giovedì 10 dicembre 2009

The People Speak

Gli Stati Uniti ripartono dalle proprie radici per guardare con speranza al futuro. Attori e cantautori si esibiscono, rispettivamente in un DVD e un CD, per celebrare le conquiste sociali raggiunte dalla "ordinary people" in oltre 200 anni di storia americana. Documenti storiografici e canzoni di ieri e oggi finiscono nel progetto realizzato dal pervicace professor Howard Zinn. Il titolo è semplice ed illuminante: The People Speak.

Un progetto per dare voce a quella “ordinary people” silenziosa e laboriosa che ha fatto l’America.
Si chiama The People Speak e compendia immagini, musica, storia e letteratura in un documentario di 90 minuti e in una compilation di 12 brani.
Matt Damon, Marisa Tomei, Don Cheadle, Viggo Mortenson, Josh Brolin e molti altri illustri attori prestano volto, voce ed appassionata interpretazione al lungometraggio basato su due libri (“A People’s History of the United States” e “Voices of a People’s History of the United State”) di Howard Zinn, docente, storico statunitense e attivista politico di lungo corso. Cantautori del calibro di Bob Dylan, Bruce Springteen, Ed Vedder e Rick Robinson, invece, partecipano con registrazioni inedite alla colonna sonora che rispolvera inni folk di straordinaria potenza.
Il film è incentrato sulla narrazione di racconti e sulla lettura di diari, lettere e altri documenti scritti da quella maggioranza in ombra che ha reso possibile il dettame costituzionale incluso nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti. Il coinvolgente reading delle star hollywoodiane rende giustizia alla bistrattata working class, agli orgogliosi afroamericani, agli indomiti nativi e alle paladine dei diritti civili per le donne che hanno reso esemplare il loro percorso verso l’emancipazione negli States.

Rivendicazioni, dure e coinvolgenti, riemergono da epoche lontane: “L'intera storia del progresso della libertà dell’uomo dimostra che tutte le concessioni ottenute su nobili rivendicazioni sono nate da serrata lotta […] che può essere morale o fisica, ma deve essere lotta. […] Se non c’è lotta non c’è progresso”. Parole come macigni che invitano all’azione e che infondono speranza. Sono tratte da un discorso del 1857 di un affrancato Frederick Douglass, primo nero d’America emerso in ambito politico. Ancora oggi fanno riflettere alla stessa stregua delle affermazioni di ira mista a conforto sputate dal Tom Joad di Steinbeck: “Dovunque si lotti per sfamare il popolo, ci sarò. Dovunque un poliziotto pesti un ragazzo, ci sarò." Affermazioni che si ritrovano anche nel "Communist Manifesto" di Bruce Springsteen The Ghost Of Tom Joad.

Gli Stati Uniti hanno sempre trovato nella musica popolare una fonte inesauribile di riscatto e di incoraggiamento. Un paese che riconosce, per ogni epoca, un pugno di cantori capaci di vomitare strali ed invettive di intere generazioni e che individua autori abili nell’esorcizzare, con vena creativa inimitabile, i drammi della comunità. Letteratura e musica che si intersecano fino a diventare denominatore unico della cultura. Ecco perché alla recitazione di brani tratti da Furore, epopea di una famiglia ai tempi della Grande Depressione, si alterna l’interpretazione di This Land Is Your Land, scritta da Woody Guthrie nel 1940, e ancora una volta riproposta da Springsteen. Al progetto musicale aderisce buona parte del mondo folk più noto, quello che “vende”, e vede menestrelli di ieri e di oggi prodigarsi nel creare la spina dorsale di un lungometraggio davvero interessante. A Bob Dylan e Ry Cooder spetta il compito di rileggere Do Re Mi, un altro classico del repertorio di Guthrie (un americano comunista!), John Legend rifà il Marvin Gaye impegnato autore di What's Going On, Jackson Browne canta la sua The Drums of War e un Ed Vedder sempre più unplugged esegue una personale versione di Master Of War, dylaniano afflato poetico degli anni ‘60. Solo alcune performance presenti in video, però, vengono riproposte nella colonna sonora. Tra queste una “Depression-era labor song” intitolata Brother, Can You Spare a Dime?, straordinario inno alla solidarietà ad opera di Allison Moorer, Only a Pawn in Their Game (ancora di Dylan) folk ballad di aspra denuncia intonata dal “corvo nero” Rich Robinson e See How We Are, amabile canto a due voci per Exene Cervenka e John Doe (degli X).

La tracklist del CD assembla una godibile compilation di american roots music che lascia spazio anche a voci svincolate dal folk. E’ il caso della giovane promessa hip hop Lupe Fiasco, con l’acoustic rap version di American Terrorist, Taj Mahal con il suo Blues With A Feeling, Randy Newman con una sempre bella Sail Away e P!nk con Dear Mr. President, recente ambasciata inoltrata a George W. Bush in prosa e musica.

Il dormiveglia di certi ambienti culturali, oggi, sembra finalmente cessato e pare di assistere al ridestarsi di un movimento sempre più imponente pronto a rivalutare certa politica di stampo socialista: un bel passo verso una democrazia piena e mai realizzata nel paese dei mille contrasti. Un plauso va sicuramente tributato agli attori che si sono cimentati nella lettura di testi di non facile interpretazione e ai musicisti che hanno offerto versioni inedite di protest songs immortali. Il merito più grande, però, è soprattutto dell’irriducibile Howard Zinn, combattivo ottantasettene, che ha coinvolto tutti questi artisti in un progetto coraggioso e di ampio respiro: evidenziare come nella vita di tutti i giorni è possibile riaffermare valori spesso soffocati nella più indifferente iniquità. Come Springsteen ha dichiarato a Rolling Stone (quello americano, of course) nel 2007: “A People’s History of the United States (di Howard Zinn, nda) ha avuto su di me un enorme impatto […] mi ha fatto sentire parte della storia e mi ha indotto a vivere in modo partecipe”. Una dichiarazione vincolante che trova riscontro anche nella sua ultima dichiarazione in favore dei diritti di gay e lesbiche. E a proposito di dichiarazioni, lascia il segno l’incipit di presentazione al film: “Piuttosto che una certezza incisa nella pietra, gli Stati Uniti sono sempre stati un progetto in evoluzione”. Lo stesso principio che è alla base della musica popolare americana: arte in continua trasformazione che ha il pregio di cantare le tangibili assurdità dei tempi e le incredibili vicende umane di ogni stagione. Ecco perché alla drammatica interpretazione di documenti ritenuti solenni, il film accosta sobrie esibizioni di “profane” canzoni del dissenso.

Forse due i difetti riscontrabili nell’intero progetto: la ridotta track list selezionata a fronte di una colossale disponibilità antologica (peccato non trovare gli anatemi di Phil Ochs e il banjo di Pete Seeger) e l’esclusione, nel CD, di alcune performance presenti nel film documentario (ad esempio Vigilante Man ancora a cura di Dylan con Cooder).

The People Speak andrà in onda, solo negli USA, il 13 dicembre su History Channel e il relativo DVD sarà in commercio presumibilmente dal marzo 2010.
Il CD, invece, è già in vendita.

--------------------
Qui un video di Viggo Mortensen che interpreta Masters Of War


Padroni della guerra (Masters of War)
Venite padroni della guerra
voi che costruite i grossi cannoni
voi che costruite gli aeroplani di morte
voi che costruite tutte le bombe
voi che vi nascondete dietro i muri
voi che vi nascondete dietro le scrivanie
voglio solo che sappiate
che posso vedere attraverso le vostre maschere
[...]
e spero che moriate
e che la vostra morte venga presto
seguirò la vostra bara
un pallido pomeriggio
e guarderò mentre vi calano
giù nella fossa
e starò sulla vostra tomba
finchè non sarò sicuro che siete morti
- Bob Dylan, 1963 -

Post ripreso per il 1° maggio 2010 dalla webzine (clicca sul logo per accedere)

venerdì 20 novembre 2009

Arrivederci E Street Band!

Attraverso il suo web site il musicista ha ufficializzato l’intenzione di congedarsi dal pubblico riproponendo per intero il suo album di debutto: Greetings from Asbury Park N.J.
Luogo e data dell’evento è Buffalo, il prossimo 22 novembre.

La proposta è inedita limitatamente alla scelta dell’album ma non è inconsueta per svolgimento. Si aggiunge, infatti, a quanto già messo in atto da Springsteen e dalla leggendaria E Street Band negli ultimi 2 mesi: da settembre scorso sono stai eseguiti interamente The Wild, The Innocent And The E Street Shuffle, Born To Run, Darkness On The Edge Of Town, The River e Born In The U.S.A.
Pubblicato nel gennaio del 1973, Greetings from Asbury Park N.J. include 9 tracce che, per l’occasione, verranno eseguite nella stessa sequenza della tracklist originaria. I fortunati fans che accederanno all’HSBC Arena, dunque, potranno ascoltare il susseguirsi di tutte le vicende di Scott, Mary, Jimmy The Saint, Crazy Janey, Wild Billy, Hazy Davy e Killer Joe, maldestri personaggi abituati a scantonare tra vicoli illuminati da intermittenti insegne al neon di un'America ormai estinta.

Dall’iniziale apnea delle rime baciate di Blinded by The Light allo sfrontato sfogo finale di chi può “parlare sboccato” (It’s Hard To Be A Saint In The City) sono passati ormai 36 anni, ma la sincerità di certi proclama (Growin’Up) e l’efferatezza di certi eventi (Lost In The Flood) mantiene oltremodo intatto il fascino di short stories musicate con un rock d’altri tempi.

domenica 25 ottobre 2009

This world is bullshit

Tidal è l’album di una debuttante giovanissima e promettente. Fiona Apple spinge delicatamente i tasti del pianoforte per ricreare soffuse atmosfere e sofferte ballate pianistiche, colonne sonore di racconti intimi e disperati. Da apprezzare in silenzio e da assaporare con parsimonia, il disco piace anche a chi non è avvezzo al genere proposto dalla cantautrice (ecco perché se ne trova traccia anche qui).
Accolto bene da pubblico e critica, complice anche l’eccessiva esposizione mediatica, il disco genera sei singoli di successo e vince premi importanti che spingono la diciottenne nel vorticoso business discografico. Il trionfo, però, mina le velleità artistiche della cantautrice costretta a misurarsi con un’industria schiacciasassi. A complicare tutto, un discorso estemporaneo molto particolare.


