Difficile capire le dinamiche della promozione.
Se Google non si è sbagliato, in Italia nessuno ha commentato The Ringo Jets, debut album de The Ringo Jets.
Eppure il power trio composto da Tarkan Mertoglu, Deniz Agan e Lale Kardes offre uno stile che, pur ricalcando generi ampiamente esplorati – dall’hard rock al blues psichedelico – presenta un sound personale, trascinante e dannatamente piacevole. Il mood è fresco e vivace anche se vintage: solo chitarre, batteria e occasionalmente basso.
Strano che, qui da noi, nessuno gli abbia dedicato un briciolo di attenzione. Il disco, per altro, è stato registrato a Milano sotto la produzione di Tommaso Colliva (Muse, Franz Ferdinand, Afterhours, Calibro35). E poi dentro ci sono un paio di illustri ospiti, due belle cover e volumi a tutto gas.
L'impatto dal vivo è notevole, capace di coinvolgere da subito. E’ nella dimensione live che li ho scoperti, durante l’ultimo Medimex (un plauso a chi li ha invitati). Folgorato sulla via di Damasco, anzi, un po’ prima: sulla via di Istanbul. Il trio viene dalla Turchia e, fare rock da quelle parti non è ancora un’attività del tutto normale. Terra lacerata da divisioni politiche, fazioni religiose e tensioni sociali, il Paese cerca di approdare a una piena democrazia nonostante gli argini innalzati da forze conservatrici e autoritarie.
Per questo e per altri motivi ancora il crudo rock de The Ringo Jets merita di essere apprezzato.
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LSDmagazine.
sabato 6 dicembre 2014
giovedì 27 novembre 2014
Guano Padano - Americana
Sin dal titolo, il nuovo disco dei Guano Padano non lascia adito ad equivoci: Americana.
Musica americana, dall'idea fondante del concept allo stile adottato per la sua realizzazione.
E' l'antologia di scritti curata da Elio Vittorini, pubblicata negli anni '40 e intitolata proprio Americana, ad ispirare la band formata da Alessandro "Asso" Stefana, Zeno De Rossi e Danilo Gallo.
Osteggiata dal regime fascista, la raccolta fu tradotta dalle eminenze della nostra letteratura del tempo – tra cui Pavese, Montale, Moravia e lo stesso Vittorini – e svelò all'Italia l'oscuro microcosmo ideato da John Fante, il lirismo drammatico degli scritti di Ernest Hemingway e l'aspra umanità proposta da John Steinbeck. Lì dentro non c'era solo la mappa del Nuovo Mondo, ricco di geometrie così diverse dalle sinuosità dei paesaggi italiani deturpati dalla guerra, ma anche un altro nuovo mondo ricreato da linguaggi e da ambizioni, da insospettabili vizi e da freschi trend. Il messaggio abbagliante di quelle pagine ancora oggi riluce di fascino, lo stesso che ha influenzato la composizione delle diciassette tracce concepite dai Guano Padano. Ideale colonna sonora della collezione narrativa voluta da Vittorini, certo, ma anche viaggio sonoro che ne prescinde i legami. Il disco del trio ha un forte potere evocativo promosso da una strumentazione che ne esalta la sfera concettuale. È una grammatica musicale articolata con lap steel, banjo, armonica e fiati ma che, per catalizzare suggestioni, si serve di sacche cariche di silenzio (Station e White Giant). Molti passaggi richiamano l'epopea del vecchio west già musicata da Morricone, ma non mancano le digressioni surf rock di Pian della Tortilla, il quasi rockabilly di Flem's Circus e le atmosfere country della My Town caratterizzata dal parlato di Joey Burns (Calexico). Fatta eccezione per The Seed and The Soil, che include l'elegante prova canora di Francesca Amati, le musiche non cercano la sponda di una voce per enfatizzare l'assetto compositivo. Il canto resta escluso, tant'è che Dago Red si presta ad accogliere uno speech di Dan Fante su suo padre John e The Fat of the Land ripropone una scheggia di Workhouse Blues per un operazione che ricorda addirittura i recuperi di Alan Lomax. Operazione discografica coraggiosa e densa di contenuti.
