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(Mick Grondahl)
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Partito sin dal primo pomeriggio, il tourbillon di gruppi incassa un poco edificante successo. Il sole ancora alto, la temperatura oltre i 30 gradi e il disinteresse di chi ha comprato il biglietto solo per vedere i propri beniamini, rendono anonimi i set degli italianissimi Plastic Made Sofa, dei tanto bravi quanto fuori contesto Gomez (rimpiazzo dei Wolfmother) e dei Gossip che hanno la fortuna di avere in Beth Ditto un autentico animale da palcoscenico (vittima di una spaventosa caduta senza apparenti postumi). Subito dopo lo show della corpulenta soul woman un repentino cambio di temperatura lascia presagire il peggio. Modeste raffiche di vento misto a pioggia costringono la security a sgomberare il pit (spazio riservato ai primi arrivati), ma l’allarme rientra - come pure i fans nel pit - e i redivivi Skunk Anansie occupano la scena con Skin protagonista di un improvvisato crowd surfing.
Dopo tanto rumore, la buona musica di Ben Harper and Relentless7 è preludio al vero evento, anticipato dal duetto con Vedder su una riabilitata Under Pressure.
Ed ecco l’inizio della messa. Sul main stage della nota rassegna musicale si celebra il culto del rock'n'roll. Sciamàno per i presenti, leader di una band in stato di grazia e destinatario di un lascito che attinge alla tradizione, Eddie Vedder cattura, per poi restituirlo amplificato, il sincero affetto di un pubblico in visibilio. La sola vista dei musicisti sul palco libera l’adrenalina di chi ha varcato i cancelli del Parco San Giuliano già dalle dieci del mattino (in maggioranza ragazzi in fila da molte ore prima dell’apertura).
Given To Fly trancia l’impaziente attesa, la splendida Corduroy, con cenni di Interstellar Overdrive dei Pink Floyd, collauda il pogo e l'anti-war World Wide Suicide ridesta i corpi rattrappiti della fiumana di gente pressata sotto al palco. Vent’anni insieme, e non è un iperbole quando si dice che l’affiatamento ha migliorato certi aspetti della band. McCready è semplicemente perfetto: si carica addosso il peso di ogni intricatissimo assolo, salta come Pete Townshend, imperversa, chitarra dietro la nuca, come fosse Hendrix e regala decine di agognati plettri alla folla. Impeccabili i due fondatori del gruppo: Gossard, alla chitarra ritmica, e Ament, al basso. Puntuali Cameron, alla batteria, e “Boom” Gaspar, membro aggiunto, alle tastiere. Vedder è più rilassato e comunicativo ma non meno arrendevole che in passato. Impone i ritmi aggressivi delle origini che soverchiano quelli recenti e più controllati. Gli otto brani estratti da Ten (disco del 1991), o comunque a quell’album direttamente riconducibili - come le outtake di lusso Breath e State Of Love And Trust - doppiano per numero quelli estrapolati da Backspacer (2009).
Momenti di profonda riflessione frenano le impetuose interpretazioni dei musicisti e digradano la tensione in platea. Succede con la nostalgica Elderly Woman Behind The Counter In A Small Town e con la disperata Black (uno dei tanti colori dell’amore, dice Vedder). Ripartenze brucianti lasciano senza fiato. Succede con la rabbiosa Even Flow, quasi sempre presente in scaletta, e soprattutto con la provocatoria Do To Evolution. Il suo contagioso beat incita a dimenarsi, il testo a rinnegare credo distruttore e mito della prevaricazione. Per Red Mosquito la band si avvale dell’ hawaiian lap steel guitar elettrica di Ben Harper per un sound pervaso di Delta blues. Ma non sono solo i fantasmi del Mississippi ad aleggiare nel buio di questa straordinaria notte nella Serenissima: Arms Aloft in Aberdeen rende omaggio all’ultima visione musicale di Joe Strummer. Un Vedder ebbro, di vino, di passione, stecca l’inno per eccellenza; un lampo di smarrimento segna il suo sguardo desideroso di aiuto, ma non è un problema perché ad assisterlo su Alive ci sono migliaia di voci pronte a cantare i versi dimenticati.
