 26 giugno 2013

Libro e CD: la nuova proposta della Piccola Orchestra Karasciò

Può sembrare un lavoro pretenzioso, invece si rivela un piccolo saggio. Un saggio incentrato sull’esperienza umana, sul valico che separa le vedute di gioventù e senescenza, sul percorso ad imbuto, stretto com’è, tra scelte che si ritengono decisive e casualità che ne lastricano il cammino.
Apologia, della Piccola Orchestra Karasciò, trova la sua ragione d’essere nell’accoppiata compact disc-libro, elementi interdipendenti che rendono distintiva un’opera profondamente espressiva esaltata da requisiti estetici.

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martedì 4 giugno 2013

Spin Doctors - If The River Was Whiskey

Gli Spin Doctors tornano sulle scene con un background che annovera successi, cicatrici e tanto equilibrio. Il nuovo If The River Was Whiskey (titolo fortuitamente identico a quello di una short story di T. Coraghessan Boyle) consente ai musicisti di dissetarsi dalla fonte che tutto ha originato. Non ad un barile di whiskey – come il titolo incoraggerebbe a pensare – ma al blues, sorgente inesauribile di un amore consumato tra i club della Big Apple sin agli albori della carriera.

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If The River Was Whiskey Album Sampler

sabato 25 maggio 2013

Prima del punk c'erano i Death

Tutt'altro che nitida, la storia dei Death sembra inventata di sana pianta, imbastita com’è su ricordi in bianco e nero, esigue testimonianze e prove sbiadite dal tempo. E’ l’avventura di tre ragazzi che dal passato invadono il presente.
Gli Hackney sono tre fratelli afroamericani di Detroit che mettono in piedi una band dal nome allegro come un necrologio. Iniziano a proporre black music rimanendo entro i recinti di una persistente ghettizzazione sociale e musicale, per poi scavalcare il muro di cinta che conduce in avanscoperta, verso l’innovazione sonora. Il successo nemmeno li sfiora e i tre suppongono di trovarsi in un vicolo cieco. Tornano sui propri passi, tentando di ricalcare a ritroso le orme di un percorso che, intanto, è stato presidiato da altri. La band a conduzione famigliare conosce i primi veri dissidi e implode su se stessa, salvo poi riemergere dall’oscurità – trent'anni dopo – grazie all’interesse che alcune incisioni inedite destano nell’ambiente musicale.

Fin qui la biografia dei Death non presenta risvolti originali e non giustifica la sollecitazione di grandi interessi. A renderla coinvolgente è un inconsueto particolare. Bobby (voce e basso), David (chitarra) e Dannis (batteria) sono musicisti neri impegnati a proporre qualcosa di assimilabile al punk dei bianchi già nel 1971. La ricomparsa di queste polverose registrazioni, recentemente, ha attirato l'attenzione di "musicofili" e vecchi fan. Tra questi anche uno tra i più illustri concittadini dei Death, un allibito Jack White che stenta ad archiviare quelle musiche in un lasso temporale così spostato indietro rispetto alla cronografia accertata.
Il pionierismo degli Hackney si deve alla suggestionante visione di un feroce set di Alice Cooper: è la sua musica che fa scoccare la scintilla, è la sua enfasi scenica ad invogliare il combo a farsi inconsapevole (nonché ante litteram) power trio. L’urgenza è quella di abbandonare il R&B in favore di suoni acidi e ritmi in piena accelerazione. Con il senno di poi, non sarebbe improprio affermare che nell’evoluzionismo rock i Death congiungono gli MC5 ai Ramones, gli Stooges ai Sex Pistols. Bestialità? Fandonie? Magari qualcuna. Si accenna addirittura al benservito dato dal trio al produttore Clive Davis, una divinità nello star system discografico americano, fortemente interessato al gruppo ma colpevolmente intenzionato ad abolire quel nome così impopolare per favorirne uno più commerciale. Per farsi un’idea di questa storia – oltre ad ascoltare i dischi riproposti sin dal 2009 dalla Drag City Records – sarebbe opportuno approfondire vicende ormai lontane con la visione di A band called Death, film che espone i fatti, interpella i protagonisti (tranne il chitarrista David, scomparso nel 2000) e cerca di fare chiarezza sulla vita della band venuta dal passato. Il punto è che il lungometraggio diretto da Jeff Howlett e Mark Covino difficilmente varcherà i confini statunitensi per approdare nelle nostre sale. L’alternativa? Acquistare il documentario direttamente dal web site della Drafthouse films che, tra l’altro, offre la possibilità di scaricare gratuitamente un demo d’epoca intitolato Politicians In My Eyes.