Osteggiata dal regime fascista, la raccolta fu tradotta dalle eminenze della nostra letteratura del tempo – tra cui Pavese, Montale, Moravia e lo stesso Vittorini – e svelò all'Italia l'oscuro microcosmo ideato da John Fante, il lirismo drammatico degli scritti di Ernest Hemingway e l'aspra umanità proposta da John Steinbeck. Lì dentro non c'era solo la mappa del Nuovo Mondo, ricco di geometrie così diverse dalle sinuosità dei paesaggi italiani deturpati dalla guerra, ma anche un altro nuovo mondo ricreato da linguaggi e da ambizioni, da insospettabili vizi e da freschi trend. Il messaggio abbagliante di quelle pagine ancora oggi riluce di fascino, lo stesso che ha influenzato la composizione delle diciassette tracce concepite dai Guano Padano. Ideale colonna sonora della collezione narrativa voluta da Vittorini, certo, ma anche viaggio sonoro che ne prescinde i legami. Il disco del trio ha un forte potere evocativo promosso da una strumentazione che ne esalta la sfera concettuale. È una grammatica musicale articolata con lap steel, banjo, armonica e fiati ma che, per catalizzare suggestioni, si serve di sacche cariche di silenzio (Station e White Giant). Molti passaggi richiamano l'epopea del vecchio west già musicata da Morricone, ma non mancano le digressioni surf rock di Pian della Tortilla, il quasi rockabilly di Flem's Circus e le atmosfere country della My Town caratterizzata dal parlato di Joey Burns (Calexico). Fatta eccezione per The Seed and The Soil, che include l'elegante prova canora di Francesca Amati, le musiche non cercano la sponda di una voce per enfatizzare l'assetto compositivo. Il canto resta escluso, tant'è che Dago Red si presta ad accogliere uno speech di Dan Fante su suo padre John e The Fat of the Land ripropone una scheggia di Workhouse Blues per un operazione che ricorda addirittura i recuperi di Alan Lomax. Operazione discografica coraggiosa e densa di contenuti.
martedì 18 novembre 2014
Ani DiFranco - Allergic to Water
Ani DiFranco ha l’aspetto da scaricatore di porto e la voce da usignolo. La sua fuorviante esteriorità e il suo spirito gentile sembrano in netto contrasto, eppure questa antitesi sembra aver creato la migliore combinazione possibile tra artista folk votata all’intimismo e irriducibile “riot grrrl” dall’aspetto pugnace.
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lunedì 17 novembre 2014
Bravo Dischi, nuova etichetta discografica indie
Gabriele Blandamura, Fabio Grande, Alessandro Lepre, Emanuele Mancini. Sono quattro romani che hanno messo in piedi una nuova etichetta indipendente italiana. Si tratta della Bravo Dischi, nata per produrre, promuovere e curare la popular music, quella che attribuisce al termine "pop" il significato più nobile.
Come recita il manifesto redatto dagli stessi ideatori dell'etichetta, il fine ultimo è il coinvolgimento emotivo, pura passione verso gli artisti selezionati e nessuna preclusione sulla scorta del genere suonato. Determinati, i quattro sembrano desiderosi di farsi spazio nel mare d’insipienza che avvolge uscite discografiche cariche di slogan, ma povere di valore artistico. La loro sembra un'impresa ricca di contenuto a partire dalla designazione del termine. Bravo Dischi: sembra il nome di un proposta recuperata da altri tempi, quando la lingua italiana non era succube dell’esterofilia e si parlava per farsi capire, non per ostentare saccenza. Ma sembra anche una dichiarazione d’intenti, un progetto che mira a restituire pregio al supporto fisico, non importa se CD o LP, e al suo più prezioso contenuto. I ragazzi – li ho conosciuti di persona, sono davvero ragazzi –, hanno prodotto un primo EP che già nell’aspetto presenta una superiorità evidente se confrontato al solito triste dischetto stampato per la promozione. Si vede che dietro la realizzazione c'è ricercatezza, una intuizione quasi artigianale e qualche notte passata in bianco a rimuginare. Ma l’esteriorità originale dell'involucro passa in secondo piano quando si deve valutare un contenuto dotato di qualità.
C'è del talento che crea aspettative tra i sei brani incisi dalle tre band presenti nella compilation. Nel roster della Bravo Dischi, al momento, ci sono Fantasmi (con Gabriele, uno dei fondatori dell'etichetta), Mai Stato Altrove e Joe Victor. Tre band che propongo generi dissimili ma che confluiscono nello stesso ambito di eccellenza, tanto da lasciare intendere l'ottima direzione intrapresa da questa nuova etichetta discografica. Ne sentiremo parlare.
Come recita il manifesto redatto dagli stessi ideatori dell'etichetta, il fine ultimo è il coinvolgimento emotivo, pura passione verso gli artisti selezionati e nessuna preclusione sulla scorta del genere suonato. Determinati, i quattro sembrano desiderosi di farsi spazio nel mare d’insipienza che avvolge uscite discografiche cariche di slogan, ma povere di valore artistico. La loro sembra un'impresa ricca di contenuto a partire dalla designazione del termine. Bravo Dischi: sembra il nome di un proposta recuperata da altri tempi, quando la lingua italiana non era succube dell’esterofilia e si parlava per farsi capire, non per ostentare saccenza. Ma sembra anche una dichiarazione d’intenti, un progetto che mira a restituire pregio al supporto fisico, non importa se CD o LP, e al suo più prezioso contenuto. I ragazzi – li ho conosciuti di persona, sono davvero ragazzi –, hanno prodotto un primo EP che già nell’aspetto presenta una superiorità evidente se confrontato al solito triste dischetto stampato per la promozione. Si vede che dietro la realizzazione c'è ricercatezza, una intuizione quasi artigianale e qualche notte passata in bianco a rimuginare. Ma l’esteriorità originale dell'involucro passa in secondo piano quando si deve valutare un contenuto dotato di qualità.
