venerdì 16 giugno 2017

Medimex 2017

Si è concluso il lungo week-end barese del Medimex. Nel ricco cartellone l'unico concerto italiano dell'anno di Iggy Pop – per il quarantennale di Lust for Life e The Idiot –, Tricky, gli Showdive e l'eslcusiva del live di Solange insieme a tante altre attività incentrate sulla musica. Un grande momento di aggregazione per decine di migliaia di appassionati che, pur tra mille controlli, è riuscito nell'intento di far emergere il lato più festoso degli eventi musicali.

Il Medimex di quest'anno doveva presentarsi in una veste rinnovata, una special edition per l'appunto, e tale è stata. La sesta edizione della kermesse barese, progetto di Puglia Sounds, non ha deluso per qualità e quantità. Ospiti d'onore di primissimo piano, nuovi esponenti della musica contemporanea e i consueti panel per gli addetti ai lavori – discografici, giornalisti, fotografi, startupper, operatori del settore – hanno lasciato il segno caratterizzando un week-end dedito interamente alla manifestazione. Il Cavallo di Troia scelto per rappresentare graficamente questa edizione lascia spazio a diverse interpretazioni. Forse la più appropriata è anche la più intuitiva: la musica quale moto artistico che si insinua nella città, che permea tra le strade, sulle spiagge, nei palazzi storici e che esplode tra i fragori di suoni e ritmi per catturare gli astanti. Il nuovo Medimex ha cambiato epicentro. Non snoda più le sue dinamiche in un luogo unico, monolitico e periferico (la Fiera del Levante), ma articola il suo capillare approccio soprattutto nel centro cittadino dove espropria benevolmente l'ex Palazzo delle Poste, lo Spazio Murat, il Castello Svevo e Piazza Prefettura. Impossibile non rimanere coinvolti dalla manifestazione. Tutti gli eventi, del resto, sono stati offerti a titolo gratuito. A pagamento se ne sono contati solo un paio, ma anche per essi valeva la pena un esborso equo pur di garantirsi l'abbraccio dell'arte musicale.

La mostra David Bowie & Masayoshi Sukita: 40° anniversario Heroes dà l'avvio alla rassegna, l'8 giugno, con il maestro della fotografia giapponese presente in carne e ossa per raccontare la mitica sessione fotografica che ha fermato nel tempo l'iconica espressione di Bowie per il suo album Heroes. Un binomio, quello tra il maestro della pellicola e il Duca Bianco, che ha formato un sodalizio lungo e fruttuoso ben raffigurato con le stampe esposte all'interno delle splendide stanze del Castello Svevo. Oltre 23 gli scatti inediti mai esposti in Italia, con Iggy Pop a fare da “subalterno” a Bowie in fotografie che lo ritraggono calato nei panni di un folcloristico giapponese con tanto di geta ai piedi. Un mostra che ha da subito riscosso successo e che resterà aperta fino al prossimo 2 luglio.

Proprio Iggy Pop, già coprotagonista negli scatti di Sukita, è stato artefice indiscusso di questa edizione del Medimex. Il suo concerto è stato davvero emozionante, trascinante e d'impatto. Non è un iperbole. Iggy è indubitabilmente un uomo anziano di 70 anni, è pieno di acciacchi ed evidenzia un passo claudicante, ha una pelle pachidermica e l'artrosi ha predato le sue dita. Iggy è tutto questo, ma è anche esattamente l'opposto.
La sera del 10 giugno, decine di migliaia di spettatori sono accorsi da ogni parte della Penisola al concerto in esclusiva per l'Italia. Fortunati fans hanno assistito a due ore di pura intensità tra salti, piroette, capitomboli giù dal palco (fortunatamente senza conseguenze), spurghi salivari punk a profusione e rock'n'roll come gli dei del ritmo comandano. Iggy, ancora oggi, sembra dare la polvere a smunti artisti che calcano le scene e denunciano un'età anagrafica tre volte inferiore alla sua. L'iguana galvanizza la band – superlativa –, sobilla la moltitudine pressata in piazza Prefettura (le stime oscillano tra 50.000 e gli 80.000 presenti) e si presta ai fotografi come una diva d'altri tempi. Iggy, insomma, è uno nato per stare sul palco e anche sotto quando, a più riprese, si lascia andare ad una fisicità ostentata e quasi da subito realizzata con abbracci concessi ad un pubblico in visibilio. Quella dello statunitense è davvero una gran performance incentrata sui classici degli Stooges e sulla produzione solista, con tanto di bis inatteso.