A BAND CALLED DEATH [Trailer] from Drafthouse Films on Vimeo.

giovedì 9 maggio 2013

Midnight Faces - Midnight Faces EP

Appartenenti alla corrente artistica che esalta la commistione tra sintetizzatori pop e chitarre rock, i Midnight Faces (Philip Stancil e Matthew Warn) promuovono un credo musicale che da subito rimanda ad atmosfere new wave. Il loro biglietto da visita è Midnight Faces EP anticipatore di Fornication, full-length di debutto recentemente completato a Los Angeles con il produttore Jason Martin (The Drums, Cold War Kids, Starflyer 59).
L’ep alterna momenti melodici a lampi ritmici in un incedere che afferra reminiscenze sonore propagandate dai Prefab Sprout (Now I’m Done) e passaggi sottilmente velati da psichedelia (Give In Give Out). Sono le passioni di Stancil e Warn a suggestionare le creazioni. Influenze diverse “come se”, ammette Warn, “Tom Petty fronteggiasse i Cure”. Su tutte è Feel This Way a conferire veridicità alle audaci affermazioni di Warn.
L’ep dei Midnight Faces, quattro brani originali più il mix di Feel This Way, è per gran parte segnato dalla piacevole contesa tra le differenti visioni poste in seno alla band.
Il risultato è inciso in quei quindici minuti che ne decidono le sorti.


martedì 7 maggio 2013

Piccola Orchestra Karasciò - Apologia

La Piccola Orchestra Karasciò è nota per aver vinto il festival “Voci per la Libertà - Premio Amnesty Italia Emergenti 2010” con il brano Beshir. Un singolo – incluso nell’ep Made in Italy – che denuncia l’anelito di un’umanità vessata disposta ad affrontare incognite inammissibili pur di approdare ad una vita migliore, anche se questa dista chilometri di acqua e sofferenze dalle stentate certezze del quotidiano.
Oggi, a distanza di tre anni da quel successo, la Piccola Orchestra Karasciò pubblica Apologia, “una vera e propria opera concettuale a cavallo fra musica, canzone, testo narrato e immagine”, un’originale proposta musicale che abbina CD e libro quali elementi interdipendenti.  
Apologia è un concept album che narra alcune dinamiche dell’esistenza secondo due situazioni soggettive. Il fil rouge è tenuto insieme dai tarocchi, carte ambasciatrici di ogni capitolo del libro che racchiude una più ampia interpretazione per ogni canzone. Le carte dei tarocchi vengono tradotte in modo dissimile a seconda dello sguardo che ne cattura l’immagine raffigurata. Una cartomanzia personale decodificata dagli occhi di un giovane oppure svelata dalla vista di un vecchio. Le undici tracce palesano analisi di argomenti spinosi, inclusa la morte. Componimenti che, pur trattando il tema dell'ineluttabile epilogo, rafforzano l'entusiasmo per la vita pur nelle sue dogmatiche contraddizioni. La Piccola Orchestra Karasciò invita ad avventurarci lungo “un viaggio al limite tra il reale e il sogno” veicolato dal folk, quello melodico, popolare e febbrile. Quello che esige un line up corposo capace di sostenerlo senza subirlo.
Per far fronte a questa urgenza il gruppo è composto da un nutrito stuolo di musicisti – Paolo Piccoli (voce, chitarra acustica e ukulele), Roberto Nicoli (basso elettrico e contrabbasso), Fabio Bertasa (chitarra elettrica e chitarra acustica), Michele Mologni (batteria), Diego Camozzi (mandolino e lap steel), Francesco Moro (fisarmonica), Enzo Guerini (voce narrante) – proprio come una piccola orchestra.

sabato 4 maggio 2013

Take action, join the movement: Tom Morello "The Union Man"

La musica ha avuto un ruolo determinante nella storia della lotta sindacale in questo Paese. Ho voluto delineare il mio pensiero realizzando un album composto da classici del sindacato”. Le affermazioni di Tom Morello sembrano pleonastiche eppure, in una recente intervista, il chitarrista ha voluto illustrare la genesi del suo ep Union Town ribadendo le proprie radici politiche. Cresciuto in Illinois, presso una famiglia che ha sempre individuato nell’associazionismo un valore fondamentale, Morello ha onorato la festa del lavoro di quest’anno insieme al Teamster, il sindacato statunitense degli autotrasportatori. Per l’occasione ha reso disponibile il download – tramite un’apposita pagina del web site teamster.org – di quattro degli otto brani inclusi in Union Town (la title track, A Wall Against The Wind, I Dreamed I Saw Joe Hill Last Night e la versione live di Union Song).
L’ep di Tom “The Nightwatchman” Morello, i cui proventi sono stati devoluti ad America Votes Labor Unity Fund, è stato ispirato dagli scioperi avvenuti a fine febbraio 2011 nella città di Madison, Wisconsin. Una serie di manifestazioni culminate con la marcia degli oltre 60.000 lavoratori (per gran parte del settore pubblico) affluiti lungo le strade della capitale di Stato per rivendicare il diritto sindacale alla contrattazione collettiva. Un’attività messa in discussione dalle continue aggressioni politiche del governatore repubblicano Scott Walker che, nonostante tutto, è stato rieletto pochi mesi fa.
Per scaricare le tracce di Union Town basta inserire il proprio indirizzo email nell’apposito campo predisposto alla pagina Celebrate May Day with Tom.
  

giovedì 25 aprile 2013

Ben Harper with Charlie Musselwhite - Get Up!