E’ il 1996 quando la Columbia pubblica il disco.
La copertina mostra un viso, giovane, dagli occhi azzurri e dalla pelle diafana; l’ascolto svela un canto, deciso, che manifesta una maturità imprevista.
Fiona Apple ammalia, e a tratti uccide, con un binomio voce-pianoforte che in Tidal suona come un piacevole tormento alt-jazz: sofisticate atmosfere e delicate melodie, si sporcano nella melma di ricordi opprimenti che affiorano, implacabili, nei testi vergati dalla newyorkese.
Un debut album che delinea un percorso autobiografico fluito da una crepa nel guscio dei sentimenti: dieci brani in cui fluttuano testi intensi ed istintivi, tra musiche dalla portata voluminosa e vocalità sussurrate e in crescendo.

Il piano conduce, e la voce asseconda, un amalgama tra musica di derivazione classica e pop di pregevole fattura. Come ha detto Andrew Slater, abile produttore di Tidal, “Fiona è affascinata dall’hip hop ma non nasconde l’amore per la musica classica e per i cantanti della vecchia scuola come Ella Fitzgerald”. Vero. Cadenzato in Sleep To Dream, disilluso in Shadowboxer, ammiccante in Criminal, esotico in The First Taste, confidenziale in Slow Like Honey, il suo modo di cantare si confonde, seducente e autorevole, tra moderno e tradizionale.
Come in Never Is A Promise, sorta di suite sperimentale, dove la Apple stende la sua preziosa voce su un arrangiamento che prevede solo archi e pianoforte (solo piano qui).
Ma è in Sullen Girl che il dualismo tra classico e moderno si esalta e manifesta l’essenza dell’intero lavoro. Il testo introspettivo piange lacrime asciugate dall’arioso accompagnamento strumentale ben piantato nel solco della tradizione americana, con misurata incursione di pedal steel e discreto drumming. Brano intenso plasmato da un lamento scivoloso che più volte srotola la stessa malinconica nenia (It’s calm under the waves in the blue of my oblivion/ C’è quiete sotto le onde nel blu del mio oblio).

Tidal mette in luce l’audace personalità della giovane compositrice e la valida regia del produttore, senza tralasciare la parte narrativa. La disinvoltura impiegata per rivelare pensieri reconditi porta a vicende patite in prima persona e trascritte dal diario di un’adolescente truffata dalla vita. Liriche che cristallizzano, con intento esorcizzante, lo scorrere inesorabile e molesto di pensieri tristi e ricordi dolenti che sgorgano dal profondo: ecco come la canzone assume quel ruolo taumaturgico che solo la divulgazione di un segreto, a volte, può concedere. Ma il ricorso all’arte, intrapreso per neutralizzare un passato popolato da fantasmi, si tramuta da sogno a incubo. Fiona diventa un personaggio dal forte appeal, un fenomeno di massa di facile consumo, manipolabile, e che finisce nel perverso ed inevitabile ingranaggio affaristico della macchina musicale. Quando l’ambiente discografico comincia a puzzare di eccessivo compromesso, però, la ragazza sbotta alla cerimonia degli “MTV Video Music Awards” del 1997. In nomination per Sleep To Dream nella categoria “Best New Artist in a Video”, vince e accoglie il premio pronunciando un riottoso discorso.

Ragazzi ... oh, ragazzi! Non ho preparato un discorso, e me ne dispiace, ma sono contenta di non averlo fatto, perché ne farò uno che nessun altro fa. Per tutti quelli che dovrei ringraziare, mi dispiace, ma devo usare questo tempo. Vedete, Maya Angelou ha detto che noi, in quanto esseri umani, al massimo possiamo solo creare opportunità. E voglio usare questa opportunità alla mia maniera. Voglio dire a quelli che desiderano questo mondo, che (questo mondo) è una merda. E che non dovreste prenderlo come modello di vita! E’ tutta merda: quello che noi crediamo sia fico, la maniera in cui ci vestiamo, che diciamo, tutto. Trovate la vostra strada! Trovate la vostra strada!
E voglio dire a poche persone alcune cose. Voglio dire: mamma ti voglio bene, e sono così contenta che stiamo diventando amiche. Amber, ti voglio bene, sei mia sorella e la mia migliore amica.
Andy Slater, nessun altro avrebbe prodotto questo album come te, davvero, nessuno. E' stupido che io stia in questo mondo, ma voi siete così carini con me. Perciò grazie mille.
Ciao.

Un ingenuo monologo che ha il merito di rendere autentica la genesi di Tidal ma che non piace alla cerchia del music business – cui lei stessa appartiene – e che contribuisce a rendere arduo un percorso artistico ancora oggi travagliato.

----------
Traduzione del discorso di Fiona Apple a cura dell’intrepido Giapo. Grazie Brother!
----------

venerdì 16 ottobre 2009

Bruce “The Boss” Springsteen: WANTED!

When Will I Be Loved è stato recentemente riproposto da John Fogerty.
Nella rilettura dell’ex Creedence, il brano originariamente pubblicato nel 1960 dagli Everly Bros. (gli stessi autori di Bye Bye Love e Wake Up Little Suzie), ha mantenuto la sua innata intonazione soul e ha liberato tutta la sua inflessione country.
Nella cover sono presenti tutti gli elementi stilistici tipici del genere, ma è la scenografia del video a porre l’accento sullo stile “vecchio e selvaggio west”, sia per l’ambientazione da saloon sia per i rimandi alla corsa all’oro.
Non è un pezzo trascendentale ed è noto, principalmente, per la partecipazione vocale di Bruce Springsteen che in video, però, non appare. O forse sì?
Beh, a guardare bene, a metà del minimetraggio è possibile intravedere l’arcinota locandina, con foto segnaletica del ricercato di turno, sotto l’usuale scritta “wanted”. Pare di scorgere il tipo già apparso sulla copertina di Magic ma con un cappellaccio da cowboy aggiunto con un ignobile fotomontaggio che lascia - davvero - di sasso. A peggiorare le cose la didascalia ripropone un The Boss che qui, a ogni buon conto, pare davvero azzeccato.

Ma lasciamo stare, sono giovanotti (!!) e consoliamoci con l’ambaradan di violino, steel guitar, mandolino e batteria con cui armeggia la splendida Blue Ridge Rangers, backing band di Fogerty.
Per vedere alcuni gorgheggi di Springsteen in carne ed ossa sarà opportuno, invece, acquistare la versione deluxe del CD (con DVD annesso) oppure … aspettare che qualcuno carichi le immagini delle sessions su youtube.

Questo, intanto, è "When Will I Be Loved" video premiere messo on line il 14 ottobre da AOL MUSIC.

When Will I Be Loved Music Video

Aggiornamento: ecco il Making Of The Blue Ridge Rangers Rides Again (gorgheggi di Springsteen inclusi!).

clic qui

mercoledì 7 ottobre 2009

A man we'll soon forget

Comporre una canzone per sola voce ed ukulele?
Per Ed Vedder si può fare. Per Chris Cornell proprio no. L’ottimismo nutre la creatività del primo che, con la sola chitarra hawaiana e le corde vocali, prova e riprova a mettere insieme una composizione. Vedder si aggiudica la scommessa e Soon Forget viene inserita nella tracklist di Binaural (2000).
La pungente ballata è critica nei confronti di un certo stile di vita: sotterfugio, prosperità e isolamento tracciano la personalità di un personaggio dalla dubbia moralità. Ma la ricchezza e la potenza dell’uomo vengono derise: stare in alto è bello, sovrastare apporta vantaggio, ma cadere da certe altezze provoca forti dolori e indelebili ammaccature.
Nel testo si cita la parabola, triste a dire il vero, di un uomo in vetta, di un cinico omuncolo in qualche modo “arrivato”, del notabile che ha ciò che serve per vivere sopra tutto e tutti pensando solo ai fattacci propri. Ma l’imprevisto capita anche al più prepotente dei tiranni.
Anche all’uomo potente e ricco, all’uomo scaltro, all’uomo ammanicato, infatti, può succedere di ritrovarsi nel bel mezzo di una giornata da dimenticare.

Hey, questa è per te!

Soon Forget

Sorry is the fool who trades his soul for a corvette
Thinks he'll get the girl, he'll only get the mechanic
What's missing? He's living a day he'll soon forget
That's one more time around,... the sun is going down
The moon is out, but he's drunk and shouting,
Putting people down...he's pissing,.. he's living...
A day he'll soon forget
Counts his money every morning
The only thing that keeps him horny
Locked in a giant house, that's alarming
The townsfolk,... they all laugh

Sorry is the fool who trades his love for high-rise rent
Seems the more you make, equals the loneliness you get
and it's fitting,... he's barely living,... a day he'll soon forget
That's one more time around,... there is not a sound
He's lying dead clutching Benjamins,... never put the money down
He's stiffening,... we're all whistling...
A man we'll soon forget

martedì 29 settembre 2009

Tastiere Rock

One-two-three-four! Batteria, chitarra, voce cavernosa e basso stipati in un 4/4 da tre minuti. What else?
Al rock non serve altro. O forse sì?
Beh, un pianoforte!
Superfluo optional per i detrattori o arnese fondamentale per gli estimatori, lo strumento ha vissuto una storia controversa sin dagli albori del rock’n’roll.
Rinnegato o amato, il suo ruolo è stato determinante nella realizzazione di brani (tosti e non melodici) passati alla storia.