Rockin’ In The Free World si tramuta in un sing-along che richiama sul palco Harper, i suoi Relentless7 e Rob Machado (surfista australiano amico di Eddie) per un finale mozzafiato.
L’ultimo saluto è un atto d’amore per l’Italia. Vedder dice di aver idealizzato, da ragazzo, il nostro Paese, di averlo sempre visto come un posto irraggiungibile come la luna. Ma la conclusiva acclamazione gli offre la certezza di aver raggiunto, oggi, quel posto e di poterne godere di un piccolo pezzo.
La Fiat pretende, ordina con il ricatto, più di quanto sia lecito chiedere. Management dell'impresa e Governo se ne infischiano delle richieste di lavoratori all'addiaccio da dieci giorni: non importa se per ognuno di loro "nella testa pesa la maledizione di trenta bollette da pagare" (da Unemployable dei Pearl Jam, 2006).
Gli operai di oggi lottano per tenersi il lavoro (qualunque esso sia), quelli di ieri lottavano per un trattamento più equo.
Non è trascorso molto tempo da quando il proletariato invocava, unito e a gran voce, condizioni di lavoro migliori e un orario sopportabile all'essere umano.
Sull'argomento si sono consumate migliaia di canzoni. Ma su tutte, senza andare troppo a ritroso, me ne vengono in mente alcune del mainstream rock americano. E anche un bel film italiano degli anni '70.
Sembrerà anacronistico menzionare la sottomissione a cui è costretto il protagonista della "Maggie's Farm" (da Bringing It All Back Home, 1965) di Bob Dylan, ma quei versi, pubblicati quasi mezzo secolo fa, sono ancora dannatamente attuali.
"Non lavorerò più nella fattoria di Maggie. Ebbene mi sveglio al mattino, incrocio le mani e prego che piova [...] E' una vergogna come mi fa scrostare il pavimento [...] Non lavorerò più per il fratello di Maggie, lui ti dà cinque cents oppure dieci, ti chiede con una smorfia se ti stai divertendo e poi ti multa ogni volta che sbatti la porta. Non lavorerò più per la madre di Maggie, lei parla, a tutti i domestici, dell'uomo, di dio e della legge [...] Non lavorerò più nella fattoria di Maggie, ho cercato di fare del mio meglio per essere proprio quello che sono, ma tutti vogliono che sia proprio come loro. Ti dicono canta mentre ti ammazzi e io mi sono seccato. Non lavorerò più nella fattoria di Maggie".
Potrebbe essere lo sfogo di uno dei tanti immigrati schiavizzati nei campi del sud, o nei cantieri del nord, e resi celebri dalla battaglia di Rosarno.
Non sempre, però, è possibile ribellarsi alle condizioni di lavoro. Sbattere la porta per andare altrove resta una chimera recintata dai cancelli di una fabbrica. In "Factory" (da Darkness On The Edge Of Town, 1978), di Bruce Springsteen, il fischio della sirena "ha il suono del pianto" e scandisce l'inizio e la fine di un impiego che "ruba l'udito".
In tutto il testo traspare una malcelata sopportazione per un lavoro inevitabile. L'idea di riscatto sociale, in tempi di crisi, si frantuma davanti a calcoli che strillano milioni di disoccupati (due, milioni, in Italia). L'unica considerazione valida, nell'asfittica routine del quotidiano, è che "la fabbrica dà da vivere" a quell'operaio. In "una vita di solo lavoro" ricordare "che qualcuno stanotte si farà male", resta un dettaglio da sottovalutare. ghggggggggggggggggggggggggggggggg
In "Millworker" (da Flag, 1979) James Taylor cambia l'angolo di visuale e con freddezza narra il compito di una madre vedova. Suo marito, "un uomo cattivo del Massachusetts, morto a causa del troppo whiskey", "ha lasciato queste tre bocche da sfamare". L'impiego della donna in fabbrica è "terribilmente noioso", ripetitivo fino all'alienazione: "siamo io e la mia macchina, per il resto della mattinata, il resto del pomeriggio e il resto della mia vita". Al tunnel dell'oblio si sottrae solo la certezza che la sua "vita è stata sprecata, e sono stata pazza a lasciare che questo fabbricante usasse il mio corpo come un attrezzo. Filerò a casa ogni sera guardando le mie mani e giurando il mio rammarico per una giovane ragazza che dovrebbe avere una condizione migliore".