Il giorno prima, venerdì 9 giugno, è Tricky ad esibirsi in piazza. Intenso, notturno, torbido. Sono gli aggettivi che più frequentemente si usano per descrivere le sue musiche, le sue tracce meticce, che intersecano generi senza un'apparente delineazione. E sono aggettivi che posso essere ribaditi anche per le riproduzioni nella dimensione live.
L'inglese non è di certo munifico, ma è un professionista del mainstream pop e lo dimostra regalando al pubblico una performance impeccabile che coniuga il repertorio con le uscite più recenti. Il cantante di Bristol ballonzola nel buio, tra luci basse e prevalentemente blu, costringendo la vista a spegnersi nell'oscurità per concedere all'udito il primato dei sensi. Oltre a lui, sul palco, un chitarrista che picchia duro e un batterista che si divide tra tamburi e laptop. Performance speciale anche questa, che poco si abbina ai toni dimessi del set eseguito a ruota dai redivivi Slowdive.
Tricky incendia, mentre gli Slowdive soffocano il climax con un concerto piatto e privo di ambizione. Appesantiti, statici e fuori contesto, i componenti del gruppo ripropongono uno shoegaze fuori tempo massimo, che non avvince e male si adatta a tallonare le impennate ritmiche impresse poco prima da Tricky-Adrian Thaws. Eppure il pubblico accorre numeroso e schiere di giovanissimi sembrano impazzire per la sola presenza della band britannica lì, tra i fumi di scena bucati dai led luminosi.

Nota a margine: i controlli. Doverosi, efficienti e praticamente a tappeto. Ma la massiccia presenza delle forze dell'ordine non ha frustrato le decine di migliaia di appassionati accorsi a Bari per godersi in pace gli spettacoli musicali. Le barriere di cemento e di metallo stridevano con il clima festoso, ma non hanno impattato più di tanto sulla generale spensieratezza che ha ammantato tutti gli eventi.

La chiusura di questa Special Edition del Medimex, domenica 11 giugno, è stata affidata a Solange Knowles (sì, per la cronaca, la sorella di Beyoncé) in un Petruzzelli che per una sera ha dimenticato di essere un istituzione tra i teatri italiani e si è trasformato in una succursale dell'Apollo Theater di Harlem.
Tra scenografie in stile sixties, costumi a metà tra le tute di Star Trek e pigiami a buon mercato, coreografie vintage e una all-coloured band con tanto di sezione fiati, Solange e i suoi hanno preso per mano il pubblico. Un pubblico che si è lasciato condurre, sin dall'avvio, tra ritmi e armonie della black in una sintesi di genere tradotta dal mood dei nostri giorni.
Solange canta – bene, e non è un dettaglio –, balla, scende dal proscenio in mezzo al pubblico generando il panico tra la security e l'entusiasmo in platea, e si avventura a salutare gli afroamericani che occupano un palco laterale. Scatenata, e allo stesso tempo “disciplinata”, rassomiglia alla sua più famosa sorella ma senza lo stesso carico di supponenza, scevra di quel manierismo tipico da star. Il suo concerto, strutturato sul successo dell'ottimo A Seat at the Table, convince e gratifica l'uditorio.

Il comunicato stampa redatto per la chiusura del Medimex 2017 conferma, grazie al computo numerico, il successo della manifestazione. Oltre 120.000 le presenze tra concerti, attività professionali, incontri d'autore, djset, mostre e attività collaterali con 200 artisti coinvolti, oltre 200 operatori, 1.000.000 di contatti sui social, 130 testate accreditate e una ventata di turismo in più per il capoluogo pugliese.

Una conferma circa quanto fin qui svolto nei sei anni di Medimex, ma anche una bella affermazione per Cesare Veronico, il nuovo direttore artistico della kermesse, e il suo staff.
Un riscontro positivo che, più che ad un punto di approdo, assomiglia ad un rinnovato avvio per le future edizioni.