Duttilità dello strumento e mani capaci hanno permesso la risoluzione di tragiche situazioni di stallo in sala d’incisione, o la creazione di trame fittissime improponibili a semplici “impiegati” della chitarra.
The Band, The E Street Band e The Wallflowers, solo per citarne alcune, sono rock band riuscite a creare una perfetta alchimia di suoni, un ineccepibile equilibrio tra smisurato egoismo di chitarre e dispotico incedere di console.
Per queste band, il pastoso suono del piano, il pervasivo fluire dell'organo (generalmente il mitico Hammond), la glaciale marcia del synth, o i tre elementi insieme, sono una costante imprescindibile. E’ morbida malta che, discreta ma efficace, colma fessure cementando lastre di granito altrimenti instabili. Garth Hudson (mi genufletto mentre scrivo il suo nome), Roy Bittan (sono sempre in ginocchio e ho sparso chiodi sul pavimento) e Rami Jaffee sono, per i rispettivi compagni, il rifugio in vetta alla montagna quando impazza la tempesta. La loro arte, di rado sotto i riflettori, è quasi sempre al servizio della band.

Ma è solo una parte della storia. Altre vicende narrano di gruppi che individuano l’epicentro del sound nelle magie elargite dagli 88 tasti. La tendenza a lasciar spaziare aride armonie o telegrafici suoni artificiali porta a soppiantare corde e tamburi con pianole e sintetizzatori sempre più evoluti. La diaspora porta alla nascita di una cultura musicale che rifiuta il ruolo complementare assegnato alle tastiere nel mainstream rock. Diverse correnti di pensiero si fronteggiano e gettano nuove basi da cui ripartire. Dal confronto emergono i pionieri Kraftwerk e, dopo il loro esordio, è un continuo prosperare di band che creano mille sottogeneri - krautrock, new wave, synth rock, industrial, ecc. - collocabili nell’ambito della musica elettronica.
Il presupposto è più o meno questo: se le corde vocali accompagnate dai tre strumenti basilari del rock possono dare vita ad una band, una sola tastiera può sostituire la Berliner Philharmonisches Orchester. Argomento spinoso questo, che potrebbe esaurirsi (forse) solo in un trattato ad hoc.

Ma quali potrebbero essere i componimenti, incontestabilmente rock, nati dal ripetuto battere di quei tasti ebano e avorio? Quali i pezzi in cui l’organo lagna una frase indimenticabile? Quali i brani guidati da un rigido suono sintetizzato che, di diritto, rientrano in una playlist rock? Tanti. Troppi.
Ecco, allora, tre graduatorie alla maniera di Rob Fleming (il personaggio ideato da Nick Hornby per “High Fidelity”) che classificano alcuni esempi di tastiere rock.
Le top five, coprono l'arco temporale che va dalla metà dei ’50 fino a oggi. Dalle infuocate progressioni di Jerry Lee Lewis, uno che malmenava il suo Baldwin con mani, piedi e chiappe, ai sintetizzatori Roland dei Chemical Brothers.


1. La top five dei brani rock con un pianoforte in fiamme:

- Jerry Lee Lewis: Great Balls Of Fire [1957]
Unico e irripetibile, il sound di Lewis fonde honk tonk e boogie–woogie in una miscela altamente infiammabile, proprio come la versione del pezzo composto da Otis Blackwell. Quella del “killer” è una cavalcata pianistica trasgressiva e insolente, insomma, rock’n’roll.

- The Band: Rag Mama Rag [1969]
Un classico del repertorio del gruppo. Garth Hudson è il cuore della band che pulsa pompando sangue nelle vene. In Rag Mama Rag è facile, ad un certo punto, individuare un cambio: la pioggia di note che blandamente si è poggiata sulla struttura del pezzo, inizia a rovesciarsi torrenziale finché non ne impregna il mood. Straordinaria la versione su disco, superlativa quella inclusa in “The Last Waltz”.

- Bruce Springsteen: Jungleland [1975]
Una rimaneggiata E Street Band, più grintosa di quella del debutto, regala al mondo una pietra miliare del rock. L’ingresso del valente “professor” Roy Bittan spinge Bruce a plasmare il suo terzo disco, Born To Run, su partiture di pianoforte. In questo lavoro le liriche concedono la vista agli occhi dell’ascoltatore, mentre il piano di Bittan ha il pregio di trasmettere gli umori narrati.
Jungleland svetta sulle altre sette mirabili registrazioni per solenne autorevolezza.

- Warren Zevon: Werewolves Of London [1978]
Si potrebbero spendere migliaia di parole sul conto di Zevon e delle sue canzoni. Istrionico e talentuoso, il cantautore affida il suo particolare humor a Werewolves Of London, il suo singolo più conosciuto, il più fresco, un brano senza tempo. Ne è prova la truffa perpetrata da quel tamarro di Kid Rock che ne ha fuso un segmento a Sweet Home Alabama (dei Lynyrd Skynyrd) per farne un hit a trent’anni esatti dalla pubblicazione. Il pezzo del compianto Warren resta, però, irripetibile.

- Patti Smith Group: Frederick [1979]
Il brano che insieme a “Dancing Barefoot” salva Wave, quarto album del Patti Smith Group, dall’anonimato. Il pianoforte di Richard Sohl offre a Patti un vellutato tappeto sonoro ove poggiare il tenue canto. Quando il ritmo prende il sopravvento, il piano si mimetizza e conduce gli altri strumenti fino al termine. Nel mezzo c’è spazio anche per un breve accenno di synth. Nell'insieme, il componimento risulta ritmato e allo stesso tempo melodico.

2. La top five dei brani rock con un suono d’organo grosso così:

- The Animals: House Of The Rising Sun [1964]
Musica sacra prestata al pop. Nella versione di House of The Rising Sun degli Animals, Alan Price rende profana una musica che ricorda gli inni che riecheggiano in chiesa. E’ magistrale il binomio organo-voce del triste pezzo condotto dalla tastiera di Price e dalla sofferta voce di Eric Burdon.

- Bob Dylan: Like A Rolling Stone [1965]
Assolutamente trascinante il motivo proposto dall’organo di Al(an) Kooper. E pesare che questo poco più che ventenne sessionist non doveva essere in sala d’incisione. Costretto a rivestire un ruolo improprio, il baldanzoso chitarrista, riesce a reinventarsi organista pur di suonare con Dylan. Durante le registrazioni per Highway 61 Revisited realizza, all'impronta, un capolavoro che aiuta Like a Rolling Stone a diventare un pezzo storico. A testimoniarlo è un evento particolarmente importante: quando Dylan entra in scena per pronunciare il suo discorso alla Rock’n’Roll Hall Of Fame (1988), viene accolto proprio dal riff di organo creato da Kooper.

- The Doors: Light My Fire [1967]
La band trasgressiva. La band senza basso. La band del poeta dallo sguardo magnetico. La band che ha fatto del suono d’organo un marchio di fabbrica. Light My Fire è un pezzo coi fiocchi soprattutto per merito di Manzarek.

- Deep Purple: Highway Star [1972]
Non è un brano che mi fa impazzire ma poco importa. L’assolo di organo dura solo un minuto ed esalta le qualità di Jon Lord: ogni tasto un grilletto, ogni grilletto un colpo. E di colpi, la sua tastiera, ne spara a raffica. Per tutto il resto del brano l’organo si piazza in una zona d’ombra e il suo suono non soccombe e non sovrasta gli altri strumenti.

- The Wallflowers: Bleeders [1996]
Rami Jaffee riporta in auge il ruolo dell’organo. Con piglio autoritario direziona il suono della band regalando agli appassionati di rock un vero gioiello. La sua proverbiale capacità è la chiave di volta del successo di Bringing Down The Horses. The Bledeers include ritmi rock e momenti più riflessivi nell’arco di 3 minuti e mezzo mantenendo sempre alta la tensione: un pezzo così andrebbe studiato a scuola.

3. La top five dei brani rock (o quasi) condotti dal sintetizzatore:

- Joy Division: Love Will Tear Us Apart [1980]
E’ rock fortemente influenzato da suoni elettronici quello di LWTUA. Il suono del sintetizzatore è freddo e riconoscibile al primo ascolto. Un sibilo fastidioso e sinistro che ben accompagna le tristi liriche. Un capolavoro.

- Eurytmics: Sweet Dreams (Are Made Of This) [1983]
E’ una dicotomia evidente a portare inalterato il fascino del brano sino ai giorni nostri. La voce di Annie Lennox è suadente mentre il synth è algido. E’ tra i brani più significativi e più sputtanati degli anni ’80, finito in tutte le più becere compilations dell’epoca.

- Van Halen: Jump [1984]
Ignobile brano, ignobile il suo autore. Chi l’avrebbe mai detto? Jump è assolutamente dipendente dal suono di synth eppure Eddie Van Halen è un chitarrista dalle funamboliche abilità. Ma con queste, non sempre si porta la pagnotta a casa. Brano indispensabile, nonostante tutto.

- Depeche Mode: Never Let Me Down Again [1987]
Nell’ambito della musica elettronica è quanto di più vicino al rock suonato con gli strumenti tradizionali si possa trovare. Davvero pregevole l’apertura del chorus dopo toni cupi e frustrati. Questo brano trova spazio in Music For The Masses, l’album che ha steso mezzo mondo. Splendido.

- The Chemical Brothers (feat. Richard Ashcroft): The Test [2003]
La collaborazione tra i Chemical Bros. e il frontman dei Verve è quasi riuscita. I registri della voce di Ashcroft e i ritmi accattivanti dei sintetizzatori rendono sperimentale e vagamente accostabile al rock il risultato finale.
__________

Nota:
Nella seconda playlist, per un soffio, non c’ho infilato la magnetica Black Mask degli (International) Noise Conspiracy. Un rock martellante, veloce, potente, carico di chitarre. Il suono dell’organo ha poco più di 10 secondi per dominare. E in quella manciata di momenti urla e spacca creando dipendenza.

lunedì 14 settembre 2009

Pearl Jam - Backspacer

Furia punk, pezzi mid-tempo e sentimentali ballate. Backspacer, il nuovo album dei Pearl Jam, racchiude in meno di 40 minuti undici brani dalle diverse sfumature. Il sacro fuoco del rock ricevuto in dono anni fa, viene qui custodito e usato con saggezza: scalda ed illumina ma sa anche ardere e devastare. Ci sono il sound e la personalità che li hanno resi celebri e i primi dieci minuti - con quella Gonna See My Friend che lascia storditi - sono folgoranti. Amongs the Waves, posta al centro della tracklist, è un piccolo gioiello, il ponte di congiunzione che unisce le diverse anime dell’album.