C'è del talento che crea aspettative tra i sei brani incisi dalle tre band presenti nella compilation. Nel roster della Bravo Dischi, al momento, ci sono Fantasmi (con Gabriele, uno dei fondatori dell'etichetta), Mai Stato Altrove e Joe Victor. Tre band che propongo generi dissimili ma che confluiscono nello stesso ambito di eccellenza, tanto da lasciare intendere l'ottima direzione intrapresa da questa nuova etichetta discografica. Ne sentiremo parlare.
mercoledì 5 novembre 2014
Medimex 2014
Tre giorni zeppi di coinvolgenti incontri capaci di soddisfare la curiosità degli addetti ai lavori e di appagare il pubblico. La contabilità finale del Medimex è di rilievo: oltre 16mila presenze, 120 appuntamenti e 18 ore di musica live. Grande seguito, insomma, per la quarta edizione della fiera dell’innovazione musicale.
I panel hanno cercato di analizzare le best practice da cui ripartire per un rilancio dell’economia musicale. Non facile, ma parlarne con i protagonisti, case discografiche, artisti e portatori di nuove tecnologie, è stato utile soprattutto per proporre – senza ipocrisie e senza sterili polemiche – qualcosa in più delle sole incognite.
Tutti gli intervenuti – tra questi Ivano Fossati, Giorgia, Malika Ayane, Niccolò Fabi, Max Gazzè e Daniele Silvestri, Renzo Rubino, J-Ax – hanno cercato di offrire la propria esperienza sul personale modo di interpretare il rapporto con la musica. Non sono mancate cadute di stile e saccenteria, ma quelle erano inevitabilmente incluse nel lotto. Meno significativa dal punto di vista sostanziale, ma comunque da menzionare anche solo per il peso dei suoi trascorsi, la presenza di Vasco Rossi che ha presentato alla stampa Sono innocente, il suo nuovo disco di inediti.
La Puglia conferma, così, la tendenza creativa degli ultimi anni e rimarca un profilo decisamente votato all’arte musicale: è davvero piacevole riscontrare che i cosiddetti “stati generali” della musica italiana si incontrano a sud da ormai quattro anni. Una bella iniziativa che tutti si augurano confermata con l’insediamento del prossimo governo regionale.
Insieme ai big, o comunque a chi è già noto al pubblico, sono risultate azzeccate le band selezionate per i concerti serali. Particolarmente apprezzabili gli showcase offerti da The Ringo Jets (straordinari figli della cruda tradizione elettrica) e da Jack Savoretti (molto più USA che UK). Conferme, per lo meno di seguaci sottopalco, per Brunori Sas, Diodato e Mannarino: i loro concerti hanno registrato il tutto esaurito. Come pure affollati sono risultati i pacati live di Cristina Donà, dell’Orchestra Di Piazza Vittorio con Ginevra Di Marco e degli esotici Dakhabrakha.
A dare un senso di partecipazione “alla pari” è stato il contributo di quegli artisti che hanno piacevolmente socializzato tra i corridoi dello spazio fieristico con pubblico e giornalisti. Anche questo è stato il grande merito della tre giorni barese: aver favorito il reale annullamento di ogni distanza tra palco e pubblico lasciando emergere il lato più affabile e cortese dei presenti.
All images are © Francesco Santoro
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lunedì 3 novembre 2014
Vasco Rossi presenta Sono innocente
“L’album si chiama Sono innocente e naturalmente il titolo è
provocatorio. L’artista è sempre innocente quando compone. Se anche non
è innocente l’uomo, è sempre innocente la sua opera: questa è la
premessa“. Così Vasco Rossi presenta il suo nuovo disco alla stampa.
Ma, nonostante i proclami, i dettagli più interessanti su Sono innocente restano quelli riportati dallo storico produttore Guido Elmi.
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martedì 21 ottobre 2014
Tricky - Adrian Thaws
Evitare le ripetizioni e scansare gli stereotipi quando si tocca l’argomento Tricky non è semplice.
Ogni sua produzione avoca notevole attenzione mediatica, ma nonostante il tangibile rischio di reiterazione narrativa torna utile focalizzare quell’urgenza che ha determinato la genesi, il processo creativo e il relativo contenuto della nuova uscita discografica del musicista inglese.
Adrian Thaws è titolo dell’album che corrisponde al nome anagrafico dell’artista.