 
 
 
 
 All images are © Francesco Santoro

sabato 10 dicembre 2016

Bruce Springsteen – Born to Run, l'autobiografia

Qualcuno ha detto che “l'uomo ha una vasta gamma di comportamenti e di possibilità che vanno dagli abissi della dissennatezza sino alle vette eccelse di una divina felicità”. Pochi sono gli uomini che hanno potuto esplorare questa varietà emozionale da un estremo all'altro. Pochissimi coloro che hanno avuto la fortuna di poterla raccontare. Uno di questi è Bruce Springsteen, talentuoso e fortunato cantautore americano che per i suoi 67 anni ha pubblicato l'autobiografia Born to Run.

Bruce Springsteen ha recentemente messo su carta la storia di uno dei suoi personaggi più riusciti, uno di quelli che popolano i suoi testi, un tipo che sembra davvero autentico. E di fatto lo è, perché Bruce racconta sé stesso senza la mediazione di uno di quei caratteristi delineati a scopo narrativo per le sue canzoni. Springsteen provvede a traslare il titolo del suo epico album del '75, Born to Run, per dedicarlo alla sua autobiografia e per concedersi la facoltà di sentenziare sul suo passato e sul periodo che lo ha visto formarsi, crescere e prosperare nell'America che tutti i suoi fans hanno imparato a conoscere attraverso un percorso artistico quarantennale.

Il libro, edito da Mondadori e tradotto da Michele Piumini, ripercorre l'esistenza del cantautore del New Jersey in maniera cronologica e con dettagli personali mai pienamente svelati prima. I capitoli introduttivi scorrono all'insegna di una narrazione capace di mappare l'albero genealogico della famiglia Springsteen con una precisione che denota grande interesse per le proprie radici.
Tra queste la dottrina cattolica è parte essenziale e fa da sfondo alla formazione di chi si affaccia al mondo ma malvolentieri accetta le briglie di dogmi e formalismi liturgici. Un rifiuto stemperato dal tempo fino ad un totale annullamento, anzi, fino ad un cambio di prospettiva in età avanzata, ovvero ai giorni nostri, che lascia il passo ad un ritorno religioso prorompente, in una sorta di panteismo sui generis. Il nucleo domestico, dunque, offre suggestioni indelebili i cui frammenti sono sparpagliati nell'intero songbook springsteeniano.
Il parentado è relativamente grande e i singoli componenti educano secondo ruoli indistinti, esacerbando originarie influenze italo-irlandesi, con una faziosa predominanza della tradizione italiana. Un ambito che risulta saturo di conflitti irrisolti e sentimenti negati; un perimetro entro il quale prospera un insolito (per i tempi) groviglio anarcoide che instilla, nel giovane Springsteen, un imprinting umorale alimentato da prostrazione e sbandamento, accanto ai più noti aspetti di tenacia ed esuberanza. Ed è questo un risvolto che Bruce preferisce rimarcare: la sua ordinarietà da contrapporre, una volta su tutte, alla sua eroica immagine pubblica. Una dichiarazione dalla sincerità disarmante (“una storia che avevo bisogno di raccontare”) palesata presumibilmente per esorcizzare un alter ego ancestrale e autodistruttivo.  

Born to Run accoglie pensieri così intimi che a tratti infondono, nel lettore, l'idea di raccogliere una confessione imbarazzante, proprio mentre l'autore usa espedienti per andare e tornare dal precipizio. Ed è questo l'aspetto del privato che più desta attenzione e, dopo un primo momento di sorpresa, stima. Il divario tra la solidità che il cantautore ha sempre rappresentato sotto i riflettori, la facilità di “tenere il palco”, la voce spavalda e dai toni potenti – peraltro accompagnata ad una fisicità solida e implacabile – contrasta con una routine saturata da fragilità, incertezze, psicoterapie e continui viaggi solitari improvvisati per mitigare demoni invincibili. Contrapposizioni mai messe in piena luce prima e che qui hanno il compito di fissare la distanza tra la figura dell'entertainer di successo e la fallibilità dell'uomo che affronta il quotidiano. Springsteen, insomma, ridimensiona sé stesso e straccia (proprio come quei volantini dai toni enfatici nell'Hammersmith Odeon) quelle convinzioni sublimate dai suoi ammiratori sulla scorta di trionfi e riconoscimenti. Sin dalla prima metà del libro emerge, inattesa, l'ammissione di una depressione incipiente: un ponte dai tavolacci sconnessi che pencola sul baratro.