Due visioni che collidono, interloquiscono e si amalgamano. Ben Harper e Charlie Musselwhite hanno età, background, prospettive e attitudini diverse, ma sono accomunati da una profonda passione per il blues. Ben Harper, il bravo ragazzo della California tutta sole e possibilità, e Charlie Musselwhite, il maturo armonicista scampato all’inferno, dopo diversi approcci approdano ad una collaborazione organica cercata per anni. Get Up! è concettualmente un album che ripercorre l’ideale sentiero che congiunge il delta del Mississippi a Chicago e fissa l’accampamento in quella Memphis che ha dato i natali alla Stax.

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lunedì 15 aprile 2013

Josh Ritter - The beast in its tracks

Il mio matrimonio è finito il primo novembre 2010. Era una mattina fredda e ventosa a Calgary, Alberta, ed io ero in tour. Ho riattaccato il telefono e mi sono guardato intorno”. E’ con una chiamata che si chiudono i diciotto mesi di vita coniugale di Josh Ritter. Lontano dalle luci del palco e dagli applausi della platea, mentre la carriera naviga con il vento in poppa, la vita sentimentale cola a picco in una sorta di compensazione tra equilibri. The beast in its tracks è poetica dell’intimismo che narra non tanto le cause della frana, quanto il cono della valanga che seppellisce e costringe a boccheggiare in un’angusta bolla d’aria. E’ un album che raccatta schegge di delusione di un rapporto andato in pezzi e ne espone il seguito, quando la logica convince a gettare via tutti quei frammenti che mai ricomporranno il puzzle.

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(foto di Laura Wilson)

lunedì 11 marzo 2013

Israel Martínez - The Minutes

Tanto taciuta quanto tangibile. In Messico la guerra tra le fazioni criminali e la polizia ha provocato 60.000 vittime tra il 2006 e il 2012. Un’ecatombe che non fa scandalo e non riveste troppa importanza mediatica. E allora è l’arte, per quanto possibile, a farsi carico di denunciare. Israel Martínez coniuga musica, lavori grafici e video installazioni per raccontare l’orrore e le trasformazioni del suo Paese. The Minutes cerca di argomentare la crescente angoscia della popolazione e il totale isolamento a cui è costretta. Il disco è duro, difficile, volutamente alienante incentrato esclusivamente su suoni registrati in ambienti urbani o bucolici, generati da computer o da asfittica elettronica. Musica impropria dai tratti alternativi, risonanza acustica intrecciata a echi sinistri. Sperimentazione che è cronaca, cruda, originata da una triste visione.

domenica 3 marzo 2013

Midas Fall - Wilderness

I Midas Fall vengono da Manchester e sembrano aver interiorizzato il clima ombroso e umido della città. Il loro Wilderness, séguito di Eleven Return & Revert, sfrutta le potenzialità della voce di Elizabeth Heaton per caratterizzare brani consumati tra elettronica ed echi di chitarre marginali. Pop intimista ripiegato tra dieci bozzetti a basso voltaggio che valorizzano l’iperbole malinconico di un canto ora carezzevole ora tormentoso.
Strumentisti intercambiali, i quattro inglesi – Elizabeth Heaton (voce, chitarra, synth), Rowan Burn (chitarra, piano, basso) e Steven Christopher Pellatt (batteria, percussioni) – effettueranno una serie di spettacoli in patria già nei prossimi giorni, mentre Wilderness debutterà sul mecato il prossimo 25 marzo.
 

giovedì 28 febbraio 2013

Alex Terlizzi - It's a special day

Introverso e indifferente ai dettami del marketing, Alex Terlizzi appartiene a quel cosmo di musicisti pugliesi dal potenziale ancora tutto da esplorare. Le sue notevoli doti artistiche sono palesate dai suoi due album, pubblicati a sei anni l’uno dall’altro, in un ambito estraneo ai territori indie e distante dalle logiche del mainstream. Il maestro Terlizzi conta importanti duetti e ambite collaborazioni.

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mercoledì 20 febbraio 2013

Push The Sky Away – Nick Cave & The Bad Seeds

Diciamolo subito: il nuovo album di Nick Cave non ha l’impatto dirompente di quelli che lo hanno preceduto. Non c’è traccia della ferocia di Let Love In, della straziante disperazione – amorosa o religiosa – di No More Shall We part e The Boatman’s Call e neanche dell’irriverente energia che caratterizzava la maggior parte degli episodi dell’ultimo Dig, Lazarus, Dig!!! Ma non per questo Push The Sky Away è un capitolo meno interessante nel lungo percorso artistico del poeta australiano.