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lunedì 13 ottobre 2014
Michael Stipe - Two times intro. In viaggio con Patti Smith
"Non detti tregua al negozio di dischi finché non trovai il suo primo album, che comprai il giorno stesso in cui uscì”. Michael Stipe racconta quando è diventato devoto ammiratore di Patti Smith. “Da andare fuori di testa – emozionale e imperfetto, vertiginoso […] qui c’era qualcosa che mi parlava".
Vent'anni dopo, il già leader dei REM accompagna la sua dea in tour per un secondo debutto sulle scene. E la fotografa per un diario personale che tempo dopo verrà pubblicato con il titolo Two Times Intro.
Da poco edito da Quarup Editrice, il libro è un documento da avere.
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Vent'anni dopo, il già leader dei REM accompagna la sua dea in tour per un secondo debutto sulle scene. E la fotografa per un diario personale che tempo dopo verrà pubblicato con il titolo Two Times Intro.
Da poco edito da Quarup Editrice, il libro è un documento da avere.
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venerdì 10 ottobre 2014
Matt Confusion - Satori, Take Me Away
“Non c'è nessun sample, è tutto suonato davvero e ripreso”. E’ qualcosa a metà tra la dichiarazione di un principio e una rivendicazione di appartenenza quella di Matteo Radice-Matt Confusion.
Il cantante e chitarrista lombardo ci tiene a precisare che Satori, Take Me Away è produzione home made realizzata con processi estranei all’impiego di musica preconfezionata. Al suo secondo progetto solista, Matteo ci arriva dopo aver messo da parte i volumi sturm und drang dei Confusion is Next, band in cui ha militato per sei anni, e dopo la prova generale di Songs in The Night, debut album del 2012.
In Satori, Take Me Away, armonie rilassate e ritmi blandi connotano la cifra stilistica delle otto tracce. Trentadue minuti alla ricerca di quella “illuminazione improvvisa” (evocata dal nome del disco) che il musicista trova in quella terra di mezzo lambita da blues e jazz.
Chitarra, voce e strambi testi inglesi plasmano brani autografi impreziositi dalla reinterpretazione asciutta e moderna di St. James Infirmary, traditional che non ha autore ma uno stuolo di interpreti di primo piano.
I’m A Mess, contagiata dal Chicago blues, e Birthday Party, jazz crepuscolare eppure guizzante, i punti fermi di un lavoro concepito nella quiete, ideale dimensione per apprezzarlo.
Disponibile esclusivamente in forma liquida, Satori, Take Me Away è fruibile tramite il website di Matt Confusion.
In Satori, Take Me Away, armonie rilassate e ritmi blandi connotano la cifra stilistica delle otto tracce. Trentadue minuti alla ricerca di quella “illuminazione improvvisa” (evocata dal nome del disco) che il musicista trova in quella terra di mezzo lambita da blues e jazz.
Chitarra, voce e strambi testi inglesi plasmano brani autografi impreziositi dalla reinterpretazione asciutta e moderna di St. James Infirmary, traditional che non ha autore ma uno stuolo di interpreti di primo piano.
I’m A Mess, contagiata dal Chicago blues, e Birthday Party, jazz crepuscolare eppure guizzante, i punti fermi di un lavoro concepito nella quiete, ideale dimensione per apprezzarlo.
Disponibile esclusivamente in forma liquida, Satori, Take Me Away è fruibile tramite il website di Matt Confusion.
mercoledì 8 ottobre 2014
Rob Lynch - All These Nights In Bars Will Somehow Save My Soul
Inquadrare l'album di debutto di Rob Lynch è impresa ardua. Carriera agli inizi e songbook ridotto al lumicino non sono di grande aiuto. In All These Nights In Bars Will Somehow Save My Soul, l'inglese mette insieme inni da pub dall'ingente tasso alcolico, uno spiccato accento cockney, predilezione per il canto doppiato dalla seconda voce e ritornelli corali.
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domenica 5 ottobre 2014
Billy The Kid - Horseshoes & Hand Granades
Billy The Kid, moniker di Billy Pettinger, pubblica Horseshoes & Hand Granades inaugurando il sodalizio con la Xtra Mile Recordings,
etichetta indie londinese.
Con questo quarto lavoro solista, la musicista cerca di rappresentare la propria inclinazione musicale con brani pervasi da venature folk e proponimenti punk.
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Con questo quarto lavoro solista, la musicista cerca di rappresentare la propria inclinazione musicale con brani pervasi da venature folk e proponimenti punk.
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mercoledì 13 agosto 2014
Codeina - Allghoi Khorhoi
Essenziale e incisiva, la nuova impresa dei Codeina si materializza tra ritmi convulsi e volumi selvaggi. La prima piacevole avventura, audace e rocambolesca – picaresca proprio come denunciava il titolo – sembra ormai chiusa. Adesso il trio lombardo si riaffaccia sul mercato discografico con una proposta fatta di composizioni nette, definite da una brutalità che cattura l'ascolto.