Il 2009 è stato prodigo di pubblicazioni, non proprio significative, di big del mainstream rock. Al modesto Working On A Dream di Springsteen, ad esempio, ha fatto seguito l’inconsistente “No Line On The Orizon” degli U2. Adesso tocca ai Pearl Jam rifarsi vivi con nuovo materiale.

Tra lettere, numeri e simboli, il “Backspacer” (indicato sulle tastiere dei PC dall’abbreviazione “Bk Sp”) è il tasto che svolge l’importante funzione di correggere errori (e/o orrori) con una netta “sbianchettata”, con un semplice ritorno di posizione del cursore. L’omonimo album dei Pearl Jam corregge un bel po’ di scelte della recente storia passata, fino a riannodare la trama di un discorso interrotto undici anni fa.
C’è il ritorno del produttore Brendan O’Brien, con il quale sanno instaurare un dialogo speciale (Vs., Vitalogy, No Code, Yield e la riedizione di Ten sono affar suo) che sembra esclusivo, vista l’impossibilità di funzionare pienamente con altri artisti. Dalla lista dei musicisti il backspacer cancella pure il nome del sesto Jammers, quello “aggiunto”. In sala d’incisione manca il tastierista “Boom” Gaspar e il suono ritrova quel mood naturale, mentre il ritmo riprende quel tiro roccioso che bene sa esprimere la band.

Una curiosità sul titolo. Pochi mesi fa il nome Backspacer ha avuto una destinazione d’uso particolare. Da buoni ambientalisti i Jammers hanno supportato un progetto per la salvaguardia dell’ecosistema marino, battezzando proprio Backspacer la testuggine di mare che nell’aprile scorso (quindi durante le sessions di registrazione) ha partecipato e poi vinto la “Great Turtle Race”, bizzarra gara di nuoto tra simili, indetta per sensibilizzare l’opinione pubblica sul pericolo di estinzione di questa specie animale.
Ma non è di certo lento come l’andamento di una tartaruga, il ritmo dell’album. Gonna See My Friends spara chitarre a tutto volume dalle grate di un garage che dà sul cortile. Partenza bruciante, cattiva come non succedeva con Brain of J tratta da Yield (del ‘98).

Il motore sotto il cofano gira a mille e spinge ancora. L’accelerata di Got Some spazza via tutta la polvere accumulata sulla carrozzeria; il brano è potente, dai cori efficaci anche se discreti, e la sezione ritmica retta dalla premiata ditta Ament & Cameron sfianca i compagni. Lanciato come singolo accalappia clienti The Fixer, testo ottimista e motivo accattivante, da solo non ha senso, ma posto al termine del double-shot di testa forma un trittico che si esaurisce in soli otto minuti: una media da punk band. Bentornati ragazzi!

Una massiccia dose di wah-wah e Johnny Guitar trova nei saliscendi virtuosi della voce di Vedder una soluzione già utilizzata in Alone, b-side inclusa nella raccolta Lost Dogs (del 2003).
E come nel puzzle fumettistico di Tom Tomorrow riproposto in copertina, anche il contenuto del disco è un mosaico di tessere dai colori vividi e opachi che si mescolano per proporre un album dai toni indistinti. O meglio, con Johnny Guitar si chiude il capitolo tosto dell’album (che sarà poi parzialmente riaperto da Supersonic) e con Just Breathe si inaugura il Backspacer dalle sfumature pastello. E’ una ballata uscita direttamente dall’album solista di Vedder (Into the wild, colonna sonora dell’omonimo film di Sean Penn) e si sente. Arrangiamenti di archi e una linea di basso semplice ed in evidenza assicurano un taglio vintage al pezzo.

Da tempo la band ha abbandonato atmosfere cupe fatte di musiche irruente e testi carichi di angoscia, collera e tristezza, ma è in questa nona prova in studio che i musicisti lasciano il passo a soluzioni meno problematiche che includono calma, gioia e piacere. Da bravi patrioti americani che hanno votato dalla parte giusta, i cinque di Seattle non possono esimersi dall’esternare maggiore fiducia nel futuro. Brani come The Fixer, inedito manifesto dell’ottimismo espresso dalla band (“se qualcosa è andato rotto voglio provare a rimettere insieme qualche pezzo”), e la romantica ballad Just Breathe (“Sono un uomo fortunato, per contare sulle mani del mio amore”) sono l’espressione del nuovo corso. Del resto è lo stesso Vedder ad aver dichiarato: “Finalmente un briciolo di speranza, dopo dieci anni di canzoni arrabbiate”. E questo senso di rilassatezza si tramuta in redenzione che permea l’epica Amongst the Waves fortemente influenzata dalla passione di Ed per il surf (“Cavalcando alto fra le onde/ Posso sentire di aver avuto un’anima che è stata risparmiata/ Posso vedere la luce attraversare le nubi sotto forma di raggi”). Liriche ispirate, voce e suoni trattati con effetti eco in aggiunta all’assolo di chitarra di Mike, le conferiscono un taglio epico e la candidano a futuro classico del repertorio.

Unthought known è schiacciata dalla traccia precedente, della quale sembra una copia incolore, e da Supersonic, non eccelsa ma veloce e messaggera di una tesi taciuta fino ad oggi ma tramandata per consuetudine sin dal mitico Ten: “voglio vivere la mia vita a tutto volume” (I wanna live my life with the volume full).

Negli scarsi 40 minuti di durata che servono a riprodurre gli undici brani c’è spazio anche per momenti non proprio all’altezza. Pervaso da una criptica introspezione trova spazio, sul finire del disco, un terzetto di componimenti senza troppe pretese. La ridondante Speed of Sounds (solo omonima della creazione dei Coldplay), l’anonima Force of Nature e la malinconica The End non lasciano un segno indelebile.

A questo punto della carriera i Pearl Jam possono permettersi di avventurarsi in sentieri più commerciali senza perdere credibilità e mantenendo vivo il loro impegno nel tramandare l’essenza di un genere allo sbando. E il rifiuto di sottoscrivere un contratto con una major discografica è la prova che questi uomini hanno scelto di portare avanti, senza pressanti vincoli, una missione nel rispetto di valori inviolabili: su tutti la libertà di esprimere la propria arte.
Let’s rock!

giovedì 3 settembre 2009

Luciano "Varnadi" Ceriello - Radio Varnadi

Radio Varnadi, del bizzarro cantautore veneto-campano Luciano “Varnadi” Ceriello, è un album fuori dagli schemi. Il disco è congegnato in modo da dare l’impressione di ascoltare un’emittente radiofonica: ogni singolo brano, infatti, viene annunciato da speaker. Architettura anomala a parte, il lavoro è composto da 13 canzoni che toccano questioni attuali. Ignavia, vacuità e sessismo vengono trattati con ironia e sarcasmo su musiche che sfruttano le correnti di tutti i rivoli del pop, mentre i temi introspettivi rientrano negli standard cantautorali. Ospiti più o meno consoni (che c’entra una pornostar?) del modo della musica (il chitarrista Mauro Palermo) e dello spettacolo (l’attore Andrea Roncato) partecipano alla realizzazione di tracce che si amano o si odiano, ma che di sicuro non lasciano indifferenti.


Inserendo il CD nel lettore si deve essere pronti ad ascoltare un normale disco. Ma anche no, perché si ha l’impressione di aver acceso lo stereo e di aver centrato la fantomatica stazione radiofonica “Radio Varnadi” che programma il suo quotidiano palinsesto. La trovata riesce nell’arduo compito di lasciare interdetti anche gli ascoltatori più onnivori.

Strano tipo questo Ceriello, “meglio conosciuto come il cantautore con 2 cappelli”, che in Radio Varnadi colleziona tredici canzoni musicalmente dissimili tra loro in cui manca l’egemonia di un genere sugli altri. È una compilation dagli stili variegati che mescola atmosfere cantautorali anticonformiste, massicce dosi di pop, spruzzate di raggae e di elettronica. L’estremo eclettismo che pervade questo lavoro rappresenta un pregio che è allo stesso tempo un difetto. In campo artistico, ormai, tutto ciò che propende al nuovo è visto come una iattura (meglio puntare su schemi già sperimentati he assicurano un guadagno certo) quindi ben venga la proposta di Ceriello. La scelta compiuta, però, può risultare ostica anche per i più illuminati. Sono spiazzanti i brevi parlati introduttivi dei numerosi speaker impiegati nel ruolo di se stessi: introducono i brani proprio come accade durante la messa in onda di un programma radiofonico. Non mancano neanche le informazioni meteo, i jingle, il segnale orario e le telefonate in diretta degli ascoltatori. Ma all’autore, di certo, il coraggio non manca e come si suol dire: “Only the brave …”.

Il cantautore dai 2 cappelli sveste quello del giullare e mantiene quello del cantautore davanti a temi che risultano di grande attualità. L’invito a mettere da parte indolenza ed egoismo giunge tra un sorriso e l’altro. Se Come la mia Barbie è spensierata ed allusiva, ma potrebbe anche essere irrisoria, (“bionda e bella come una modella,/ ma che bomba, beato chi ti …”), La protesta (“non dire, non guardare, non fiatare …/ Il nostro non pensare fa comodo al potere!”) fa il paio con La storiella di Damer (si provi ad anagrammare Damer, ndr) nel riproporre l’istantanea dei nostri giorni. Qui Ceriello si fa affiancare dalla voce di Andrea Roncato per biasimare il periodo più basso della nostra storia politica (“Noto solo merda!/ Noto macchine e politiche di merda! Tra discorsi populistici di svolta noto sprechi per le macchine da guerra!”). Come poteva un brano così schietto, essere selezionato dalla nomenklatura di tromboni che manda avanti Sanremo? Questo almeno, è quello che si apprende dall’introduttiva voce degli speaker Mario La Monaca e Donato Zoppo intenti a certificare, falsamente imbarazzati, l’esclusione del brano dal festival della canzone italiana.