Per quanto attiene il percorso artistico (e commerciale, s'intende) Bruce Springsteen è ovviamente consapevole di aver colto una rara nonché consolidata affermazione nel mainstream rock e ne parla con toni trionfalistici, pur soffermandosi a meditare su quanto ardua sia risultata la scalata alla vetta degli dèi (“Non sapevo con sicurezza che cosa volevo, ma quando lo trovavo ne riconoscevo l'odore”). Sono numerosi gli aneddoti che ripercorrono le frustrazioni, i passi falsi e le sconfitte: cadute ammortizzate – tutto sommato – grazie all'ausilio di una dote naturale e di una caparbietà straordinaria (“Il mio talento, il mio ego e i miei desideri erano incontenibili”).
Traspare disincanto misto a romanticismo nella ricostruzione dei primi album; si manifesta con tutta la sua importanza la produzione de The Ghost Of Tom Joad, spartiacque di metà carriera; mentre è ben più agrodolce l'osservazione sul recente Wrecking Ball caricato da aspettative sovrastimate, ben presto affossate dal mancato gradimento di pubblico e critica.

(Photo Credit: Art Maillet)

Tra le pagine di Born to Run affiora il pensiero dell'uomo che analizza la genesi di una nuova famiglia, il valore dell'amicizia, l'incongruenza della vita, l'ingiustizia sia personale che sociale, ma che è ben lungi dal rinnegare i piaceri di una vita faraonica pur debitoria di un'estrazione proletaria. Nelle oltre cinquecento pagine che compongono questa storia personale c'è soprattutto l'artista che descrive la sua ispirazione e la sua passione per la musica, l'arte che tutto gli ha concesso in cambio del sacrificio di affetti e relazioni. A tal proposito non mancano motivi per scandagliare un primo naufragio matrimoniale, con la modella e attrice Julianne Phillips, e la successiva autentica ricostruzione della fede in una nuova avventura sentimentale con Patti Scialfa, àncora tra le mura domestiche e primo – nonché unico – elemento femminile in pianta stabile nella E Street Band.

Già, la sua sgangherata cricca con strumenti al seguito! Esemplari risultano le pagine incentrate sulle dinamiche di quel fenomeno musicale che risponde al nome di E Street Band, “il” gruppo di Springsteen che in ambito rock ha calamitato popolarità e guadagni principeschi, pur tra diverse scollature e passate tensioni. Particolare non da poco riguarda il legame con il chitarrista Steve Van Zandt, certamente autentico, ma meno solido di quanto pubblicizzato in più di un'occasione. Toccante la sezione dedicata agli scomparsi Danny Federici (organista) e al partner scenico Clarence Clemons (sassofonista). Ogni elemento della band viene posto in piena luce e, finalmente, si rende formale apprezzamento a Nils Lofgren, chitarrista generoso e dotato di mirabile maestria, da sempre relegato a subalterno d'eccellenza.
E dopo il flashback dai contorni opachi sulla separazione con i sodali della E Street, trova spazio l'emozionata rievocazione di un reboot della band ammantato, dopo dieci anni di lontananza, da una coltre di perplessità presto polverizzata dall'assordante attacco di Prove It All Night. Un feeling ritrovato durante una prova lì dove tutto è possibile, su di un palco, spiraglio tra il mondo reale e il mondo vagheggiato, che propizia anche una The Promised Land “leggera come una piuma e profonda come il mare”. Due pezzi capaci di rinsaldare il legame come se non ci fosse mai stata alcuna scissione, due perle tratte da Darkness on the Edge of Town lo stesso disco inclusivo di brani che, parole del musicista, “se ancora oggi formano il nucleo dei nostri concerti forse è perché rappresentano la quintessenza del rock che volevo fare”.