Allghoi Khorhoi, stravagante già nel titolo, contiene brani tanto impronunciabili quanto reconditi nel significato disponibili nel classico formato digitale, nudo e crudo, oppure caricati in una pendrive che riprende la forma del leggendario invertebrato stilizzato in copertina.
L'estetica dei Codeina di Allghoi Khorhoi è pervasa da idee archetipe che collidono con musica impulsiva per incrementarne la potenza d'impatto. I testi, benché funzionali alla musica, non pongono freni a pensieri intrusivi e ad una schiettezza così lapalissiana da sembrare ferocemente autentica. Difficile ascoltare il perfetto connubio tra aggressività verbale e violenza sonora di 71 senza dedicarla con trasporto ad un ipotetico destinatario.
Vigorosi pattern di batteria si combinano a toni di basso straordinariamente saturi, feedback e distorsioni di chitarra tornano in auge: Kiwi, Ieri e Hikikomori non possono lasciare indifferenti. Eppure, anche la delicata Cascando coinvolge con la sua laconicità.
Il gruppo ha reciso alcuni legami con il proprio modello di riferimento, i Nirvana, anche se alcuni passaggi dell'album – come Langley & Homer Collyer – rimandano inequivocabilmente al sound della band di Seattle: un pregio, questo, che attribuisce ulteriore attendibilità alla coerenza espressa dal gruppo nel percorso fin qui intrapreso.
Allghoi Khorhoi racchiude dodici componimenti rabbiosi, politically incorrect e per nulla allineati. E' un'ottima prova quella offerta da Mattia Galimberti (voce e chitarra), Emanuele Delfanti (basso) e Alessandro Cassarà (batteria). Roba forte e pericolosa, da maneggiare come fosse un velenoso bruco asiatico.
Allghoi Khorhoi, stravagante già nel titolo, contiene brani tanto impronunciabili quanto reconditi nel significato disponibili nel classico formato digitale, nudo e crudo, oppure caricati in una pendrive che riprende la forma del leggendario invertebrato stilizzato in copertina.
L'estetica dei Codeina di Allghoi Khorhoi è pervasa da idee archetipe che collidono con musica impulsiva per incrementarne la potenza d'impatto. I testi, benché funzionali alla musica, non pongono freni a pensieri intrusivi e ad una schiettezza così lapalissiana da sembrare ferocemente autentica. Difficile ascoltare il perfetto connubio tra aggressività verbale e violenza sonora di 71 senza dedicarla con trasporto ad un ipotetico destinatario.
Vigorosi pattern di batteria si combinano a toni di basso straordinariamente saturi, feedback e distorsioni di chitarra tornano in auge: Kiwi, Ieri e Hikikomori non possono lasciare indifferenti. Eppure, anche la delicata Cascando coinvolge con la sua laconicità.
Il gruppo ha reciso alcuni legami con il proprio modello di riferimento, i Nirvana, anche se alcuni passaggi dell'album – come Langley & Homer Collyer – rimandano inequivocabilmente al sound della band di Seattle: un pregio, questo, che attribuisce ulteriore attendibilità alla coerenza espressa dal gruppo nel percorso fin qui intrapreso.
Allghoi Khorhoi racchiude dodici componimenti rabbiosi, politically incorrect e per nulla allineati. E' un'ottima prova quella offerta da Mattia Galimberti (voce e chitarra), Emanuele Delfanti (basso) e Alessandro Cassarà (batteria). Roba forte e pericolosa, da maneggiare come fosse un velenoso bruco asiatico.
lunedì 28 luglio 2014
Cat Power live! Sud Est Indipendente Festival
Squarcia il buio che avvolge il palco con un sorriso, Cat Power. Rilassata, bicchiere in mano e sigaretta accesa, indossa una T-shirt con uno slogan che gioca sul doppio senso: “People Have The Power”. Il suo concerto d’esordio in Puglia coincide con l’inizio dell’ottava edizione del Sud Est Indipendente Festival – targato CoolClub – e per l’occasione allestito a Torre Regina Giovanna di Apani, in provincia di Brindisi.
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Torre Regina Giovanna di Apani (BR), 24 luglio 2014
Setlist
1. The Greatest
2. Cherokee
3. Lord, Help The Poor & Needy
4. Silver Stallion
5. Manhattan
6. Bully
7. Angelitos Negros
8. Shivers
9. Good Woman
10. Great Expectations
11. I Wanna Be Your Dog
12. Song To Bobby
13. Metal Heart
14. Sea of Love
15. I Don't Blame You
16. Ruin
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Torre Regina Giovanna di Apani (BR), 24 luglio 2014
Setlist
1. The Greatest
2. Cherokee
3. Lord, Help The Poor & Needy
4. Silver Stallion
5. Manhattan
6. Bully
7. Angelitos Negros
8. Shivers
9. Good Woman
10. Great Expectations
11. I Wanna Be Your Dog
12. Song To Bobby
13. Metal Heart
14. Sea of Love
15. I Don't Blame You
16. Ruin
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martedì 15 luglio 2014
Management del Dolore Post-Operatorio – McMAO
La vita è frustrante, caotica e a tempo determinato. Come affrontare, allora, il suo fluire dispotico? Come accettare la sua ineluttabile interruzione?
