lunedì 17 maggio 2010

NEW AMERYKAH Part Two: Return Of The Ankh


Erykah Badu sforna un disco che profuma di autenticità. Black music istintiva, eclettica e scevra da ruffianerie da classifica. NEW AMERYKAH Part Two: Return Of The Ankh è fortemente radicato nella cultura afroamericana di oggi ma trascende generi e mode per approdare ad una conturbante fusione tra stili. A cominciare dalla copertina - un mix tra psichedelia, fantascienza e misticismo - l’album richiama atmosfere anni '70 dove trame di soul e rhythm and blues si aggrovigliano in una matassa di moderno funk.

Notevoli le citazioni presenti negli undici brani. Il sample recuperato per Umm Hmm viene preso da Take Some Time di Leon “Ndugu” Chancler (tra i migliori batteristi jazz in circolazione). Da Arrow Through Me, di Paul McCartney, proviene il riff di Rhodes piano incastrato tra le strofe di Gone Baby, Don't Be Long. Addirittura salvato dall’oblio lo strumentale Just As I Thought, dell'ex E Streeter David Sancious, capolavoro jazz che in Agitation trova nuova linfa. La musica nera di un recente passato, dunque, si combina a linguaggi attuali (blando hip hop ed elettronica che imbroccano il verso giusto) per lasciarsi forgiare dall'incantevole voce di Badu.

Il primo singolo estratto, Window Seat, strizza l’occhio alle chart - ma con gran classe - e regala cinque minuti di autentiche fluttuazioni emotive. Sessionist di lusso Amir “?uestlove” Thompson (batterista per The Roots) conferma il sodalizio artistico con Badu, impegnandosi a guidare un beat regolare e soffuso. Nel relativo videoclip, controverso e in parte censurato, il coraggio di mostrare la propria nudità è un invito a palesare essenzialità che “esorta a liberare se stessi da strati e strati di pelle o demoni che ostacolano la crescita, la libertà, l’evoluzione”. Un appello a non cadere nella spirale del pensiero collettivo. Il “group think”, termine tatuato addosso come una lettera scarlatta, è un concetto che frequentemente si insinua nell’opinione pubblica fino ad indurre a conseguenze estreme. Girato tra le strade di Dallas, con un enfatico stile anticato, il video si affida a tecniche di ripresa da “guerrilla” (tra ignari figuranti e senza l’allestimento del set). I rimandi al misterioso omicidio di John Kennedy, avvenuto proprio nel “Lone Star State” nel 1963, concorrono a completare un mix di elementi capaci di destare la curiosità di chi non ha mai avuto modo di conoscere, prima d'ora, l'artista texana.
Temperamento ed espressività convivono in un’artista dal piglio alla Angela Davis e dal talento alla Billie Holiday. Madre di tre figli avuti da altrettanti compagni, mai sposata, umanista e non femminista (come ha dichiarato al quotidiano britannico “Guardian”), Erica Abi Wright, 39 anni, è soprattutto una musicista immersa nel mondo delle sette note. E’ lei stessa a stilare una classifica di valori che la vede completamente catturata da “musica, fidanzato e dai miei bambini” (da Window Seat). Traghettatrice di un'epoca che pareva persa, dopo i fasti delle grandi interpreti di Stax e Motown Records, è lei a rinnovare un sound troppo spesso naufragato nel ciarpame della musica nera dal download tanto compulsivo quanto trascurabile. Out My Mind, Just In Time, divisa in tre tempi, è la summa dell’intero lavoro. L'introduzione, per sola voce e pianoforte, rimanda a un’atmosfera da piano-bar tutta whisky, sigarette e pene d'amor perduto. A sussurrare nel microfono, una donna affranta rievoca nostalgica la totale dedizione per qualcuno (o qualcosa). Una condiscendenza che nella seconda parte del brano, con l'arrangiamento carico di rintocchi indiziari, si rivela in tutta la sua asimmetricità. Jazzy e liberatoria, la terza parte lascia presumere in un riscatto. Posto per ultimo, come a voler passare inosservato ai più distratti, e a risultare premio esaltante ai più attenti, l’intero componimento svetta per sincerità e potenza evocativa. Badu si immerge in un soffice canto, morso dal tormento, per interpretare tutta la sua prostrazione: dieci minuti in cui un sound braccato dal passato ripara nel presente. Sembrerebbe, a tutti gli effetti, amore cieco per qualcuno (“ho mentito, ho pianto e odiato per te … sono pazza di te”) ma potrebbe anche apparire disincanto per qualcosa. Il testo è stato ispirato dal poema “What I Will” di Suheir Hammad, palestinese naturalizzata statunitense, nota per i suoi racconti sul Medio Oriente. Badu canta di “resurrezione 6 metri sopra le ceneri” e di “poter volare” mentre saluta con un “benvenuto nuovo mondo” che lascia inevaso un quesito: confessa salvezza individuale o affrancazione di un Paese prigioniero del ricatto? Del resto l’Amerykah citata nel titolo lascia pensare ad un ibrido tra l’America fisica, quella reale funestata da inganni imposti per legge, ed un Paese astratto, idealizzato, reso personale dal confluire del proprio nome in quello della nazione (AmErykah).
Questa Amerykah apre le scrigno delle passioni ed invita a condividere frammenti di esistenza. L’intera narrazione ruota attorno a dinamiche sentimentali che in 20 Feet Tall, Turn Me Away (Get MuNNY), Love e Gone Baby, Don't Be Long, svelano le abilità della performer nel calibrare toni melliflui, monotoni o languidi in sintonia con il mood dei pezzi. You Loving Me (session) è una bozza incompiuta, una scheggia impazzita rimbalzata nel mezzo della set list e lì rimasta. Fall In Love (your funeral) è un'impennata soul su base sincopata che pulsa direttamente da un un ghetto blaster tra i vicoli. Narcotica ed eterea Incense, con Kirsten Agnesta all'arpa, sviluppa sonorità inaspettate e rappresenta il capitolo meno interessante dell'intera opera.
NEW AMERYKAH Part Two: Return Of The Ankh è un calice colmo di tradizione e innovazione capace di dissetare sia chi è cresciuto consumando i vinili di Temptation e Stevie Wonder, sia chi ha apprezzato la cosiddetta corrente “nu soul” di cui proprio Erykah, con il debut album Baduizm (1997), è stata antesignana.
In cerca della “chiave della vita”, l’ankh effigiato in copertina e menzionato nella seconda parte del lungo titolo, Erykah si tiene ben stretta quella prestigiosa della libertà artistica.
I seguaci del “Baduismo” hanno la possibilità di celebrare questa release come una nuova epifania. Per il rito collettivo, invece, bisognerà recarsi all’Auditorium Parco della Musica il 20 luglio, per l’unica tappa del tour italiano.
_______________________________ Un estratto di questo post è stato pubblicato su pool 2.0


domenica 2 maggio 2010

The Black Keys - Brothers

La scritta bianca su fondo nero recita “questo è un album dei Black Keys. Il nome di questo album è Brothers”. Semplice, ironico ed efficace. Brothers è il sesto album del duo blues-rock The Black Keys.

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