(Photo Credit: Danny Clinch)
 
Come ogni autobiografia che si rispetti, si notano anche deficit di “sceneggiatura” e scarsità di dettagli lì dove gli hard core fans, per contro, avrebbero preferito apprendere rivelazioni.
Ad esempio non c'è una sola parola a carico dello spiacevole episodio del “No Nukes” quando – il 22 settembre 1979 al Madison Square Garden – durante il concerto tenuto per auspicare un futuro senza energia nucleare, Springsteen schernisce la fotografa Lynn Goldsmith, sua ex compagna.
Irrisolta resta anche la motivazione alla base della decisione di dispensare tutta la E Street Band, sul finire degli anni '80, escluso il tastierista Roy Bittan.
Solo abbozzato, in un passaggio così impersonale che può definirsi cronachistico, un evento che invece avrebbe potuto cambiare le recenti sorti dello Springsteen performer. Viene riportata la notizia, mai trapelata prima, di un'operazione che lo costringe a rimanere muto per più di due mesi. Una piccola grande sciagura per un cantante, archiviata in poche battute quasi ad esorcizzarne la portata (“scoprii che i dischi cervicali del collo schiacciavano i nervi responsabili dei movimenti, dalla spalla in giù. […]L’intervento si svolge così: ti fanno l’anestesia totale, ti aprono la gola, ti spostano le corde vocali di lato, si mettono al lavoro con chiave inglese, cacciavite e titanio, ti staccano un pezzo d’osso dall’anca e ti costruiscono dei dischi nuovi”).

Sovrabbondante, ma basilare per comprendere il corso degli eventi, è, invece, il profilo particolareggiato di Douglas Springsteen. Padre dalla personalità condizionata dai disturbi mentali e dall'abuso di alcol, Douglas sembra impossibilitato ad intrecciare una genuina relazione genitoriale capace di spazzare quella irrisolta condizione di incomunicabilità che lo attanaglia. E' una figura oscura e ingombrante, la sua, che lascia in eredità al figlio un'ombra fredda e abissale. Ed ecco il fulcro del libro: è tutto in questo dualismo che tanta importanza riveste nella poetica di Bruce. Nella parte terminale dell'intera narrazione è recata una delle note più commosse e illuminanti dell'intero libro: “Quel mattino in cui papà venne a trovarmi a Los Angeles poco prima che diventassi padre a mia volta rimane un momento cardine del nostro rapporto. Era venuto per supplicarmi umilmente, per tracciare un bilancio nuovo a partire dagli elementi oscuri e confusi che componevano le nostre vite. […] Mio padre voleva che scrivessi un finale diverso per la nostra storia. È da allora che ci provo, ma storie come questa non hanno fine. La racconta il tuo sangue, per poi trasfonderla nel sangue di coloro che ami, una sorta di eredità”.

(Photo Credit: Frank Stefanko)

Lo Springsteen autore dell'opera letteraria, meno efficace del suo omologo autore di liriche, non è riuscito a compendiare il proprio vissuto alla stregua di una sua proverbiale canzone. Del resto, come avrebbe potuto? Forse val la pena accreditare la tesi che vuole questo scritto punto fermo di un percorso fin qui particolarmente riuscito; il desiderio di imprimere i ricordi per buttarseli alle spalle e ricominciare, se non a correre, a “camminare nel sole” proprio come recita l'epilogo di Born to Run (il singolo).
Per ammissione dello stesso Springsteen – “Non vi ho detto «tutto» di me” –, Born to Run è un'autobiografia parziale e, alla fine della lettura, restano sospese incognite che riguardano la vita pubblica e privata dell'autore. Com'è essere Bruce Springsteen? Fantastico? Un'inimmaginabile babele? Un po' dell'uno e un po' dell'altro? Cosa altro sarebbe successo senza lo splitting tra il Boss e la E Street Band all'apice del successo? Springsteen stesso cerca di risolvere il dilemma tra le pagine di questo memoir, ma forse è proprio l'unico incapace di esporre ipotesi e congetture.
Ci sono molteplici anime che sono riuscite a strappargli un passaggio su quella Chevrolet Corvette del '60 dai cerchioni Cragar sfoggiata come un trofeo in copertina. Sono molteplici le personalità racchiuse nello stesso uomo, nello stesso artista obbligato a “decidere chi far scendere dalla macchina” prima di riprendere il viaggio con una stridente sgommata.
Per questo, a tutti coloro che approcceranno al testo, sarà bene ricordare che Bruce Springsteen è uno storyteller e che come tale si è addentrato in questo esercizio introspettivo. Per dirlo alla sua maniera, “c'è qualcosa di strano nel raccontarsi per iscritto. A conti fatti, non è che una storia, una storia che ho composto a partire dagli episodi della mia vita”.