Con un minimo di consapevolezza e con tanto sarcasmo. E’ la soluzione scelta dal Management Del Dolore Post-Operatorio per gessare le fratture e scriverci sopra qualche frase politicamente scorretta, arguta e cinica.
Continuano a non produrre dischi ordinari i quattro abruzzesi, che con McMao confermano un talento sferzante e non irreggimentato. Dieci tracce (più Fragole buone buone, cover del rivalutato Luca Carboni) di grande spessore che fanno apprezzare le tematiche più buie, le meditazioni forti e, sì, anche deprimenti. La scrittura del cantante Luca Romagnoli, in ogni caso, combina sincerità e lucidità che trasforma l’oppressione in celebrazione di un pessimismo velato da decadentismo. Concetti fortificati da un rock solido ma mai stereotipato che non resta indenne da infiltrazioni esterne. Come in Coccodè, caratterizzata dalle sfumature orientali e dal canto baritonale di Lorenzo Kruger dei Nobraino.
D’impatto è la scelta di apertura con La scuola cimiteriale, pezzo teso, breve e forgiato sul disincanto (il destino è un colpo di biliardo/ a volte la buca la decidi tu/ a volte chiudi gli occhi tiri e non ci pensi più), che uncina con la ritmica e amplifica il senso di alienazione tra il cantato sbilenco e il fraseggio di synth.
Accanto alle indagini più intimiste, McMao sembra formulare una concisa trattazione sociologica, un piccolo manuale su fobie, squallore e bassezze di certi comportamenti ammessi sulla scorta di un incedere consuetudinario. I personaggi del disco elaborano un vissuto che trascende il personale e accolgono, o più spesso interpretano, chi eccepisce quella sindrome collettiva da frivolezza che sembra non avere fine. Articolato tra brani penetranti, elementi figurativi d’impatto e clip audaci, il secondo album dei MaDeDoPo sembra spingere sul fronte del situazionismo. La copertina che ritrae l’ibrido Mao Zedong-Ronald McDonald (come le immagini del booklet, opera dell’artista Giuseppe Veneziano) sostiene l’idea del cortocircuito ideologico che si consuma ai giorni nostri, mentre il video de La pasticca blu abbozza poesia stradaiola su fotogrammi che ne rivelano il caos ispiratore, tra idealità e suggestioni felliniane.
A chiudere il cerchio, la rabbia de La rapina collettiva, che negli stessi versi ricambia all’indirizzo di chi comanda quella candida spietatezza che impone “inevitabili” purghe.
Ok, la vita è frustrante, caotica e a tempo determinato, ma un minimo di consapevolezza e tanto sarcasmo …
Continuano a non produrre dischi ordinari i quattro abruzzesi, che con McMao confermano un talento sferzante e non irreggimentato. Dieci tracce (più Fragole buone buone, cover del rivalutato Luca Carboni) di grande spessore che fanno apprezzare le tematiche più buie, le meditazioni forti e, sì, anche deprimenti. La scrittura del cantante Luca Romagnoli, in ogni caso, combina sincerità e lucidità che trasforma l’oppressione in celebrazione di un pessimismo velato da decadentismo. Concetti fortificati da un rock solido ma mai stereotipato che non resta indenne da infiltrazioni esterne. Come in Coccodè, caratterizzata dalle sfumature orientali e dal canto baritonale di Lorenzo Kruger dei Nobraino.
D’impatto è la scelta di apertura con La scuola cimiteriale, pezzo teso, breve e forgiato sul disincanto (il destino è un colpo di biliardo/ a volte la buca la decidi tu/ a volte chiudi gli occhi tiri e non ci pensi più), che uncina con la ritmica e amplifica il senso di alienazione tra il cantato sbilenco e il fraseggio di synth.
Accanto alle indagini più intimiste, McMao sembra formulare una concisa trattazione sociologica, un piccolo manuale su fobie, squallore e bassezze di certi comportamenti ammessi sulla scorta di un incedere consuetudinario. I personaggi del disco elaborano un vissuto che trascende il personale e accolgono, o più spesso interpretano, chi eccepisce quella sindrome collettiva da frivolezza che sembra non avere fine. Articolato tra brani penetranti, elementi figurativi d’impatto e clip audaci, il secondo album dei MaDeDoPo sembra spingere sul fronte del situazionismo. La copertina che ritrae l’ibrido Mao Zedong-Ronald McDonald (come le immagini del booklet, opera dell’artista Giuseppe Veneziano) sostiene l’idea del cortocircuito ideologico che si consuma ai giorni nostri, mentre il video de La pasticca blu abbozza poesia stradaiola su fotogrammi che ne rivelano il caos ispiratore, tra idealità e suggestioni felliniane.