Partiamo dai fatti. Intorno al 15° lavoro di Nick Cave e dei Bad Seeds ruotano una serie di eventi che con molta probabilità hanno influenzato la realizzazione dell’album. Anzitutto è il primo senza il polistrumentista Mick Harvey, compagno di avventura di Nick Cave fin dai tempi del liceo. Insieme fondarono i The Boys Next Door, ribattezzati dopo pochi anni i The Birthday Party, dalle cui ceneri nacquero successivamente i Bad Seeds. Ma se qualcosa è andato perduto, altre cose si sono invece consolidate. Parliamo dell’esperienza di Nick Cave come compositore di colonne sonore e come leader dei Grinderman, la garage band fondata nel 2006 con Warren Ellis, Martyn P. Casey e Jim Sclavunos (tutti e tre componenti dei Bad Seeds) con cui Nick Cave ha già inciso due dischi. In realtà lo stesso Cave ha affermato, nel corso di un concerto in Australia nel dicembre 2011, che l’esperienza dei Grinderman è già finita. Ma è difficile stabilire se fosse serio o scherzasse, anche considerato che l’annuncio si è concluso con la frase “Ci rivediamo tra 10 anni, quando saremo ancora più vecchi e brutti”.

È comunque da questi tre episodi che si definiscono i contorni di Push The Sky Away. Il 15° album di Nick Cave segna infatti un punto di rottura rispetto al passato. Affonda le radici nello stile più soffuso della colonna sonora. È introspettivo, apparentemente scarno (per fare rumore ci sono sempre i Grinderman). Ma attenzione. L’intimismo di Push The Sky Away è molto diverso da quello di album iperpersonali come No More Shall We Part o The Boatman’s Call. Questi ultimi, ma in generale tutti i lavori targati Cave, non potevano esistere senza un pubblico. Che si trattasse di preghiere rivolte a Dio, di dichiarazioni d’amore alla propria donna, di invettive e minacce, Nick Cave ha sempre puntato il dito verso qualcuno. Anche con un ostentato esibizionismo. Stavolta non è così. Push The Sky Away si contorce su se stesso. La sua forza è centripeta. Scorre con un moto circolare che, anche là dove accelera, non raccogliere mai tanta energia da schizzare oltre i confini del più profondo io. Il confine che Cave e soci hanno stabilito per il loro ultimo lavoro.

E così, la voce di Nick Cave parla a se stesso tra suoni stranianti. Tanto ripetitivi da poterci rimettere l’orologio. Regnano loop e delay. Come tarli che rodono la testa. Ad accomunare i brani è una costante tensione, a volte più tagliente, altre volte più riflessiva, ma sempre contenuta. A caratterizzarli è il richiamo ai vecchi canti di schiavi nelle piantagioni o i rumori monotoni e alienanti delle catene di montaggio delle fabbriche. Effetti utilizzati soprattutto in brani come We No Who U R, Finishing Jubilee Street e la straziata Higgs Boson Blues.

Come sempre Nick Cave si lascia ispirare da storie umane. Racconta personaggi, apparentemente senza scrupoli, quasi sempre disperati, ma sempre e comunque reietti. Ma usa uno stile narrativo meno lineare di quello a cui ci ha abituati, prediligendo piuttosto l’uso di immagini e sensazioni.

Jubilee Street è la traccia che più risponde alla classica forma canzone, la più facile da approcciare, in fin dei conti la più gradevole, grazie anche al tratto sicuro del violino di Warren Ellis che ne dipinge i contorni.

Ma è con l’ultima traccia, quella che dà il titolo all’album, che Nick Cave lascia il segno più profondo. Le sue ultime parole sono come un testamento, racchiuso in un lento e straniante requiem accompagnato da un coro di voci bianche. E ci dicono che anche se “Some people/Say it's just rock'n roll/Oh but it gets you/Right down to your soul/You've got to just/Keep on pushing/Keep on pushing/Push the sky away”.

Lucia Conti*

  La clip uncensored di Jubilee Street è qui 

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* L’uscita di Push The Sky Away ha catalizzato l’attenzione dei media. Nick Cave è l’artista del momento. Ma prima ancora che musicista da copertina è cantautore profondo, indigesto e tenebroso, non impostore compiacente e presenzialista. La sua nuova pubblicazione non poteva essere trattata con approssimazione ma con perizia chirurgica. E per eseguire un tale delicato intervento, “el currandero” – per la prima volta – ha lasciato il posto al primario di chirurgia. Anzi alla primaria. Il pezzo è di Lucia Conti, giornalista professionista, “caveologa” integralista e “yorkeologa” praticante. Grazie Lu per aver scelto questo posto.