venerdì 22 aprile 2016

RNDM - Ghost Riding

Il 2016 segna il ritorno musicale dei RNDM, il trio in passamontagna arancio. Joseph Arthur, Jeff Ament e Richard Stuverud buttano nella mischia Ghost Riding che dal precedente Acts eredita brani mid-tempo, cori orecchiabili e progressioni ariose arricchite da pattern elettronici ed espressioni melodiche lineari.
La registrazione delle tracce vede il solito Brett Eliason coinvolto nel processo d’incisione portato a termine, in parte, anche presso lo Studio Litho di Stone Gossard. Oltre Jeff Ament, quindi, altri elementi riconducono nel perimetro dei Pearl Jam, ma il contatto non è mai sostanziale, anzi rifugge da qualsiasi vincolo con il sound della band di Seattle.
Il mood del nuovo progetto risente della rilassatezza dei RNDM, ovvero Random, che collocano gli undici brani in un alternative rock morbido dalle guise polimorfe. Il risultato è spontaneo, confortevole e si manifesta sin dal primo ascolto. Stray rispolvera e revisiona, attualizzandolo, il credo hippie, mentre Confortable, che a sprazzi ricorda Bowie, non rinuncia a lambire stilemi tracciati da illustri predecessori. Qui la condiscendenza è con tutta probabilità incidentale, al contrario di quanto avviene con il deliberato ritorno (dopo Walking in N.Y.) tra i grattacieli della Big Apple per NYC Freaks.
La volontà di non allontanarsi mai da una comfort zone rassicurante è palese e il disco resta spesso ancorato a certo alternative dei ’90. Sebbene retrospettivo, accademico per alcuni versi, Ghost Riding riesce a destare interesse grazie alle peculiarità da fuoriclasse sciorinate dai componenti della band.
Resta solo un quesito irrisolto: quale sarebbe stato il risultato finale se i tre avessero lasciato affiorare il loro antico ardore? Un briciolo di audacia avrebbe conferito maggiore spessore alle composizioni, ma talento e fiuto per le buone vibrazioni rendono il secondo album dei RNDM – questa volta pubblicato per l’illustre Dine Alone Records – un disco piacevole. Non incendiario, non cruciale, ma in grado di regalare un tappeto sonoro che pencola tre buone trovate e accoglienti rimandi.

lunedì 16 novembre 2015

Alessandro Portelli - Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni

Il mondo del lavoro permea una grande parte del songbook di Bruce Springsteen. L’occupazione (o la sua mancanza) determina una serie di conseguenze che influenzano fortemente la condizione umana dei personaggi al centro della sua opera.
E’ questo l’humus che alimenta le redici di Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni. Il libro di Alessandro Portelli, pubblicato da Donzelli Editore, rende vivido l’aspetto proletario delle canzoni di Springsteen, lo inquadra in un contesto letterario, storico e lo interconnette all’attualità e alla discografia di altri cantori del lavoro. 
  

Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni di Alessandro Portelli – docente di Letteratura angloamericana all’Università “La Sapienza” di Roma – indaga la produzione narrativa che il cantautore del New Jersey incentra sul lavoro, tòpos dell’esperienza artistica di Springsteen: il lavoro che avvia il processo di crescita personale, il lavoro quale propulsore del riscatto sociale.
Come indica il titolo del libro, è Badlands, brano foriero dell’urgenza di affrancare la propria vita dal disprezzo, il leitmotiv che cuce i capitoli uno per uno. Le sue liriche rivelano un protagonista furioso e disilluso, eppure razionale e incline tanto all’autodeterminazione quanto alla denuncia sociale. Sono dinamiche che animano tutto Darkness On The Edge Of A Town, l’album dischiuso proprio dalle note di Badlands.