A chiudere il cerchio, la rabbia de La rapina collettiva, che negli stessi versi ricambia all’indirizzo di chi comanda quella candida spietatezza che impone “inevitabili” purghe.
Ok, la vita è frustrante, caotica e a tempo determinato, ma un minimo di consapevolezza e tanto sarcasmo …
giovedì 3 luglio 2014
Dead Man’s Town: A Tribute to Born in the U.S.A.
“Born down in a dead man's town/ The first kick I took was when I hit the ground”, questa l’amara asserzione che apre Born In The U.S.A., il più venduto album di Bruce Springsteen.
Un disco che ha concesso fama abbacinante e repentina al suo autore, che ha convinto tanto il pubblico quanto la critica, che ha piazzato sette singoli nella Top Ten “Billboard Hot 100” e che ancora oggi riluce di un fascino iconico, solido, difficilmente ripetibile e quasi certamente inimitabile.
Ai giorni nostri, trent’anni dopo la sua pubblicazione, alcuni cantautori americani rendono omaggio all’attualità dei versi contenuti in quelle canzoni e rileggono celebri musiche articolate tra echi di sanguigno rock’n’roll e pseudo modernismo invocato dai synth. Dead Man's Town: A Tribute to Born in the U.S.A., disponibile dal 16 settembre via Lightning Rod Records, digrada la potenza di un suono tutto E Street Band e lo riporta allo stadio embrionale generato tra solitudine creativa, essenzialità acustica e spartana partitura, in quel mood simile alle ispirate session di Nebraska che ne hanno determinato l’avvento. Per dirla con Jason Isbell, che nel tributo reinterpreta proprio la title track, “Born In The U.S.A. ha ingenerato fraintendimenti in molte persone che hanno apparentemente travisato il contenuto lirico e l’assunto del brano. Quando si ascolta la versione demo, con quell’accordo scuro in tonalità minore, si è certi che non si tratta di un inno festoso. Volevamo rimanere fedeli a questa versione”. Argomentazione confermata e rilanciata dalla violinista Amanda Shires (impegnata nella registrazione della cover con il marito Isbell) che circoscrive il significato del testo: “Mi piace come la canzone ricrea un quadro di lotta antitetico al sogno americano e come l'ironia presente nel coro contraddistingua una forza che quasi trascende il resto”.
Chi ritiene superiore la produzione acustica di Springsteen, apprezzerà la sobrietà delle interpretazioni di Jason Isbell & Amanda Shires, Nicole Atkins, Justin Townes Earle, Blitzen Trapper e Trampled By Turtles che riportano il nucleo di Born In The U.S.A. in evidenza, quasi a volerne riproporre quella “naked version” agognata dai fans ma mai concessa dal suo autore.
Per Luther Dickinson, chitarrista in pianta stabile per la North Mississippi Allstars (e con trascorsi nei The Black Crowes), “una qualunque canzone di Born In The U.S.A. potrebbe funzionare anche con la sola chitarra acustica”. Una certezza granitica che ha ispirato l'intero progetto.
Di seguito, accanto alla scaletta dei brani inclusi in “Dead Man's Town: A Tribute to Born in the USA”, sono indicati i musicisti e i gruppi coinvolti nella realizzazione del disco.
1) "Born In The U.S.A" - Jason Isbell & Amanda Shires clic qui per ascoltarla
2) "Cover Me" - Apache Relay
3) "Darlington County" - Quaker City Nighthawks
4) "Working On The Highway" - Blitzen Trapper
5) "Downbound Train" - Joe Pug
6) "I'm On Fire" - Low
7) "No Surrender" - Holly Williams
8) "Bobby Jean" - Ryan Culwell
9) "I'm Goin' Down" - Trampled By Turtles
10) "Glory Days" - Justin Townes Earle
11) "Dancing In The Dark" - Nicole Atkins
12) "My Hometown" - North Mississippi Allstars
Ai giorni nostri, trent’anni dopo la sua pubblicazione, alcuni cantautori americani rendono omaggio all’attualità dei versi contenuti in quelle canzoni e rileggono celebri musiche articolate tra echi di sanguigno rock’n’roll e pseudo modernismo invocato dai synth. Dead Man's Town: A Tribute to Born in the U.S.A., disponibile dal 16 settembre via Lightning Rod Records, digrada la potenza di un suono tutto E Street Band e lo riporta allo stadio embrionale generato tra solitudine creativa, essenzialità acustica e spartana partitura, in quel mood simile alle ispirate session di Nebraska che ne hanno determinato l’avvento. Per dirla con Jason Isbell, che nel tributo reinterpreta proprio la title track, “Born In The U.S.A. ha ingenerato fraintendimenti in molte persone che hanno apparentemente travisato il contenuto lirico e l’assunto del brano. Quando si ascolta la versione demo, con quell’accordo scuro in tonalità minore, si è certi che non si tratta di un inno festoso. Volevamo rimanere fedeli a questa versione”. Argomentazione confermata e rilanciata dalla violinista Amanda Shires (impegnata nella registrazione della cover con il marito Isbell) che circoscrive il significato del testo: “Mi piace come la canzone ricrea un quadro di lotta antitetico al sogno americano e come l'ironia presente nel coro contraddistingua una forza che quasi trascende il resto”.