Non mancano episodi che trattano temi introspettivi come Avrei dovuto (“non ti ho detto di contare su me,/ ma non l’ho fatto per me, l’ho fatto solo per te!”) e la nostalgica Padre, muovimi i fili (“percorro lo scavo delle mie memorie, ma mi manca la voce./ Vienimi a cercare!”); affettuosa, invece, la tenera Francesca che Ceriello dedica, e in parte lascia interpretare, a sua figlia (“E’ nata a fine ottobre la principessa/ è nata quando in cielo è apparsa un’altra stella.”).

Ma l’irrefrenabile voglia di stupire è dietro l’angolo. Ecco dunque Big Jim e Barbie tutta incentrata sull’ossessione sessuale del protagonista della storia (“mi piace far l’amore con la figlia del dottore, ma il dottore ci acchiappò e altamente s’incazzò”) e che vede quale special guest, nel booklet non è specificato con quali mansioni, la “porno-sexy-star” Lea Di Leo.
Ben più calzante ed apprezzabile risulta l’apporto del talentuoso (ex chitarrista di Vasco) Mauro Palermo in Sto pensando a te, ballad incentrata su accordi aperti e testo sentimentale (“Son qui solo con me, son qui da giorni sì!!!!!! Son qui pensando a te dall’altro venerdì!!!!!!”).

Radio Varnadi è, in conclusione, un onesto lavoro, tanto anomalo quanto innovativo. Gli eccessi di questo disco difficilmente risulteranno accettabili a quei puristi restii ad accogliere rivoluzioni così radicali. Tenendo ben presente, tuttavia, che ciò che è dissacrante, affascina.

giovedì 27 agosto 2009

Before the fame

I Castiles seguono l’evolversi della scena pop di fine anni sessanta. Jimi Hendrix ha contribuito ad inventare e diffondere il rock psichedelico, così i Castiles riprendono le sue Purple Haze e Fire” (R.K.).

Il breve cenno tratto dal recente "Magic In The Night – le parole e la musica di Bruce Springsteen" di Rob Kirkpatick offre lo spunto per riflettere sul rapporto pressoché inesistente tra la musica del body builder del NJ e quella di Jimi Hendrix e, in più, ripropone un vecchio dubbio: perché il più grande chitarrista del pianeta non è mai stato un punto di riferimento per Bruce?
Sarebbe opportuna un'analisi approfondita ma nessuno s'è mai preso la briga di indagare (anch'io mi astengo).
Distanti per approccio, sensibilità, attitudine e capacità musicale, Springsteen ed Hendrix incarnano l’essenza rock in modo differente. Anche la diversità di estrazione socioculturale (indigenti e problematici, gli Hendrix sono costretti ad affidare, per un breve periodo, il piccolo James ad altra famiglia) porta i due a percepire la musica secondo una visione dissimile. Quasi contemporanei ma sicuramente mai convergenti, i percorsi dei due musicisti non si sono neanche sfiorati. C’è da chiedersi come Springsteen, più giovane di soli sette anni, abbia potuto eludere in fase di erudizione ogni riferimento alle micidiali innovazioni del mancino di Seattle, grande catalizzatore della scena rock dal ‘67 al ‘70.

Le radici della musica di Springsteen, evidentemente, attecchiscono ad un periodo precedente a quello di massima esposizione mediatica di Hendrix e originano da generi ben diversi da quelli che hanno solleticato estro e fantasia dell’afroamericano (escluso Bob Dylan prediletto da entrambi). Jimi è stato, al contrario di Bruce, compositore audace e lungimirante tanto da determinare una corrente musicale il cui impeto è ancora oggi rintracciabile in chitarristi alle prime armi e musicisti affermati. Escludendo i primordi, invece, Springsteen tralascia ogni innovazione, e non medita neanche a rivoluzionare il rock che molto spesso riprende sic et simpliciter in una formula già collaudata, ma distintiva per stile e personalità.

Ma cosa pensa Springsteen dell’opera di Jimi Hendrix? Del suo stile, del suo modo di tenere il palco? Ho sempre cercato una risposta, magari l’ho pure trovata nel mare di testi biografici acquistati negli ultimi 20 anni per poi dimenticarla. Non c’è replica a queste domande che ancora latitano, se non sbaglio, nelle purtroppo ossequiose e ormai molteplici interviste condotte al vigoroso sessantenne.

Al più fidato musicista e collaboratore di Springsteen sarebbe superfluo chiederlo perché, nel suo caso, sussistono tre buoni indizi che costituiscono una prova. Dieci anni fa il buon Van Zandt è riapparso sul mercato discografico con Born Again Savage, album dichiaratamente psichedelico sin dall’immagine di copertina. Nei crediti non viene citata la Jimi Hendrix Experience bensì i Cream, gli Who e Kinks, ispiratori primari di questo lavoro. Ma è al virtuoso della Stratocaster che molti elementi riportano. Suonato da un trio alla stessa stregua della Experience, l’album è strutturato secondo i dettami dell’hard rock late sixties: chitarra distorta in rilievo sotto continuo assedio di rullare di batteria e pulsare di basso.
Per quanto attiene un’ipotetica relazione tra Springsteen ed Hendrix, invece, la notizia che più di altre ha destato un minimo d’interesse tra i suoi fan ha a che fare con il gossip, visto che informa dell’acquisto (ad Atlanta durante le sessions per Magic) da parte del body builder del New Jersey, di un DVD contenente una performance live del genio meticcio. Un po’ poco per formulare la tesi di una presunta folgorazione sulla via di Damasco.

Ma come spesso accade è in maniera del tutto fortuita che ci s'imbatte in notizie interessanti. Perplesso ed annoiato, dunque, inizio a leggere le prime pagine dell'ennesimo libro su Springsteen (appunto “Magic In The Night”) imbattendomi nella suddetta citazione. Ma è il pugno di illuminanti parole che seguono a destare la mia attenzione. “Nel 2004, l’etichetta NPR ha dato alle stampe una registrazione dei ragazzi di Freehold impegnati in un concerto al Left Foot nel settembre del 1967. La pubblicazione indipendente ha consentito al pubblico di ascoltare Springsteen e la sua chitarra elettrica alle prese con il repertorio di Hendrix".

Bingo! Di nuovo sulle tracce di una risposta che cerco da tempo, indago su quelli che possono essere definiti reperti di storia musicale vista la rilevanza delle rare incisioni che includono ed il calibro degli artisti in questione. Riesco a trovare qualcosa (alcuni podcast che contengono spezzoni di Purple Haze e Fire maltrattate dai Castiles) sul sito della NPR, una stazione radio americana.

Gli adolescenti Castiles sono aspiranti musicisti che nel 1965 arruolano “il futuro del rock'n'roll” come chitarrista. I ragazzi cercano gloria emulando le band del momento e cimentandosi con brani originali. Nello stesso anno, il semisconosciuto Hendrix milita, insoddisfatto, nella band di un già dimenticato e dispotico Little Richard (invidioso del carisma del mancino), ha già suonato con Ike & Tina Turner ed ha improvvisato con Albert Collins. Ma nel 1967, quando ancora Springsteen suona nei Castiles, James Marshall “Jimi” Hendrix vive l’anno della consacrazione artistica: incide il debut album “Are You Experienced?” e partecipa al Festival di Monterey in California. In concerto per la prima volta negli States, il chitarrista rivela tutto il suo talento grazie ad uno strepitoso set terminato in maniera sbalorditiva. Il vortice psichedelico di un'esclusiva versione di Wild Thing (portata al successo dai Troggs e rifatta, guarda caso, anche dalla E Street Band quest’anno) lo porta ad incendiare – letteralmente – una Fender personalmente ornata a mano, simulacro da sacrificare in ossequio al suo pubblico.

La trionfale esibizione del trio angloamericano riscuote vasta eco, e il guitar hero per eccellenza sembra aver conquistato anche i giovani componenti del gruppo del NJ. Tre mesi dopo il festival, il 16 settembre ’67, presso il centro ricreativo Left Foot di Freehold, i Castiles suonano Fire e Purple Haze (e due settimane dopo, sempre nello stesso posto, Hey Joe).
L’intera registrazione del concerto dei Castiles è facilmente recuperabile in rete, anche se l'audio è pessimo in confronto a quello diffuso tramite il sito web della NPR.

Nonostante l'importanza della registrazione risalente a ben 42 anni fa, sarebbe lecito pensare ad una pura e semplice infatuazione da parte del quasi diciottenne Springsteen per il rock psichedelico di Hendrix. A voler cercare l'anello di congiunzione musicale tra i due, sarebbe opportuno cercare altrove. Un trait d'union potrebbe essere il medesimo sentimento pacifista che ha condotto sullo stesso terreno i due artisti.
Dopo tante parole, marce e sit-in è di Hendrix l’idea di mettere in musica il desiderio comune a tanti giovani americani contrari alla guerra. E’ storica la performance tenuta nel ’69 a Woodstock, in cui esegue uno stravolto inno nazionale tramutato in una successione di note sibilanti, acide ed intollerabili proprio come i grappoli di bombe sganciate dai B-52 sul Vietnam. Un palese rifiuto del conflitto asiatico non tanto dissimile da quello che ha portato Springsteen, durante il “Vote For Change Tour” del 2004, a proporre una dolente e cupa (al passo coi tempi) Star-Spangled Banner.
Il nesso tra i due potrebbe essere proprio questo. Artisticamente diversi ma accomunati dallo stesso pensiero: Bring ‘em home.
Sull'argomento sarebbe opportuna un’analisi approfondita, ma io mi astengo.

Sorprendentemente anche su badlands.it ;-)

su "The Killer Newsletter" n. 17/2009 ottenibile previa iscrizione al web site killerinthesun.com dello scrittore e giornalista Leonardo Colombati

o sul 5° numero della rivista antologica The Killer Magazine scaricabile gratuitamente qui

venerdì 21 agosto 2009

Unforgettable




"I think people ought to know that we're anti-fascist, we're anti-violence, we're anti-racist and we're pro-creative. We're against ignorance". (Joe Strummer, 21 Agosto 1952 – 22 Dicembre 2002)





venerdì 31 luglio 2009

In the spirit of Crazy Horse

John Trudell and The Bad Dog
Gravina in Puglia, 26 luglio 2009

Carismatico cantore della tradizione dei nativi americani e figura mitica dell’AIM, John Trudell si esibisce ai piedi della Basilica Cattedrale di Gravina in Puglia in uno spettacolo difficile e spigoloso. Sempre in bilico tra liriche oscure e poesie riconcilianti il 63enne poeta, cantante ed attore, propone il suo ostile songbook. Anche la musica dei suoi Bad Dog non cerca preziosismi e risulta scarna, essenziale ma ben combinata al suggestivo canto delle tribù indiane.
L’esibizione è ben lungi dal galvanizzare l’esiguo pubblico presente e la lingua, stasera, è il più temibile nemico di Trudell che solo in parte riesce a trasmettere il senso delle sue composizioni.

