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La credibilità di ragazzo scostante vacilla quando il teppistello del Montana infila in scaletta un’altra dedica: si tratta di una rara versione di Her Piano (da Infidelity and Other Domestic Investigation del 1979) concepita in memoria di sua madre Cynthia, insegnante di musica. Scotty Phillips dona colore ad una ballata incentrata sulle morbide armonie proposte dall’arcinoto Steinway malandato proprio mentre Tucker canta malinconico “del pianoforte di Cindy che ormai manda solo freddo silenzio”. Fischi isolati di disapprovazione e frasi di scherno (“Hey, è un funerale o un concerto?”) si levano dalla platea e un fulmine attraversa lo sguardo di Crowe. Lo stesso fulmine che animava feroci occhiate e si palesava tramite epiteti (“dattilografi del cazzo!”) lanciati, dal palco, all’indirizzo dei giornalisti dieci anni fa. “Bruce + Bob + Leonard = Tucker”: era questo famigerato slogan, finto come una moneta di stagno, a mandarlo su tutte le furie. Lo aveva adoperato l’etichetta discografica per pompare le vendite, ma il giochetto era quasi valso la carriera a "the new big thing". Le sacrosante critiche di Greil Marcus, poi, facevano il resto (“Determinazione + bislaccheria – John Denver = un po’ pochino). Tutta acqua passata. Ma la voglia di essere re, almeno per un giorno, è ancora intatta.
L’acustica vola sulle teste di mezza band prima di atterrare tra le premurose braccia di Burt Kenny (il fidato roadie di Tucker). Una bellissima ouverture di Hammond fa da trampolino di lancio per un invito alquanto esplicito (“suonate forte, cazzo!”) che sa di già sentito ma che non perde in efficacia. Crowe percuote la sua Gibson fino a spaccare una corda, la voce torna roca e l’attacco di The Twentieht Call of the Day è da incontro di lotta libera. Un improbabile corpo a corpo con i fantasmi di un recente passato che stenta a dileguarsi. Il pezzo è cattivo quanto basta e rinfocola l’oltraggioso pogo nel pit. La security è in allerta ma a giungere a brandelli, nel sottopalco, è solo il giubbotto lanciato da Crowe ad inizio concerto. I Politics si allineano sul bordo dello stage come a voler succhiare tutta l’energia dell’audience per poi restituirla amplificata. Tucker sembra surfare mentre resta in bilico sul monitor centrale. Inizia ad inveire contro alcune ragazze che, amorevoli, gli lanciano gridolini isterici e un campionario davvero assortito di ultimi modelli di lingerie. Una, addirittura, gli getta una rosa rossa rimasta integra fino a questo punto del concitato live act: Tucker, con un'espressione presa in prestito dal miglior Jack Nicholson, sorride, la raccoglie, l’annusa e la scaraventa sulle assi del palco mentre, continuando a cantare con più veemenza, la calpesta ripetutamente. Sembrerebbe una scena comica ma non lo è. Mi domando se Crow stia cercando di impressionare l’attore e regista Gene Wilder presente in tribuna d’onore. (Secondo i bene informati il nostro concittadino sarebbe tornato in città dopo aver ultimato le riprese del suo prossimo film. Ma cosa possa indurre Wilder ad assistere ad uno show di Crowe resta un mistero).
L’eccesso d’ira, da e per lo stage, ha raggiunto il limite. La battaglia si consuma a colpi di energia. La band non si risparmia e tra un goccio e l’altro di birra produce ritmi granitici. Proprio mentre tracanna una bionda, Crowe saluta una rappresentanza di dipendenti della Jacob Leinenkugel Brewing Company di Chipewa Falls, 5 ore di macchina e 275 miglia di asfalto a nord ovest di Milwaukee. Sono cinque e sono entrati gratis con pass che consentiranno l’accesso anche al backstage. La loro fabbrica di birra pare navigare in brutte acque (la concorrenza della Miller si fa sempre più spietata) e 90 dipendenti rischiano il posto. Per loro suona una struggente Can Anybody Hear Me? tratta dall’ EP, del '78, dall'amonimo titolo. E questa è di per sé una notizia, perché Tucker non ha mai fatto dell’impegno civile una bandiera. I ragazzi della “Leinies”, intanto, incassano solidarietà e pubblicizzano il caso.
I Politics of Joy, come è noto, non concendono bis semplicemente perché odiano spezzare con una pausa il concerto. Quello che è un lungo scambio, di disprezzo o di amore non importa, con il pubblico non può essere inframmezzato da quella orrida pantomima della finta conclusione dello spettacolo.
E allora via verso la conclusione che pare assegnare a You and Your Perfect Life il posto d’onore. Mentre il beat è già in essere, Crowe mima un calcio volante indirizzato alla platea, cade in terra in una posa alla Bruce Lee, si gira e corre a schiantarsi - volontariamente - contro la batteria. Si rialza, accorda al volo la chitarra e ci da dentro con una versione insospettabile, carica di passione e rimpianto. La testata rimediata alla grancassa avrebbe fermato un comune mortale ma Crowe pare trarre stimoli positivi dal dolore. Come se nulla fosse, si piega sul manico della chitarra, stira le note e urla nel microfono l’ultimo atto del suo Juliet. Il pubblico è riconquistato e le ragazze delle prime file ricominciano a singhiozzare inebetite. L’esecuzione dal vivo di You and Your Perfect Life doppia la durata della versione in studio. Sembra una piccola suite rock. Il rimpianto di And You Are? è diventato odio e la stupidità di The Twentieht Call of the Day si è tramutata in follia: “me ne stavo lì a lanciare sassi contro la finestra/ finché alla porta arrivò lui/ ma allora lei dov’era, signora Balfour?”. Comincia l’appassionato a sólo che porta dritto alla tag. In una sequenza di velocissime note l’intreccio con Layla di Eric Clapton (o di Derek and the Dominos, se si preferisce) è sublime. Dopo un’ora e un quarto la musica del selvaggio Tucker Crow ha messo in ginocchio l’Arena. In visibilio, la platea tributa il caldo saluto del Wisconsin a questo spirito inquieto. Il peso del mondo, che pare gravare tutto sul burbero musicista, può essere alleggerito dal rock’n’roll. Il live di questa sera dimostra che Tucker ha esorcizzato, grazie alla musica, molti dei suoi demoni anche se non ha ancora dimenticato Juliet. Ma questa è … tutta un’altra musica.
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