Chi ritiene superiore la produzione acustica di Springsteen, apprezzerà la sobrietà delle interpretazioni di Jason Isbell & Amanda Shires, Nicole Atkins, Justin Townes Earle, Blitzen Trapper e Trampled By Turtles che riportano il nucleo di Born In The U.S.A. in evidenza, quasi a volerne riproporre quella “naked version” agognata dai fans ma mai concessa dal suo autore.
Per Luther Dickinson, chitarrista in pianta stabile per la North Mississippi Allstars (e con trascorsi nei The Black Crowes), “una qualunque canzone di Born In The U.S.A. potrebbe funzionare anche con la sola chitarra acustica”. Una certezza granitica che ha ispirato l'intero progetto.
Di seguito, accanto alla scaletta dei brani inclusi in “Dead Man's Town: A Tribute to Born in the USA”, sono indicati i musicisti e i gruppi coinvolti nella realizzazione del disco.
1) "Born In The U.S.A" - Jason Isbell & Amanda Shires clic qui per ascoltarla
2) "Cover Me" - Apache Relay
3) "Darlington County" - Quaker City Nighthawks
4) "Working On The Highway" - Blitzen Trapper
5) "Downbound Train" - Joe Pug
6) "I'm On Fire" - Low
7) "No Surrender" - Holly Williams
8) "Bobby Jean" - Ryan Culwell
9) "I'm Goin' Down" - Trampled By Turtles
10) "Glory Days" - Justin Townes Earle
11) "Dancing In The Dark" - Nicole Atkins
12) "My Hometown" - North Mississippi Allstars
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sabato 29 marzo 2014
David Byrne - Come funziona la musica
Il libro di David Byrne merita di essere letto da tutti gli appassionati di musica. In particolare da quegli inossidabili fan che alimentano il mito dell’artista che detesta le dinamiche del business e da quei disillusi preda dell’anedonia musicale suscitata dall’inflazione di canzoni simil-jingle.
Continua su LSDmagazine.
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mercoledì 19 marzo 2014
Intervista a Red Ronnie
Red Ronnie ha a che fare con la musica da quarant’anni. Ha intervistato grandi artisti, absolute beginners, condottieri e fanfaroni. Insieme a rarità discografiche, i suoi enormi archivi custodiscono grandiosi successi e brucianti sconfitte. Bandito dalla televisione, è rimasto lontano dallo schermo giusto il tempo di riorganizzarsi e riproporre Roxy Bar, il suo più celebre programma, in streaming.
Red Ronnie crede nel suo personaggio e ne alimenta il mito, rimarca risultati, menziona amicizie prestigiose, si fa umile ma poi rivendica il ruolo di pioniere dell’informazione musicale per ripararsi dalle stilettate degli invidiosi e dalle sassate dei diffidenti. Nel bene o nel male, il suo programma ha messo davanti allo schermo tutti i big della musica (nazionale e internazionale) e ha dato chance a innumerevoli sconosciuti. Eppure, certe sue scelte sono state bollate, da più parti, come inopportune.
Conversatore munifico dedito alle iperboli, giura di sentirsi a suo agio con lo switch informatico, ma poi non gli sovviene un tweet capace di spiegare agli ignari il suo Roxy Bar. Poco male, perché Red Ronnie pare essersi impegnato senza riserve pur di mantenere libera e viva la sua idea di musica anche sul web.
La sua verità, con tanto di nomi e cognomi, durante l'intervista per LSDmagazine.
Red Ronnie crede nel suo personaggio e ne alimenta il mito, rimarca risultati, menziona amicizie prestigiose, si fa umile ma poi rivendica il ruolo di pioniere dell’informazione musicale per ripararsi dalle stilettate degli invidiosi e dalle sassate dei diffidenti. Nel bene o nel male, il suo programma ha messo davanti allo schermo tutti i big della musica (nazionale e internazionale) e ha dato chance a innumerevoli sconosciuti. Eppure, certe sue scelte sono state bollate, da più parti, come inopportune.
Conversatore munifico dedito alle iperboli, giura di sentirsi a suo agio con lo switch informatico, ma poi non gli sovviene un tweet capace di spiegare agli ignari il suo Roxy Bar. Poco male, perché Red Ronnie pare essersi impegnato senza riserve pur di mantenere libera e viva la sua idea di musica anche sul web.
La sua verità, con tanto di nomi e cognomi, durante l'intervista per LSDmagazine.
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