All’epoca della Thatcher i Clash cantavano Let fury have the hour/ Anger can be power/ Do you know that you can use it? (Venga l'ora del furore/ La rabbia può essere forza/ Sai di poterla usare?). Più che un’invettiva scagliata da quattro pallidi inglesi, Clampdown conteneva parole esasperate. Persino dall’altra parte dell’Atlantico venivano adottate da chi viveva con disgusto gli anni del conservatorismo. Liriche fiammeggianti che non hanno smesso di ardere e che oggi ritornano nel titolo di un lungometraggio particolarmente interessante.
Gli ottantasette minuti di Let The Fury Have The Hour forniscono 50 diversi punti di vista sul valore assegnato, ai giorni nostri, alla controcultura. Da dove scaturisce, da dove trae linfa, dove attecchisce e che importanza può avere per propagarsi tra l’opinione pubblica. Queste le analisi approfondite dai protagonisti dell’anticonformismo militante, alcuni musicisti, altri rapper, scrittori, registi, skater, disegnatori che hanno contribuito a sviluppare la trama del film. Tutti cercano, fondamentalmente, di rispondere a due quesiti posti dal regista D’Ambrosio. Uno è preso a prestito dalla penna di Joe Strummer, che in White Riot si chiedeva Are you going backwards or are you going forwards?. Un interrogativo che qui viene mosso al plurale in un ben più coinvolgente “Andiamo indietro o avanti?”. L’altro – “In che mondo volete vivere?” – risulta strettamente personale, ma non meno epocale.
Tra le testimonianze si distinguono quelle concesse da musicisti barricadieri come Billy Bragg, Chuck D (Public Enemy), Wayne Kramer (MC5), Ian MacKaye (Minor Threat) e Tom Morello; quella del regista indipendente John Sayles; quelle di strenue sostenitrici dei diritti civili quali Edwidge Danticat, Eve Ensler e Staceyann Chin; quelle di cattedratici del dissenso come Stephen Duncombe e Richard D. Wolff.
La pellicola è stata scritta e diretta dal “multitasking” Antonino D’Ambrosio, oggi quarantunenne, che ha vissuto (e forse subito) in prima persona l’edonismo reaganiano. Proprio questa sua diretta conoscenza del periodo, associata ad una passione incondizionata per la musica e la street art, caratterizza la materia trattata. D’Ambrosio ha visto innalzare steccati in una comunità abituata a condividere più che a dividere. Anche se per lui, il sogno americano si è palesato in tutto il suo splendore. Figlio di un muratore emigrato da Colli a Volturno (Molise), nasce e cresce in un quartiere operaio di Philadelphia. E’ lì che dopo l’elezione di Reagan respira l’esaltazione per “l’individualismo feroce” e “il consumismo sfrenato”. Negli anni ’80, buona parte dell’occidente sperimenta la progressiva rimozione del welfare state lungo l’asse politico Reagan-Thatcher, mentre nei sobborghi di grandi città risorge una rinnovata controcultura. D’Ambrosio percepisce nei linguaggi dell’arte di strada un metodo di contrasto pervasivo, una risposta creativa al potere, che tenta di contrastare l’ondata di egoismo dominante. Un intreccio tra ritmi ribelli del punk rock, raid anarchici dello skate, graffiti pirateschi e linguaggio di denuncia dell’hip-hop che guidano all’ispirazione e immunizzano al cinismo. Terminati gli studi postuniversitari con un master a New York come borsista (dove riceve ambiti riconoscimenti) D’Ambrosio scrive libri, gira diversi cortometraggi e fonda il sito non profit La Lutta NMC (www.lalutta.org) rimanendo ancorato alla cultura alternativa e indipendente. Il suo libro A Heartbeat and A Guitar: Johnny Cash and the Making of Bitter Tears (2009) riceve ottimi elogi da Jim Jarmush, Pete Seeger e Howard Zinn. Finché ai giorni nostri presenta Let Fury Have The Hour, sua prima opera cinematografica, ispirata ad un suo precedente scritto, in gran parte dedicato al musicista che più di tutti lo ha influenzato: Joe Strummer.
E’ la musica dunque, a fare da collante a immagini che si mescolano in un conglomerato di arti policrome. A far parte della colonna sonora sono, tra le altre, le deflagranti invenzioni di Rage Against The Machine, Public Enemy, Gogol Bordello, MC5, The Clash, Fugazi, Minor Threat, Manu Chao e Streetsweeper Social Club. Un manipolo di artisti che ha disintossicato, con la creatività, l’inquinamento delle politiche reazionarie di certa cultura americana (e non solo) figlia degli anni ’80.
Selezionato per l'edizione 2012 del Festival di Tribeca, il film si avvale anche dell’opera di Shepard Fairey, graphic designer noto per aver realizzato Hope, la quadricromia di Obama.
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