Appare sul palco senza troppi convenevoli dopo una breve presentazione. Statico nel suo abito grigio scuro sgualcito e monotono con il suo canto che non presenta variazioni. Nascosto dietro un paio di occhiali scuri, al centro della scena, attende l’attacco del canto tribale del fidato Milton Shame Quiltman per il sottofondo di “Crazy Horse”. E canta, o meglio recita, un mantra che richiama a “giorni selvaggi e giorni di gloria che vivono”. Non è un pezzo autobiografico ma potrebbe esserlo. John Trudell ha vissuto davvero giorni selvaggi e di gloria. Dopo aver rischiato il tutto per tutto solo per individuare uno scorcio di quell’equità appannaggio delle classi dominanti americane, oggi, il saggio artista sembra aver placato i mari tempestosi dell’odio che covano nel profondo.
Ci sono uomini che fanno la storia e uomini che la subiscono. Trudell è un esempio di uomo a metà del guado: troppo pacifico per essere considerato un temibile rivoluzionario, troppo rivoluzionario per essere considerato un patriota americano.
Cittadino statutinitense di origine sioux, John riveste per anni il ruolo di leader dell’AIM - American Indian Movement (costituito nel ‘68 per dare impulso all’emancipazione dei nativi americani) sfidando apertamente il fascismo strisciante dell’amministrazione Nixon e l’indolenza dell’interregno di Ford. Vince preziose battaglie per il riconoscimento dei diritti civili dei nativi ma, per questo, perde la sua famiglia. Anzi perde molto di più: vede la sua idea di uguaglianza, infrangersi sulle coste rocciose dell’odio più estremo e vendicativo.
A 23 anni Trudell, porta a termine un clamoroso successo guidando la popolazione indiana in una celebre invasione non-violenta. Nel 1969, infatti, gli attivisti dell’AIM si recano in California per occupare l’isola di Alcatraz, sede della famigerata prigione dismessa sei anni prima: sono venuti a conoscenza di una vecchia legge che concede agli indiani diritto di priorità sulle terre in esubero abbandonate dal governo federale. L’azione è condotta pacificamente (anche da donne, bambini ed anziani) con l’intento di trasformare l’isola in un centro culturale indiano. L’occupazione dura solo due anni ma richiama l’attenzione sull’irrisolto problema di segregazione razziale che vede, tra l’altro, i nativi costretti a campare in riserve assegnate dallo Stato. L’insediamento sull’isola rappresenta, inoltre, una pur minima ricompensa di tutta quella terra sottratta con la violenza agli indiani.
La riconosciuta capacità di condottiero porta Trudell ad essere nominato portavoce dell’AIM per i dieci anni successivi. Nel 1979 un corteo di dimostranti indiani sosta davanti all’edificio dell’FBI di Washington per protestare sull’assurda piega che sta prendendo la spregevole vicenda giudiziaria del “caso Peltier”. Anch’egli sioux, Leonard Peltier è stato accusato - ingiustamente - del duplice omicidio di due agenti dell’ufficio investigativo federale. Trudell mostra tutto il suo odio nei confronti del simbolo che rimanda a quegli ideali di giustizia e libertà che sembrano non poter appartenere alla sua gente dando fuoco alla bandiera a stelle e strisce in segno di protesta. Viene bloccato, picchiato ed arrestato dalla polizia. Ciò che avviene subito dopo è davvero ambiguo. Trudell è stato appena fermato dagli agenti quando, nel lontano Nevada, una tragica fatalità ancora tutta da accertare, provoca il rogo che distrugge l’abitazione di famiglia causando la morte di sua moglie, dei suoi tre figli e di sua suocera. Questa tragedia, però, non annienta l’identità di Trudell. Le fiamme “uccidono” l’attivista rivoluzionario ma danno vita al poeta non-violento (“scrittore” come lui stesso afferma “per rimanere connesso a questa realtà”) e cantore disallineato. Lo stesso musicista antagonista che sul palco allestito a Gravina, mostra gl’inevitabili segni di una vita fratturata. Piegato dal peso delle rappresaglie di un paese che gli ha dato i natali ma che lo rinnega, ricerca una ragione di vita nella riproposizione di quei canti addolorati che nascono da uno stato di profonda prostrazione che non concede tregua. Dolenti versi che, nel tempo, hanno trovato in Jackson Browne un produttore e in Bob Dylan un estimatore.

Nonostante l’accesso gratuito, però, di estimatori nella piazza pugliese ce ne sono davvero pochi. Ed è un peccato non vedere alcun tipo di entusiasmo per un’esibizione che avrebbe meritato maggior fortuna. Spesso introdotti da un breve parlato, i pezzi richiamano a sentimenti tanto forti quanto rari: il privilegio della ragione intesa come facoltà di pensare e di vincere l’impulsività, il rispetto per madre terra e l’abbandono della rabbia come via alla completa tolleranza. Si invoca insomma una dimensione umana non ancora raggiunta dopo millenni di evoluzione. Ma l’oratore si accorge di quella temibile barriera che è per noi italiani la lingua inglese, ostacolo per la buona riuscita del concerto. Per nulla convinto, allora, dice (in inglese, ovvio!) che il significato delle parole saprà farsi strada attraverso le emozioni, ma così non è. Altri intralci si aggiungono a parole “straniere” che non sempre colgono nel segno: i freddi campionamenti di batteria che risuonano dal palco (purtroppo la band non contempla il batterista) e i lamenti etnici del pittoresco Quiltman allontanano non poca gente. Alcuni vanno fisicamente via, altri restano lì indifferenti a brani chiaramente lontani dalla melodiche canzonette conosciute dai più.

Sulle due ballate (scaricabili gratuitamente dal sito ufficiale dell'artista) How Does Tomorrow Dream e Madness And, tratte dal doppio album “Madness and the Moremes” e su poco altro, la musica trova finalmente il giusto ritmo per rapire la piena attenzione della platea. How Does Tomorrow Dream fonda la melodia sulla tastiera di Eric Eckstein, e il suo essere su quel “they’re killing the children” stentoreo e doloroso pronunciato a più riprese da John. Madness And, invece, è un mid tempo condotto dalla telecaster rossa di Mark Schatzkamer che ricorda il piacevole sound dei Byrds.
Al resto ci pensano l’aura carismatica e la sobrietà dell’artista. Almeno per quei pochi rimasti sino al termine.

----------------------------------------------------------------

Postilla.

I destini di Trudell e Peltier molto spesso si sono indirettamente intrecciati. Sul "caso Peltier" ci sarebbe da scrivere moltissimo ma non è questa la sede adatta. Mi sembra giusto, però, fornire alcuni indirizzi che rimandano ad una corretta trattazione dei fatti.

Nel corso di 33 anni alla vicenda giudiziaria di Peltier si sono interessati enti no-profit, importanti personalità, premi Nobel, artisti e gente comune (Amensty International, Rage Against The Machine, Little Steven, Robert Redford, Desmond Tutu, Rigoberta Menchu e migliaia di altri sostenitori famosi e non).
Attualmente è ancora possibile sostenere il Comitato in difesa di Leonard Peltier ( l’LPDC - Leonard Peltier Defense Commitee ) con donazioni volontarie. Le offerte servono a sostenere le costose spese mediche a cui Leonard è sottoposto e le spese necessarie alla sua tutela legale.
Il “caso Peltier” è stato trattato in libri, film e canzoni. Sul web il sito più completo su Peltier è Free Peltier Now

- Da leggere.
Sull’argomento è stato pubblicato in Italia il libro autobiografico “La mia danza del sole - Scritti dalla prigione” di Leonard Peltier (Fazi Editore, 2005).

- Da vedere.
E’ possibile individuare molte analogie tra la reale vita di John Trudell e il ruolo che proprio lui interpretata in “Cuore di tuono - Thunderheart” (di Michael Apted, 1992). Il lungometraggio, inoltre, offre punti di contatto con il “caso Peltier”.
Anche Robert Redford ha prodotto e prestato la voce per un film-documentario sui fatti di Pine Ridge che hanno portato alla reclusione di Peltier. Il film si chiama “Incident at Oglala - The Leonard Peltier Story” ed è disponibile solo in lingua originale.

- Da sentire.
Una vasta corrente del movimento rock si è mobilitata a più riprese per auspicare una revisione del processo che ha condannato a due ergastoli un presunto colpevole. Il primo a portare alla ribalta il caso di Peltier è stato Little Steven con “Leonard Peltier” (brano incluso nell’album Revolution, 1989). A seguire, manco a dirlo, i Rage Against The Machine con “Freedom” (tratta dall’omonimo album Rage Against The Machine, 1992).

venerdì 24 luglio 2009

Born To Rome

Bruce Springsteen and The E Street Band
Roma, 19 luglio 2009 - Stadio Olimpico

Con uno show di tre ore Bruce Springsteen si esibisce per la prima volta in carriera allo stadio Olimpico di Roma aprendo la tre giorni italiana di questo suo ultimo tour. Rinnegati gli ultimi due album, Magic e Working On A Dream, vengono riproposti molti grandi classici che hanno reso celebre l’artista del New Jersey. Nel cuore della notte il generoso ed energico performer si ricongiunge al suo pubblico più devoto con una esibizione che supera il mero aspetto artistico per approdare anche ad una dimensione fisica.
Il palco a ridosso delle prime file annulla tutti gli ostacoli tra il musicista e il suo pubblico e il rapporto empatico si rinnova anche attraverso numerose strette di mano. Al suo fianco, poi, l’imprescindibile ausilio della E Street Band porta Bruce a difendere validamente il titolo di imbattuto campione mondiale di Rock’n’Roll.