lunedì 11 febbraio 2013

Let The Fury Have The Hour

All’epoca della Thatcher i Clash cantavano Let fury have the hour/ Anger can be power/ Do you know that you can use it? (Venga l'ora del furore/ La rabbia può essere forza/ Sai di poterla usare?). Più che un’invettiva scagliata da quattro pallidi inglesi, Clampdown conteneva parole esasperate. Persino dall’altra parte dell’Atlantico venivano adottate da chi viveva con disgusto gli anni del conservatorismo. Liriche fiammeggianti che non hanno smesso di ardere e che oggi ritornano nel titolo di un lungometraggio particolarmente interessante.
Gli ottantasette minuti di Let The Fury Have The Hour forniscono 50 diversi punti di vista sul valore assegnato, ai giorni nostri, alla controcultura. Da dove scaturisce, da dove trae linfa, dove attecchisce e che importanza può avere per propagarsi tra l’opinione pubblica. Queste le analisi approfondite dai protagonisti dell’anticonformismo militante, alcuni musicisti, altri rapper, scrittori, registi, skater, disegnatori che hanno contribuito a sviluppare la trama del film. Tutti cercano, fondamentalmente, di rispondere a due quesiti posti dal regista D’Ambrosio. Uno è preso a prestito dalla penna di Joe Strummer, che in White Riot si chiedeva Are you going backwards or are you going forwards?. Un interrogativo che qui viene mosso al plurale in un ben più coinvolgente “Andiamo indietro o avanti?”. L’altro – “In che mondo volete vivere?” – risulta strettamente personale, ma non meno epocale.
Tra le testimonianze si distinguono quelle concesse da musicisti barricadieri come Billy Bragg, Chuck D (Public Enemy), Wayne Kramer (MC5), Ian MacKaye (Minor Threat) e Tom Morello; quella del regista indipendente John Sayles; quelle di strenue sostenitrici dei diritti civili quali Edwidge Danticat, Eve Ensler e Staceyann Chin; quelle di cattedratici del dissenso come Stephen Duncombe e Richard D. Wolff.

La pellicola è stata scritta e diretta dal “multitasking” Antonino D’Ambrosio, oggi quarantunenne, che ha vissuto (e forse subito) in prima persona l’edonismo reaganiano. Proprio questa sua diretta conoscenza del periodo, associata ad una passione incondizionata per la musica e la street art, caratterizza la materia trattata. D’Ambrosio ha visto innalzare steccati in una comunità abituata a condividere più che a dividere. Anche se per lui, il sogno americano si è palesato in tutto il suo splendore. Figlio di un muratore emigrato da Colli a Volturno (Molise), nasce e cresce in un quartiere operaio di Philadelphia. E’ lì che dopo l’elezione di Reagan respira l’esaltazione per “l’individualismo feroce” e “il consumismo sfrenato”. Negli anni ’80, buona parte dell’occidente sperimenta la progressiva rimozione del welfare state lungo l’asse politico Reagan-Thatcher, mentre nei sobborghi di grandi città risorge una rinnovata controcultura. D’Ambrosio percepisce nei linguaggi dell’arte di strada un metodo di contrasto pervasivo, una risposta creativa al potere, che tenta di contrastare l’ondata di egoismo dominante. Un intreccio tra ritmi ribelli del punk rock, raid anarchici dello skate, graffiti pirateschi e linguaggio di denuncia dell’hip-hop che guidano all’ispirazione e immunizzano al cinismo. Terminati gli studi postuniversitari con un master a New York come borsista (dove riceve ambiti riconoscimenti) D’Ambrosio scrive libri, gira diversi cortometraggi e fonda il sito non profit La Lutta NMC (www.lalutta.org) rimanendo ancorato alla cultura alternativa e indipendente. Il suo libro A Heartbeat and A Guitar: Johnny Cash and the Making of Bitter Tears (2009) riceve ottimi elogi da Jim Jarmush, Pete Seeger e Howard Zinn. Finché ai giorni nostri presenta Let Fury Have The Hour, sua prima opera cinematografica, ispirata ad un suo precedente scritto, in gran parte dedicato al musicista che più di tutti lo ha influenzato: Joe Strummer.

E’ la musica dunque, a fare da collante a immagini che si mescolano in un conglomerato di arti policrome. A far parte della colonna sonora sono, tra le altre, le deflagranti invenzioni di Rage Against The Machine, Public Enemy, Gogol Bordello, MC5, The Clash, Fugazi, Minor Threat, Manu Chao e Streetsweeper Social Club. Un manipolo di artisti che ha disintossicato, con la creatività, l’inquinamento delle politiche reazionarie di certa cultura americana (e non solo) figlia degli anni ’80.
Selezionato per l'edizione 2012 del Festival di Tribeca, il film si avvale anche dell’opera di Shepard Fairey, graphic designer noto per aver realizzato Hope, la quadricromia di Obama.