Il libro di Alessandro Portelli ha il grande valore di rigenerare il significato di brani “inariditi” dall’ascolto, di parole che, a furia di essere mandate a memoria, hanno ormai raggiunto la sazietà semantica. Portelli esprime un punto di vista soggettivo sull’opera di Springsteen ma scandito dall’oggettività del letterato – nonostante il palese coinvolgimento emotivo e una personale aneddotica. Springsteen e l’America: ovvero come Springsteen interpreta la “terra delle possibilità”  riflettendo sulla tanto enfatizzata mobilità del lavoro che dovrebbe promuovere il riscatto sociale ma che, più spesso, degrada in ricatto sociale. L’indagine di Portelli ripercorre quel coacervo di umiliazioni che caratterizzano le dinamiche comportamentali dei protagonisti delle canzoni di Springsteen. Fatiche, benefici, privazioni, successi, iniquità che risollevano o demoliscono la vita di un nugolo di personaggi.
Un lavoro che non ti ispira è come una condanna” scrive Portelli, sostenendo un epifonema pronunciato da Springsteen “in uno dei suoi rari interventi politici in pubblico”. Il  musicista auspica un’America in cui tutti possano ottenere “un lavoro che ti soddisfa, che dà senso e motivazione alla vita”, ma l’utopia di un’ascensione occupazionale è quasi sempre frustrata nelle sue canzoni. Forse solo in Darkness on the Edge of Town, la title track del disco pubblicato nel ’78, Portelli ravvisa gli estremi per delineare “l’unica storia di mobilità verso l’alto in tutto il canone di Springsteen” (Now I hear she's got a house up in Fairview, and a style she's trying to maintain […] Some folks are born into a good life, other folks get it anyway anyhow. I lost my money and I lost my wife) ma con l’inevitabile risvolto negativo, un contrappeso quasi sempre presente “quando si parla di gente coi soldi” invischiata in vicende dai risvolti opachi.

Anche Born In The U.S.A., il brano più popolare di Springsteen, “condensa tre temi di fondo: l’orgoglio patriottico, l’esperienza della guerra, la condizione operaia”. L’orgoglio patriottico, abbinato all’ostentazione di un’estetica da scaricatore di porto postmoderno, è quello che ha alimentato un persistente bias cognitivo mistificatorio: Springsteen nazionalista tout court. Eppure, scrive Portelli, è ben chiara la posizione del reduce dal Vietnam (l’io narrante born in the U.S.A.) “offeso in quanto americano, perché l’America ha fatto ai suoi cittadini una promessa e non l’ha mantenuta, ha fatto balenare un sogno che continua a rinviare”.

Continua su SENTIREASCOLTARE.

mercoledì 4 novembre 2015

Medimex 2015

Si è svolta a Bari, dal 29 al 31 ottobre, la quinta edizione del Medimex. Il salone dell’innovazione musicale ha incrementato il suo seguito e ha portato in Puglia artisti desiderosi di farsi strada e musicisti già nel “giro che conta”. Fiore all’occhiello della manifestazione l’installazione «Light Paintings» (aperta fino al 14 novembre presso il Teatro Margherita) di Brian Eno.

Per ospitare il Medimex la Fiera del Levante si è trasformata per la quinta volta in una cittadella della musica, crocevia di artisti indie e mainstream, capace di attirare un numero vastissimo di spettatori, operatori del settore e artisti. Il bilancio finale computa 50.000 presenze e conferma l’utilità dell’investimento sulla cultura musicale.

Gli invitati a condividersi la scena erano tanti: l’impresa vera era seguirli tutti. In cima alla lista delle priorità c’era il panel con Brian Eno, artefice di una trattazione tanto sincera (“ho promesso a me stesso che non avrei mai avuto un lavoro") quanto autoironica (“dirò cose che non importano ad alcuno”) che ha solo lambito i trascorsi di musicista e produttore per dettagliare il suo percorso di visual artist e cercare di spiegare genesi e finalità di Light Paintings, una serie di opere da lui concepite e “dipinte con la luce”.