Quando Born To Run debutta nel circuito musicale, Springsteen ha 26 anni, un paio di Converse scalcagnate ai piedi, un mucchio d’idee in testa e una travolgente passione nel cuore. Una passione capace di fargli conquistare – ben al di là di ogni più rosea aspettativa – lo status di indiscusso eroe del rock ’n’ roll. È con Born To Run, infatti, che il musicista mette a fuoco sogni e disillusioni di giovani vagabondi alla deriva ma ancora capaci di scorgere un barlume di speranza in un futuro favorevole. Se invece di essere un disco fosse un film (e a tratti pare davvero uno script cinematografico) la scena madre sarebbe individuabile in quella magistrale immagine della coppia che si lascia alle spalle la città per camminare verso il caldo abbraccio e il fulgore dei raggi del sole, metafora di un domani più rassicurante.
Una vita dopo Bruce Springsteen è un artista affermato, ha da tempo rottamato le vecchie Converse, la sua vena creativa si è un po’ inaridita ma dal suo animo sgorga ancora veemente quella passione che lo rende musicista di primo piano (si veda la sua odierna influenza su molteplici artisti), performer imbattibile (si assista anche solo ad un suo concerto a caso) e uomo sensibile al sociale (è noto il suo impegno in numerose cause benefiche).
Born To Run è ancora oggi una presenza fissa nei suoi show, Bruce è prossimo ai sessanta e se non fosse per la convinzione espressa nell’esecuzione del brano, potrebbe tranquillamente essere scambiato per un attempato riccone che blatera di eventi lontani anni luce dalla sua vita. Ma il rischio non sussiste: Born To Run non è più sua. O meglio oggi, forse, è più del suo pubblico che sua. Quando a Roma le luci illuminano tutti i 40.000 e passa presenti (molti dei quali giovanissimi) l’ennesima riproposizione di quello che è l’inno internazionale del rock ’n’ roll viene cantato all’unisono come fosse un’invocazione, una richiesta accorata di quel barlume di speranza individuata dai protagonisti del noto brano. E per almeno cinque minuti tutti sognano di essere vagabondi che camminano nel sole.
Il concerto romano, anzi l’intero tour, fa leva sul risveglio di emozioni che gli ultimi Magic (2007) e Working On A Dream (2009) non possono suscitare. Si punta tutto, allora, sulla proposta di inossidabili brani della produzione passata a scapito di queste due modeste pubblicazioni. La novità, insomma, è che non ci sono novità. Vengono propagandati solo tre pezzi recenti: Outlaw Pete, Working On A Dream e su richiesta Surprise Surprise (Magic, addirittura, non è affatto rappresentato). Bruce è costretto a sbugiardare se stesso mortificando l’avventata scelta di dare alle stampe due album praticamente brutti che non apportano linfa allo show.

I momenti migliori di questo primo concerto italiano sono quelli che recuperano i cavalli di battaglia. Mezzo prezzo del biglietto viene consumato dalla durissima Badlands (che infonde energia a tutti i fans più accaniti, in coda da giorni) ,perfetto esempio di battesimo del fuoco, una No Surrender che ripropone sui megaschermi immagini amarcord della leggendaria E Street Band (con l’organista Federici ancora in vita), una Seeds da brivido, sporca e ringhiata proprio come ai bei tempi, e una felicissima You Can't Sit Down (“from Ciccio to Ciccio, my old friend!”).
Altri componimenti storici quali Johnny 99 e Atlantic City risuonano a cavallo della mezzanotte. Mostrano chiaramente la capacità di una band in grado di dialogare col blues così come di esprimere al meglio quel country rock tanto caro allo Springsteen memore della lezione dei Creedence.
Raise Your Hand, un R&B del passato, lascia il mattatore libero di scorrazzare su e giù per il palco e fa il paio con Hungry Heart la cui apertura, come di consueto, viene affidata alle ugole di un divertito pubblico. Affettuoso, invece, si rivela il gesto di provare a far cantare il refrain di Waitin’ On A Sunny Day, ad un bimbo che proprio non ci riesce. Bello il ripescaggio di Pink Cadillac, testo allusivo e struttura honky tonk per un brano ripreso anche dal “Killer” Jerry Lee Lewis.
Ormai parte integrante dello show, il momento del jukebox ha un ruolo centrale. Tra la selva di cartelli che vengono letteralmente lanciati su Springsteen da ogni angolo del pit (lo spazio sotto il palco riservato ai primi mille arrivati) vengono estratte I’m On Fire, regalata ad una incredula ragazza prossima al matrimonio, e una Surprise Surprise che da un lato rende glorioso il compleanno di una conterranea del Boss presente tra il pubblico, dall’altro getta nello sconforto i “seguaci” di vecchia data (non a torto!). Prove It All Night, qui un po’ scolastica, è sempre meravigliosa e regala al pubblico un assolo di Nils Lofgren complesso e vivace.
La band è indiscutibilmente in palla e Max Weinberg brilla di luce propria dietro la batteria, mentre un rinato Steve Van Zandt sembra vestire, come un tempo, i panni della vera spalla di Bruce a causa della prolungata assenza di Patti Scialfa (moglie e più o meno musicista/corista della band).
Sul finire del main set risuona American Skin, inaspettata e dolorosa come un pugno improvviso allo stomaco molle e indifeso. Viene eseguita per la seconda volta in questo tour. Springsteen ha passato i guai per averla fatta esordire nel glorioso tour del ricongiungimento artistico con la E Street Band.

Continua su Revolving Doors

mercoledì 8 luglio 2009

4th Of July, Alberobello (Patti)

Patti Smith Acoustic Trio
Alberobello, 4 luglio 2009 - Piazza Indipendenza


In un incantevole scenario architettonico e naturale, Patti Smith regala per un’ora e mezza un’intensa ed appassionata rivisitazione in chiave acustica dei suoi brani. Al chiaro di luna, racconti di vita, morte e resurrezione si vestono di musica e compenetrano sotto pelle come un antidoto salvifico, tra ballate spettrali e rock ’n’ roll impareggiabili. L’artista veste i congeniali panni di sacerdotessa e protagonista assoluta, Lenny Kaye quelli di guitar man e amico fraterno, e Jesse Smith di musicista esordiente e figlia. Il pubblico, invece, ricopre il ruolo di testimone ed esterrefatto comprimario di una serata storica. Assieme alle registrazioni di altri tre concerti, quella pugliese verrà pubblicata in un disco live. Una volta di più, Alberobello è patrimonio mondiale dell’umanità.

Sono le 22 esatte quando Patti Smith entra in scena per aprire questa terza edizione della manifestazione Primitivo Festival - la provincia dei suoni, che coniuga arte e turismo e che mira a richiamare presenze nei luoghi incantevoli della provincia barese con l’avvento di artisti internazionali.
Con il suo gentile incedere l’immancabile Lenny Kaye, longilineo e ormai quasi canuto, compare al fianco della musicista e poetessa americana. Lei, sorridente nei suoi blue jeans infilati in stivali texani e con la chitarra a tracolla, esordisce con un timido ma preciso “Buonasera”.
Con serenità mista a rassegnazione, una nenia dolce e malinconica, apre il concerto. Si tratta di un nuovo componimento offerto alla memoria dello scomparso Michael Jackson. Un pre-set onirico, quasi astratto dal contesto passionale nel quale si svilupperà lo spettacolo.
Patti Smith mito ribelle degli anni ’70, è al centro di un palco spoglio che contempla solo un fondale nero con la riproposizione del logo del festival ospitante ed essenziali fasci di luce ad illuminare la scena. La sua figura, tutt’altro che curata, catalizza lo sguardo della muraglia umana che le si para di fronte e che è stipata in ogni anfratto dell’anfiteatro. Dopo Radio Baghdad, eseguita solo dalla Smith e da Kaye, Jesse Smith fresca dei suoi 22 anni (presentata semplicemente come “my daughter”) fa il suo ingresso sul palco.

Parte l’accompagnamento al piano per Grateful, poi l’aria s’impregna delle dolenti atmosfere di Birdland: i tasti suonano una melodia solenne, la chitarra insegue note altissime e la voce rincorre l’interminabile testo e all’ennesimo “where we are not human, we’re not human”, Patti lascia partire un primo spurgo di saliva. My Blakean Year mostra una Smith capace di tenere sempre alta l’attenzione del pubblico (abilità rara quando lo show è acustico), ma per non rischiare troppo, Redondo Beach vira verso l’allegro motivo affidato all’organo di Jesse e alla chitarra aggiunta di Mike Campbell, suo compagno di vita, che si aggrega al trio. Testo lugubre per un ritmo reggae che si addice al battimani ritmato del pubblico.
Nell’ipnotica Ghost Dance c’è gloria anche per Lenny, che canta qualche verso smussando il ritornello con la sua vocalità dolce, perfetto contraltare ai toni spigolosi della sacerdotessa “maudit”. Lei spesso canta in trance, spesso cerca il non limite del cielo aperto, spesso accompagna i versi con gesti sinuosi, sbraita e scalcia come un mulo, sembra una debuttante eppure calca i palcoscenici che contano da oltre trent’anni (era il 1975 quando ancora giovane appariva su Horses nel bianco e nero a cura dell’amico fraterno Mapplethorpe). Calcoli anagrafici a parte, l’inesorabile luminosità del palco rende evidente un dato di fatto: Patti Smith è vecchia. E la sua vecchiaia viene ostentata senza indugi. Quello che futilmente pare un limite nell’odierno showbiz, è al contrario, il suo punto di forza. È un’artista, non una diva. La sua immagine è di una brutale essenzialità e riflette senza alcun gioco di prestigio l’immagine di una donna di 62 anni. La mostra come dovrebbe essere, senza temere l’evidente ricrescita di capelli perennemente in disordine, senza trucco su occhi contornati da rughe, senza artifici posati sul o nel viso ormai vinto dal tempo e assalito dalla peluria, e senza timore d’inforcare occhiali (tondi e fuori moda) per correggere la vista. Al contrario di molte sue colleghe – e ahimè molti colleghi – è perentorio il divieto di utilizzo di espedienti volti ad ingannare. Ecco, dunque, l’antidiva per eccellenza mostrare il suo naturale declino fisico in tutta sincerità. Uno stile che, con le dovute differenze, richiama quello dell’attrice Anna Magnani, capace di rimproverare una truccatrice che prima di un ciak intendeva coprire quelle che a lei sembravano rughe, ma che in realtà erano racconti di vita. Così pure per la Smith: ogni piega una sofferenza, ogni solco del viso scavato da lacrime amare per la perdita di marito, parenti e compagni di viaggio.