mercoledì 6 febbraio 2013

Micah Gaugh Trio - The Blue Fairy Mermaid Princess

La raccolta intitolata The Blue Fairy Mermaid Princess ripercorre un momento della carriera di Micah Gaugh fino ad oggi inedito. Un compendio di 42 minuti che ben rappresenta le 14 colossali ore di registrazioni trascurate per anni in archivio. Una frattura nel percorso artistico del musicista che va dal 1994 al 1997. Una lacuna colmata con la riproposizione di jam dal vivo e sessioni in studio riemerse grazie alla laboriosa opera di recupero svolta da Julien Fernandez – regista dell’ardita impresa nonché autore dell’artwork – che ha setacciato le incisione del triennio in questione. Un periodo che impegna Gaugh (voce, piano, sassofono), Kevin Shea (batteria) e Daniel Bodwell (contrabbasso) a misurarsi con un flusso emorragico di creatività originato dal free jazz, ma dai contorni indistinti, qualcosa che ha a che fare con il meta jazz.
Anche se parziale, la definizione allo stile è di superficie, è formale e non potrebbe essere diversamente: entrare nel merito significherebbe articolare un parere didascalico e a tratti impossibile. Il contenuto del disco è così disinvolto, affrancato da caratteri di genere, che a tratti risulta sovversivo. Gaugh non canta, non sempre, piuttosto emette vocalizzi gutturali alternati a falsetti che lamentano versi introspettivi e sentimentali in un (quasi) grammelot che si districa tra tempi rubati ad una ritmica volutamente irresoluta. E’ musica d’avanguardia, è sperimentazione che non troverà spazio tra le contemporary hit radio come tra le stazioni tematiche, perché è musica dettata dal momento, è ispirazione frenetica e visionaria trascinata da quell’interazione (quasi telepatica) che è l’improvvisazione.
Più che ambiziosa, The Blue Fairy Mermaid Princess è operazione coraggiosa che combatte la prigione degli stereotipi. Un’iniziativa rivolta a chi preferisce rifiutare il rassicurante invito del pregiudizio, nell’interesse dell’eccezione alla norma.
L’album, accreditato a Micah Gaugh Trio, uscirà per Africantape il prossimo 4 marzo.

domenica 3 febbraio 2013

Un Tuareg soprannominato Bombino

Davvero curiosa la vicenda di Omara Moctar, chitarrista e cantante nato in Niger trentatré anni fa.
Membro di una tribù Tuareg, lascia il paese per sfuggire al regime coloniale e all’imposizione della sharia. Ma a drammatiche partenze fanno sempre seguito fiduciosi ritorni, nella speranza di trovare la situazione cambiata in meglio. Tra la siccità endemica e il conflitto che non si esaurisce, Omara si ritrova per le mani una chitarra che è àncora di salvezza in un mare di sconforto. Sembra solo un arnese capace di distoglierlo dalle atrocità e invece si rivela la chiave per il suo futuro. Appresi i primi rudimenti, studia con un celebre chitarrista locale, Haja Bebe, mentore che lo inserisce nella propria band e gli affibbia il soprannome “Bombino”, storpiatura – chissà perché – del nostro bambino. La sua musica è sì apprezzata, ma solo da una ristretta cerchia. Omara, invece, è destinato a ben altri successi: il suo debutto sembra essere costellato da incontri fortunati in tempi nefasti e in luoghi lontani dai consueti centri dello showbiz.

Nel 2009, in viaggio nei pressi di Agadez (Sahara) il regista Ron Wyman si ritrova ad ascoltare alcuni nastri incisi da Bombino e ne rimane colpito. Si mette sulle sue tracce e lo trova mentre consuma un autoinflitto esilio in Burkina Faso, per sfuggire ad una guerra civile che non cessa e che coinvolge mortalmente due componenti della band. Bombino finisce in alcune riprese che Wyman gira per un documentario sul popolo nomade dei Tuareg e lo incoraggia a registrare con mezzi più professionali, anzi, gli produce il disco che debutta sulla sena internazionale con vasta eco. Un disco che si chiama proprio Agadez, che lacrima i tormenti dell’Africa, che ne ostenta la ruvidità ancestrale ma che poi sfocia nella spirale tensiva del blues urbano di Hendrix.
Nei mesi scorsi Bombino, con i suoi musicisti, ne ha inciso il seguito. Per farlo è andato molto lontano dalla sua terra, a Nashville, in un esilio che questa volta risulta dorato.
Prodotto da Dan Auerbach dei Black Keys, l’album è emblematicamente intitolato Nomad.
Esce il 2 aprile e più in là (il 6 dicembre) Bombino avrà modo di esibirne uno scorcio anche alla prestigiosa Carnegie Hall di New York.
Ancora una volta la musica conferma di non temere sciagure e confini.

