venerdì 16 aprile 2010

Tucker Crowe and The Politics of Joy (I)

Ho trovato la cronaca di un interessantissimo articolo di ben 24 anni fa.
Che tipo questo Crowe!
Spero che la traduzione dall’inglese sia chiara.
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Milwaukee, 16 aprile 1986

di Paul W. Silverbull
per The Milwaukee Inquirer
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Dopo aver ospitato i Dire Straits, lo scorso agosto, e i Metallica, pochi giorni fa, Milwaukee ha assistito ad un altro concerto ad alto tasso emozionale. L’eccentrico Tucker Crowe sfida se stesso e il mondo con il suo show fatto di eccessi. Selvaggio, atipico e a tratti strepitoso, il musicista del Montana dimostra di aver raggiunto la maturità artistica. Purtroppo, solo quella.
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Battaglia doveva essere e battaglia è stata. Dopo un’ora di ritardo Tucker Crowe sale sul palco, con faccia estasiata e sorriso sornione, per annunciare al pubblico: “La Signora Furmick proprio non voleva saperne di staccarsi da me!”.
L’infelice, ma non insolito, esordio del cantautore riesce ad indispettire anche i pochi presenti disposti a perdonare questo ennesimo capriccio. La stragrande maggioranza dei 9.500 paganti gli riserva una bordata di fischi che riempie l’Arena di Milwaukee, luogo destinato ad accogliere la decima e unica tappa nel Wisconsin del “Juliet Tour”.
A Tucker non dev’essere andato a genio il poco lodevole articolo del Milwaukee Newspaper, firmato da Don Furmick, in cui ci si chiedeva: “perché questa città deve accontentarsi di un alcolista che gioca a fare il musicista dopo aver avuto Dire Straits e Metallica?”. Vero è che Crowe non ha il talento di Mark Knofler e il seguito dei Metallica; vero è che il quasi trentatrenne di Bozeman è dedito – per sua stessa ammissione – all’alcool; ma altrettanto vero è che Juliet, il suo sesto disco uscito il 2 aprile scorso, è intriso di una passione e una spiazzante sincerità capaci di lasciare il segno anche nel Furmick più inacidito.
Ma non tutti i mali vengono per nuocere. La risposta di Tucker, allo spazientito pubblico, è benzina sul fuoco e, nel rock’n’roll, la rabbia è un dono. Tucker sveste il giubbotto di pelle, lo lancia in pasto al suo pubblico e impugna la Les Paul per produrre un interminabile effetto feedback spacca timpani. Poi allarga le braccia al cielo come a trattenere un’energia incontenibile. E’ il segnale. Billy Backer inizia a colpire, con lucida follia omicida, le pelli della sua batteria. I Politics of Joy, senza il dimissionario Sneaky Pete Kleinow alla pedal steel, si lanciano all’inseguimento di una selvaggia And You Are?. Molto più ritmico, questo nuovo arrangiamento, corre a perdifiato lungo una spirale di disperazione; la musica ricorda la violenza degli MC5, il testo sembra uscito dalla penna di un acerbo Lou Reed: “Mi avevano detto che parlare con te/ era masticare filo spinato con un’ulcera in bocca/ ma mai mi avevi ferito così”. Ma non è solo nell’anima che Tucker porta scolpito il suo dolore. Nell’arco di quei pochi mesi che dividono questa tournee dalla precedente, sembra essere invecchiato oltremodo, e poco o nulla fa per nasconderlo. Veste canotta e jeans neri attillati e si muove su scarpe che sembrano mezzi cingolati. I lineamenti del viso, eccessivamente pallido, hanno perso anzitempo elasticità e una pancetta antiestetica inizia a trovarsi a suo agio solo nascosta dalla chitarra. Alla fine del pezzo i veri fans, alcuni accorsi da tutto lo Stato, hanno rimpiazzato una buona dose di nervosismo, accumulato durante l’attesa, con una vagonata di adrenalina. Un cartello quasi illeggibile riemerge, dalla calca, nei pochi momenti di quiete e recita “Renegades of Reedsburg”. Su uno striscione seminascosto sulle tribune, invece, campeggia l’ermetica scritta “Madison for T(r)ucker(s). Yeah!”.
Crowe è visibilmente adirato. Sulla sua faccia si legge il tipico “ve la farò pagare” alla Clint Eastwood. Snocciola i nuovi pezzi senza tregua e con il chiaro intento di trasporre, dal vivo, il senso dei brani inclusi nel disco: per questo li ripropone in sequenza. Adultery, taglia, We’re in Trouble, morde e In Too Deep punge. Il pubblico è per gran parte domato.
Juliet è un album complesso. Il tormento che affiora dai solchi non lascia dubbi circa le intricate dinamiche che lo rendono un album maledetto. Nel volgere dei suoi dieci capitoli, musica e parole si cercano proprio come i due protagonisti alla base della storia, senza mai trovarsi. Quando la musica è dura, il testo è indulgente; quando gli arrangiamenti risultano scarni, le liriche sputano veleno. Si svelano, intrise di rabbia e tristezza, le pene d’amor perduto, e tutte le piccole e grandi tragedie che il breve ma intenso legame con la modella Julie Beatty ha lasciato in dote al povero Tucker. Il concerto prosegue con un mid tempo che consente a band e pubblico di prendere fiato. Cheez Doodle, al basso, reinterpreta, molle come lo è sul disco, il giro introduttivo della splendida The Better Man e Crowe ringhia nel microfono liriche disincantate: “La fortuna è una malattia, non la voglio vicino”. Ma anche i duri hanno un cuore. Inizia la fase introspettiva del concerto. Il cantante mette da parte, momentaneamente, i drammi sentimentali di Juliet ed imbraccia la sua Martin acustica per rileggere il suo passato artistico. Dal primo e omonimo album riesuma una Perc And Tickets (Perc, abbreviazione di percloroetilene) che, quasi commosso, dedica, ora come nove anni fa, allo scomparso padre Jerome: “Lui aveva questa stramba abitudine di fare le cose senza avvisare. Un giorno ha preso i miei jeans e li ha portati nella dannata lavanderia, di cui era proprietario, senza dirmi niente. Ha lavato i pantaloni e due biglietti che erano nelle tasche e, non so, questo percloroetilene … insomma sì li ha scoloriti, come bruciati. Erano ingressi per un concerto di Dylan! Ah, ah! Già. E così se n’è uscito dicendomi che aveva bruciato i miei biglietti per il paradiso. Questa è per te, Jerome, vecchio testone!”. Appena conclusa l’introduzione parlata, un tizio gli urla “sei un fottuto genio, T.C. (= Ti Sì)!”, e lui di rimando: “Oh, grazie per il fottuto! Ma chi cazzo ti ha fatto entrare?”.
Senza infamia e senza lode la rilettura, molto simile all’originale, di Venus dei Television.

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