Ma per eroi ed eroine attraversare la tempesta è un obbligo da affrontare con dedizione alla causa. Il fardello di tramandare la stirpe di poeti, maledetti e audaci che va da Rimbaud a Ginsberg, risolleva lo spirito di una donna affranta ma non sconfitta. Una che con slancio ha ripreso un percorso interrotto prima volontariamente (per costruirsi una famiglia) e poi forzosamente (quando la famiglia faticosamente costruita ha perso un cardine con la morte, nel 1994, del marito Fred “Sonic” Smith, già chitarrista degli MC5). Un percorso senza via d’uscita che la veicola nuovamente nel vortice dell’arte. Quel vortice che l’ha condotta in questo piccolo e splendido borgo della provincia barese, dove, per la conclusione dello show, raccoglie ovazioni e gratitudine che ricambia con una passeggiata in platea su Dancing Barefoot. Non è più giovane ma è ancora destinata a cantare l’amore (Because The Night, e questa la sanno pure i trulli), la speranza (People Have The Power) la delusione (la splendida Pissing In A River), il desiderio (Gloria). Recita di anime in pezzi marcite nella disperazione e di ferite rabberciate in qualche modo (proprio in Dancing Barefoot). Per la sua stirpe ogni tempesta muta in arcobaleno, ogni dolore muta in sofisma, in una sorta di congiungimento al nirvana.La sua vecchiaia non ha placato la sua irrequietezza, perché ancora sputa come il codice del movimento punk prescrive e perché, insofferente, punta i pugni ad un cielo che pare voler tirare giù e inchiodare al terreno per annullare un limite invalicabile, con l’intento di disarcionare ipotetici dèi dal loro potere e imporgli un solo giorno di sofferenze su questa terra. La sua autentica aura da bohémien è comprovata da un evento accaduto nel pomeriggio, dopo il soundcheck. Si concede un piccolo giro turistico con l’intento di visitare una minuscola chiesa. Incuriosita dal gruppetto di gente ferma sul sagrato, una giovane famiglia di passaggio si ferma e l’attende. Lei li nota e quasi timidamente chiede il permesso di immortalarli con una foto (“un ricordo da conservare”) che scatta con la sua mitica Polaroid. Esempio sbalorditivo della sua curiosità per persone in cui s’imbatte e per luoghi che l’accolgono. Così come è sorprendente l’improvvisato augurio cantato sul palco (con tanto di “Happy Birthday” intonato in coro da tutto il pubblico) a Stefano, suo locale assistente che è nato il 4 luglio. “Negli U.S.A. il 4 di luglio è il Giorno dell’Indipendenza – dice – e proprio adesso stanno sparando i fuochi d’artificio. È la data designata a celebrare la libertà”, e parte una coinvolgente People Have The Power. Ed è festa, perché nessuno più resta seduto: tutti si riversano sotto il palco richiamati da un’enorme forza invisibile. Ma il lato scapigliato del carattere della Smith non penalizza in alcun modo la professionalità. Lo show, infatti, dev’essere perfetto non solo perché finirà su disco, ma perché il rispetto per il pubblico è sacro. Ed allora, subito dopo Grateful, richiama l’attenzione con un ibrido “Scusè” e chiede al tecnico del suono (che chiama Michele, per nome!) di dare più volume al piano (“Jesse need more piano”) e più spessore alla voce (“and I need a little more vocal”) cosicché la platea possa godere appieno della performance. E conclude con un goffo “Grassie, grassie”. Con la dolce Wing dedicata alla figlia Jesse e a “tutti i bambini in cui è riposta la speranza per un futuro migliore” e l’ardente Gloria (ecco le immagini), si conclude un rito catartico, più che un concerto. Già Signora Smith, non è solo negli States adesso che i botti pirotecnici stanno illuminando la notte. Per una serie di coincidenze, infatti, viene in mente una grande canzone di Springsteen [4th Of July, Asbury Park (Sandy)], che adeguatamente corretta nel nome della protagonista e del luogo sarebbe una perfetta sintesi della serata: “Patti, i fuochi d’artificio scintillano su Alberobello in questo 4 di luglio”.
La "Godmother of Punk", a 62 anni, è poetica, avvincente e più giovane che mai.

Report per Revolving Doors.

domenica 21 giugno 2009

A wop bop a lu bop, a wop bam boom

Fresco, colorato, con un indovinato cast e una sceneggiatura modellata sulla splendida colonna sonora. “I love Radio Rock” (The Boat That Rocked) è zeppo di potente Rock’n’Roll, profondo Soul e sfavillante Rhythm and Blues.
Il lungometraggio di Richard Curtis ripercorre la vera storia di una ciurma di dj rockettari che – è il caso di dirlo – in balia delle onde trasmette illegalmente musica da una nave.
Sotto mentite spoglie il cargo, in realtà una stazione radiofonica in piena regola, diffonde il meglio della musica anni ’60 per tutto il giorno, dal freddo Mare del Nord alla (insospettabile) calda audience inglese.
Una commedia davvero hype con il solito strepitoso Philip Seymour Hoffman, ma soprattutto un film tutto-musica che si pone lì tra Alta Fedeltà, Reign Over Me e School Of Rock.


Bombardare il Regno Unito nel 1966. Ventiquattr’ore su ventiquattro. Dal mare. Colpire i sudditi di Sua Maestà sì, ma a suon di Rock. E’questo l’intento della nave ormeggiata al largo delle coste inglesi. Si tratta di un mercantile occupato da una ciurma di fricchettoni che trasmette illegalmente programmi radiofonici anticonformisti pronti a far dimenticare il noioso palinsesto della BBC.
Rompere gli schemi precostituiti, sconfiggere un bellicoso ministro del governo inglese, far respirare anche ai glaciali inglesi l’odore della libertà attraverso il mezzo radiofonico, mandare in onda la potenza degli Who, i riff dei Kinks, il suono di Hendrix, il miscuglio dei Cream, la melodia di Martha and the Vandellas e il fragore degli Stones per tutto il giorno: a questo serve l’osteggiato progetto di Radio Rock. Certo, anche ad aprire una breccia in un mercato nuovo, s’intende, ma prioritariamente ad esprimere un diverso concetto di radio. Libera.
Gli otto “pirati” dell’etere trovano terreno fertile in un paese che prevede solo 45 striminziti minuti di programmazione Rock. I novelli carbonari, invisi al potere, sono costretti ad ingaggiare con il borioso Kenneth Branagh, una battaglia davvero prodiga di divertenti gag culminanti in sproloqui (e turpiloqui) radiofonici da una parte, e striscianti trame di annientamento dall’altra.
Tanto per rendere le cose subito chiare circa il genere di musica scelto per le immagini, viene affidato ai Kinks dei fratelli Davies il compito di bagnare la pellicola con il corroborante “All Day And All Of The Night”, hard rock ante litteram. La band britannica condivide, tra gli altri, la colonna sonora con i connazionali Cream, presenti con quella “I Feel Free” non inclusa nella prima edizione inglese dell’album “Fresh Cream”, e con l’arcinota With Girl Like You dei meno noti Troggs (quelli di "Wild Thing" che tanto piace alla E Street Band in questo periodo).
Ecco come l’emittente clandestina diventa nel suo piccolo precorritrice di tempi e messaggera di novità che su vasta scala e in ben altro modo, porteranno a quello storico e rivoluzionario ’68. I disc–jockey, del resto, vivono in barca alla stessa stregua di una comune, fanno proprio il motto “make love, not war”, perfino una lesbica fa parte dell’equipaggio e il viaggio, beh, quello non è solo uno spostamento fisico … Tutto sotto gl’occhi del giovane Carl, ultimo arruolato a bordo, in cerca di se stesso ma anche di qualcos’altro.

Il film non dispensa inquadrature a nutrite schiere di dischi, pile di vinili rivestiti da cartoni che ritraggono gli eroi del Rock’n’Roll (è un paradiso visivo quello che si schiude agli occhi sullo scorrere dei titoli di coda), puntine in primissimo piano su solchi di LP danzanti come dervisci rotanti e voci nuove che introducono e sfumano il pezzo con toni inconsueti, a tratti eccentrici, a volte suadenti oppure rozzi, insomma spontanei.
Dischi da custodire come tesori anche in tragici momenti (Bob, dj stagionato, che sprofonda nelle acque con la sua “ricchezza”). Senza dubbio oggetti ma che, diversamente da altre suppellettili, sprigionano un corredo di emozioni che non ha pari. Musiche elettrizzanti o pallide, liriche impegnate o spensierate: tutto l’umano arco emozionale inciso in microsolchi. Difficile abbandonarli, anche a costo di rimetterci la pelle. E poi, a proposito di emozioni estreme, è affidata al “Conte” (ovvero Hoffman) la battuta più divertente di tutto il film. Nell’intraprendere una spericolata sfida con il compagno e rivale Gavin (Rhys Ifans), l’uomo dalla “barba alla Fu Manchu” cerca coraggio in una massima del Reverendo Richard Wayne Penniman (Little Richard) che riassume tutta una filosofia di vita, ovvero: “A wop bop a lu bop, a wop bam boom!”.
Strepitosamente rockeggiante!

mercoledì 17 giugno 2009

Horizons - Quick Change Act

Affiorano intimi racconti dall’ascolto dei sette brani scelti per Quick Change Act, EP d’esordio, scritto, suonato ed autoprodotto dai pugliesi Horizons.
L’album, in lingua inglese, ripercorre con eleganza gli stilemi del pop.

Continua su Revolving Doors