 

lunedì 28 gennaio 2013

The Somnambulist - Sophia Verloren

In Sophia Verloren il rozzo e brutale uso dei modi rock si stempera nei gentili inserti di violino e il pianoforte risolve la sua improvvisazione nel freddo uso del theremin o negli ambigui effetti sonori. Tutto e il contrario di tutto, per confondere piacevolmente e rendere più eccitante l’ascolto, per far pesare un’incognita e poi risolverla in modo insolito.

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venerdì 25 gennaio 2013

Lupe Fiasco, rapper censurato

Ecco la voce fuori dal coro che destabilizza. Ecco il rap che torna a fare quello che deve. Ecco un musicista che protesta quando è al centro dell’attenzione, sul palco, mentre il messaggio è scagliato forte e chiaro e si amplifica senza interferenze. A quanto pare c’è ancora qualcuno che ha l’onestà di mettere a nudo i difetti di una nazione che si dichiara pluralista, qualcuno che fa crollare il mito dell’America democratica, del Paese in cui la libertà di espressione è rappresentata come valore inviolabile. Lupe Fiasco è un rapper che ha sempre mostrato una vena critica piuttosto disinvolta. In passato ha cantato la schietta American Terrorist per la colonna sonora The People Speak (un progetto pedagogico realizzato da Howard Zinn, brillante storico, considerato con sospetto per le sue idee non proprio allineate) e per di più ha definito Obama “un terrorista”. A Washington, mentre si festeggiava il giuramento alla costituzione del presidente afroamericano, il vento soffiava in una sola direzione alimentato da mille slogan e canti di star pronte a giurare amore eterno al propugnatore dell’esercito permanente di 250.000 soldati nel mondo, al vincitore della gara con George W. Bush sulla spesa in armamenti (680 miliardi di dollari), insomma al premio Nobel per la pace. Al chiuso di un locale, Lupe Fiasco - musicista, nero - cantava controvento. Cantava Words I Never Said inframmezzata dal resoconto di eventi ben noti ma indigesti: “la striscia di Gaza veniva bombardata mentre Obama non diceva un cazzo, ecco perché non ho votato per lui”. Una macchia nel candore di un momento così idilliaco da sembrare atroce tradimento. Liriche alla stregua di un fuoco, da spegnere sul nascere, con secchiate di censura. Lupe Fiasco è stato zittito e oscurato con il volume audio che scendeva sotto zero, come la credibilità del vile atto, e con le luci che si spegnevano,come ad ottenebrare l'intelletto. Ma non è bastato, perchè ha continuato a rappare imperterrito e allora è stato cacciato dal palco, con la forza. Il giorno dopo si è parlato di scelta artistica e non di “riprovazione ufficiale”. Le riprese di quel momento, naturalmente, sono finite in rete, ma con altrettanta naturalezza sono state rimosse da più siti. Molti, non tutti. La censura è stupida come chi la mette in atto. Anche per questa volta, il suo sordido agire ha alimentato un fuocherello che è divampato come un incendio.
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domenica 20 gennaio 2013

The Boss?

Apologia di reato!
Lesa maestà!
Usurpazione di titolo!
Appropriazione indebita!
Continua qui.

sabato 19 gennaio 2013

Tooth & Nail, Bill Bragg annuncia il suo nuovo disco

Billy Bragg, illuminato "trovatore" del nostro tempo, annuncia l’uscita per il prossimo 19 marzo di Tooth & Nail. Il nuovo disco è ancorato al soul, al country, al folk ed è stato registrato in soli cinque giorni, in presa diretta, nello studio casalingo del produttore Joe Henry a Pasadena.
Il cast dei musicisti coinvolti – Greg Leisz alla steel guitar, Patrick Warren alle tastiere, Jay Bellerose alla batteria e David Piltch al basso – è di prim’ordine e non fa che accrescere l’attesa.
Il nuovo Bragg ha maturato riflessioni attraverso un percorso disseminato di dolore ed incognite, cristallizzando un periodo caratterizzato da un lutto grave nonché inaspettato e da una serie di nodi da sciogliere in un contesto artistico radicalmente cambiato. L’improvvisa perdita della madre a causa di una malattia dal rapido decorso, uno scenario musicale mondiale sbilanciato sui talent (a danno della creatività) e il fatto stesso di vedere il proprio songbook quasi esclusivamente ascritto al filone delle protest song (neanche fosse un cantautore monotematico) impongono una serie di considerazioni sul suo ruolo di uomo di mezza età, musicista, che s’interroga su come meglio occupare il tempo ancora a disposizione. Il songwriter inglese vacilla ma da vero lottatore (restano memorabili le critiche mosse e le iniziative contro le politiche liberiste della Thatcher) non demorde davanti a sfide difficili da ingaggiare, così affida incognite e sentenze a Tooth & Nail. Alla base del progetto, per usare parole sue, c’è un “lungo e difficile scrutare chi sono e cosa faccio, ma quest’album ne è il risultato”. Un anticipazione della nuova uscita è già in rete. Si tratta di Handyman Blues, brano dai toni sommessi e riflessivi, steel guitar in evidenza e drumming accennato per un suono caldo e spontaneo, che ricrea certe atmosfere felpate già riprodotte assieme agli Wilco per Mermaid Avenue (una manciata di portentose ballad cucite su liriche inedite di Woody Guthrie).
Il disco sarà disponibile in più supporti. Oltre al compact disc e al vinile sarà in vendita anche un’edizione limitata che prevede l’accoppiata Cd e Dvd bookpack (con 36 pagine di libretto, foto esclusive e una selezione di articoli scritti tra il 2008 e il 2011 dal cantautore inglese per il magazine "Q"; il Dvd, invece, include 10 video relativi a singoli pubblicati tra il 1986 e il 2002).
Gradito ritorno quello del menestrello attento ai problemi politici e sociali, ma anche ai molteplici aspetti dell'esperienza umana.