Monopoli industriali che per decenni hanno goduto grazie ai soldi dei contribuenti, (leggasi "incentivi dello Stato", sic!), smontano la loro storia, rinnegano il passato e vanno all'estero dove la mano d'opera costa quattro volte meno che in Italia. La chiamano "delocalizzazione" ed è l'arguto neologismo che maschera il detto "prendi i soldi e scappa". Non c'è più lavoro, insomma, non dove c'è sempre stato, anche se il lavoro si può interpretare in altri modi. Le fabbriche, e le sue maestranze, non sono cave da svuotare per rubarne il didentro.
"Vedo colonne di fumo salire fino al paradiso mentre, sulla terra, sciogliamo questo portentoso minerale ferroso". L’ipnotica "Bethlehem Steel" (Copperopolis, 1996) dei Grant Lee Buffalo racconta l'epopea di generazioni vissute grazie al lovoro nei giacimenti minerari.
Soprannominata “the Steel City” (la città dell’acciaio) Bethlehem è, fino alla metà degli anni '90, il polo siderurgico più importante della Pennsylvania ed un incontrastato fiore all’occhiello per l’economia americana. La stella di acciaio citata nel pezzo è realmente esistita ed è stata eretta su un punto alto della città, visibile per chilometri. Una guida per la gente, un simulacro dell’evangelica cometa di Betlemme che conduce alle fabbriche del metallo e che lascia credere (invano) che mai ci sarà una crisi economica a farle chiudere. Generazioni hanno lavorato nelle industrie durante la seconda guerra mondiale fino a ritrovarsi schegge di metallo nelle mani, sorta di souvenir degli anni del boom.
Scritto, recitato e realizzato a meraviglia, "La classe operaia va in paradiso" (Elio Petri, 1971) mostra lo strazio dell'operaio nella Milano, ancora nebbiosa, funestata dalla lotta di classe. A Gian Maria Volontè, straordinario interprete dell'operaio frustrato, il compito di rendere chiaro il susseguirsi dei misfatti propri nella catena di montaggio.
Molti i punti in comune con i componimenti già citati. L'utilizzatore e l'utensile sono un tutt'uno di carne e ferro, di sudore e fluido refrigerante.
L'unica preoccupazione è la produzione ad oltranza. La fiacca è solo uno snervante fastidio fisiologico da schivare con audaci pensieri: l'idea di consumare sesso è l'antidoto da assumere per annullare la stanchezza. Un pensiero costoso che porta via l'attenzione e un dito del lavoratore. Il maturo operaio finalmente riesce a strappare un appuntamento alla compagna cui dedica sguardi morbosi: in una fabbrica dismessa giungono in una cinquecento. Sono lì, soli, parcheggiati nel capannone. L'auto, che pare di per sé inadeguata ad essere un'auto, sembra non resistere alla foga dell'intenso incontro. Nel freddo inverno milanese, dentro quell'edifcio fatiscente, non tutto fila per il verso giusto ...
La fabbrica s'è portata l'anima, un dito, il sesso. Una vita. E pare proprio non esserci quell'agognato paradiso per la classe operaia. Come dice, per voce di Springsteen, l'anonimo lavoratore di fonderia di "Youngstown" (The Ghost Of Tom Joad, 1995): "da morto non voglio incarichi in paradiso, non saprei fare quei lavori, prego che il diavolo mi prenda e mi metta agli altiforni ardenti dell'inferno".