Sin dal titolo, il nuovo disco dei Guano Padano non lascia adito ad equivoci: Americana.
Musica americana, dall'idea fondante del concept allo stile adottato per la sua realizzazione.
E' l'antologia di scritti curata da Elio Vittorini, pubblicata negli anni '40 e intitolata proprio Americana, ad ispirare la band formata da Alessandro "Asso" Stefana, Zeno De Rossi e Danilo Gallo.
Osteggiata dal regime fascista, la raccolta fu tradotta dalle eminenze della nostra letteratura del tempo – tra cui Pavese, Montale, Moravia e lo stesso Vittorini – e svelò all'Italia l'oscuro microcosmo ideato da John Fante, il lirismo drammatico degli scritti di Ernest Hemingway e l'aspra umanità proposta da John Steinbeck.
Lì dentro non c'era solo la mappa del Nuovo Mondo, ricco di geometrie così diverse dalle sinuosità dei paesaggi italiani deturpati dalla guerra, ma anche un altro nuovo mondo ricreato da linguaggi e da ambizioni, da insospettabili vizi e da freschi trend. Il messaggio abbagliante di quelle pagine ancora oggi riluce di fascino, lo stesso che ha influenzato la composizione delle diciassette tracce concepite dai Guano Padano.
Ideale colonna sonora della collezione narrativa voluta da Vittorini, certo, ma anche viaggio sonoro che ne prescinde i legami. Il disco del trio ha un forte potere evocativo promosso da una strumentazione che ne esalta la sfera concettuale. È una grammatica musicale articolata con lap steel, banjo, armonica e fiati ma che, per catalizzare suggestioni, si serve di sacche cariche di silenzio (Station e White Giant).
Molti passaggi richiamano l'epopea del vecchio west già musicata da Morricone, ma non mancano le digressioni surf rock di Pian della Tortilla, il quasi rockabilly di Flem's Circus e le atmosfere country della My Town caratterizzata dal parlato di Joey Burns (Calexico).
Fatta eccezione per The Seed and The Soil, che include l'elegante prova canora di Francesca Amati, le musiche non cercano la sponda di una voce per enfatizzare l'assetto compositivo. Il canto resta escluso, tant'è che Dago Red si presta ad accogliere uno speech di Dan Fante su suo padre John e The Fat of the Land ripropone una scheggia di Workhouse Blues per un operazione che ricorda addirittura i recuperi di Alan Lomax.
Operazione discografica coraggiosa e densa di contenuti.
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