venerdì 18 gennaio 2013

The Bengsons - Hundred Days

Attivi nei circoli culturali newyorkesi, The Bengsons rappresentano un ibrido artistico che attinge dalla musica e dalla recitazione. Per mezzo di strumenti della tradizione popolare (chitarra acustica, pianoforte, banjo, fisarmonica e arpa) i due si fanno interpreti di un folk moderno e aperto ad incursioni pop, un linguaggio che tiene insieme piccole produzioni teatrali dall’effetto coinvolgente. L’ep Hundred Days – che verrà pubblicato il prossimo 4 febbraio – prova a compendiare in sole quattro canzoni le musiche del loro ultimo nonché omonimo spettacolo off-Broadway. Un condensato che lascia percepire il corpus così com’è, semplice e variegato, ben prodotto da Felix McTeigue abile nell’evitare ogni superflua ridondanza sonora. Nel brano Even Then, andatura agile e decisa, spicca la partecipazione di Anaïs Mitchell, affermata folk singer dal canto melodioso che trascina e valorizza i contrappunti bassi di Abigail. Canto duttile ed espressivo, ottimi cori, percussioni sommesse eppure trascinanti e testi emozionali, i coniugi Shaun Bengson e Abigail Nessen celebrano la loro creatura in un connubio tra musica rurale e mood pop, associando spontaneità e leggerezza.

mercoledì 16 gennaio 2013

Fantasticus - Fantasticus

Vengono da Aix-en-Provence, sud della Francia, e sono cinque musicisti abili nel coniugare diverse correnti del rock in un unico flusso sonoro. I Fantasticus hanno prodotto un ep, omonimo, che brilla per varietà stilistica. Martin Béziers (voce, tastiere), Rémy Jouffroy (chitarra), Guillaume Mongens (basso), Matthieu Chrétien (batteria) e Stéphane Dunan Battandier (percussioni) prendono in prestito i guizzanti intrecci di Manzarek, la fumosa ebbrezza di Waits e la tensione emotiva della psichedelia per realizzare quattro brani efficaci e vitali.
Se Not Afraid gira intorno ad una chitarra che rigenera ritmi crossover, Someday ha l'andatura solare e spavalda. Il background jazz dei Fantasticus è evidente in tutta la produzione, e l’accorata Awful Day ne esprime tutto il sentiment.
Incisivo anche il dualismo tra testi cantati in inglese e francese, lingua scelta per la conclusiva Assis en Face de Toi, condotta da un epidemico tribalismo percussivo e suggestionata da una chitarra che rimanda a Santana.
Curiosa la scelta di tratteggiare una rana antropomorfa in copertina. E’ il fantasticus, un anfibio sudamericano dai toni sgargianti. Un aspetto che lo relaziona nel migliore dei modi alla band.

martedì 15 gennaio 2013

Greenthief - Retribution

Vibrante e convincente, Retribution riporta in auge quel rock massiccio da troppo tempo relegato a contorno insipido anziché piatto principale. Nel sound dei Greenthief si scorge l’eredità culturale tramandata dalla british invasion, esaltata dai contrasti tra potenza ed elasticità. La palese ammirazione per l’hard rock dei settanta convive con l’attitudine per l’alt-metal dei novanta, un persuasivo mix ricreato da Julian Schweitzer, polistrumentista, autore della band e cantante dalla vocalità affine al modello interpretativo di Brian Molko (Placebo).
Sanity e Salad Days offrono buone vibrazioni, ma è la title track (Retribution) che si segnala per il suo intreccio sospeso, carico di presagi e dal finale intenso, propedeutico per Vultures. Il singolo porta in dote un andamento cadenzato e oscuro esasperato da un videoclip tenebroso ed efficace. La lunga Mayan Dawn, che occupa un terzo dell’intero ep, a tratti stempera le atmosfere più depresse e conclude il disco prodotto dall’esperto Steve James (Sex Pistols, The Jam).
Musica potente e di matrice bianca, quella degli australiani, anello di congiunzione tra i Muse dei primordi e gli Audioslave.