Appuntamenti interessanti anche quelli con Lo Stato Sociale, gruppo di ragazzi che hanno le idee ben chiare e che vantano una coerenza che sembra fuoriuscire d’altri tempi; con i Deproducers che hanno presentato la loro idea di “musica per conferenze spaziali”; con il sempre lucido Erri De Luca che annovera un recente sodalizio artistico con Nicky Nicolai e Stefano Di Battista.
Tra i più celebrati Ludovico Einaudi – impressionante il seguito del compositore tra i giovanissimi – Carmen Consoli che racconta come “è tutto in costruzione” dopo aver data alla luce un figlio e David Lang – premio Pulizer per la musica e compositore USA dell’anno nel 2013 – autore della colonna sonora del film Youth (Paolo Sorrentino).
Seguitissimo anche l’incontro d’autore con Vinicio Capossela, autore del libro Il paese dei copoloni da cui è stato tratto l’omonimo lungometraggio presentato in anteprima in versione non definitiva.

Nutrita anche la sezione live, con una predominanza femminile. Hindi Zara ha ottenuto consensi per una performance molto intensa, Natalie Imbruglia ha fatto leva sulla nostalgia dei fans e Carmen Consoli ha raccolto il maggior numero di spettatori.
Gli organizzatori del Medimex confermano una formula ormai rodata, e decisamente vincente, scevra di novità formali. Fiduciosi, aspettiamo di sapere se ci sarà un seguito nel 2016.













domenica 18 ottobre 2015

Joss Stone - Water For Your Soul

Svincolata dai legacci delle major, Joss Stone continua la propria ricerca musicale in piena autarchia. Water For Your Soul fotografa un ulteriore stadio di maturazione professionale che travalica generi e tendenze. Su tutto è la solita duttile voce a persuadere.

Una gestione travagliata, debitoria di viaggi ed esperienze, ma libera di spaziare senza argini. Da un percorso che scioglie nodi, personali e professionali, nasce l'intuizione per il disco. In autonomia da schemi e restrizioni di genere, Joss Stone ha pubblicato Water For Your Soul, album riconducibile al reggae eppure inclusivo di una ricchezza espressiva che travalica le catalogazioni. La Stone convalida il proprio talento con una voce versatile, densa di soul, ma capace di farsi protagonista o di rimettersi al servizio della struttura dei brani. Tra questi, una buona quota degli accenti musicali è in levare e avanza a ritmo di reggae, ma la grana blues sottende ed emerge, a tratti, abbacinante.

Damien Marley, figlio d’arte, collabora al progetto, come pure Dennis Bovell: la loro influenza è tangibile e invita, idealmente, la cerea inglese a lasciare i freddi lidi della terra natia per rigenerare spirito e canto su spiagge battute da sole e ritmi caraibici. Ma anche di world music è intriso Water For Your Soul che la Stone reputa una ricerca sulla presa di coscienza, del risveglio della consapevolezza pur nella realizzazione individuale. Una sorta di new age moderata, riveduta e corretta, che punta sull'elemento naturale di purezza per antonomasia: l'acqua – simulacro che supplisce la musica o qualsiasi altra cosa – capace di dissetare il proprio ego. E’ questo il concetto portante su cui sono strutturati i quattordici brani inclusi nel disco, introdotti dal coinvolgente Love Me scritto con Damien Marley all’epoca della comune militanza nei SuperHeavy.
Pubblicato per l’etichetta da lei fondata, la Stone'd Records, il mood eterogeneo del sound è sicuramente influenzato dalla composizione delle tracce in epoche diverse e qui riunite per dare sostanza all’idea di libertà, purezza e sazietà che l’arte può donare. L’intento dichiarato sembra raggiunto: l’album riluce in un mix di gratificazione personale, di gioiosa condivisione con fans di vecchia data e sostenitori novizi.

Water For Your Soul si lascia ascoltare – nonostante tanta opulenza includa momenti non essenziali – e rientra tra le produzioni più riuscite dell’anno (oltre alla Stone ci hanno messo mano Steve Greenwell e Jonathan Shorten).
Stuck on You e The Answer, ottimi singoli scelti per promuovere l’uscita discografica, si muovono tra territori che offrono impeccabili occasioni per lasciar librare un cantato dai risvolti solari e dai guizzi raffinati.
Water For Your Soul sembra nato per appagare l’io di una Joss Stone in continua evoluzione.