L’ultima data dell'Heineken Jammin' Festival, a Venezia, coincide con l’unica tappa italiana del Backspacer Tour. Più che un concerto, quello del 6 luglio, è un rito purificatore che cancella l'ombra della frustrante edizione, colma di polemiche, del 2007: all’epoca un tornado aveva devastato il palco, impedito l'esibizione della band americana e, per di più, aveva provocato il ferimento, anche grave, di alcuni spettatori. Situato in un luogo decentrato della penisola (non proprio comodo da raggiungere), tendente a perturbazioni meteorologiche in piena estate, questa volta il contestato, sventurato e caotico Heineken Jammin' Festival non miete vittime tra i circa 45.000 “jammers”. Più minacciose dei cumuli cinerei, le imprecazioni dei fans devono aver dirottato le nuvole altrove.
Partito sin dal primo pomeriggio, il tourbillon di gruppi incassa un poco edificante successo. Il sole ancora alto, la temperatura oltre i 30 gradi e il disinteresse di chi ha comprato il biglietto solo per vedere i propri beniamini, rendono anonimi i set degli italianissimi Plastic Made Sofa, dei tanto bravi quanto fuori contesto Gomez (rimpiazzo dei Wolfmother) e dei Gossip che hanno la fortuna di avere in Beth Ditto un autentico animale da palcoscenico (vittima di una spaventosa caduta senza apparenti postumi). Subito dopo lo show della corpulenta soul woman un repentino cambio di temperatura lascia presagire il peggio. Modeste raffiche di vento misto a pioggia costringono la security a sgomberare il pit (spazio riservato ai primi arrivati), ma l’allarme rientra - come pure i fans nel pit - e i redivivi Skunk Anansie occupano la scena con Skin protagonista di un improvvisato crowd surfing.
Dopo tanto rumore, la buona musica di Ben Harper and Relentless7 è preludio al vero evento, anticipato dal duetto con Vedder su una riabilitata Under Pressure.
Ed ecco l’inizio della messa. Sul main stage della nota rassegna musicale si celebra il culto del rock'n'roll. Sciamàno per i presenti, leader di una band in stato di grazia e destinatario di un lascito che attinge alla tradizione, Eddie Vedder cattura, per poi restituirlo amplificato, il sincero affetto di un pubblico in visibilio. La sola vista dei musicisti sul palco libera l’adrenalina di chi ha varcato i cancelli del Parco San Giuliano già dalle dieci del mattino (in maggioranza ragazzi in fila da molte ore prima dell’apertura).
Given To Fly trancia l’impaziente attesa, la splendida Corduroy, con cenni di Interstellar Overdrive dei Pink Floyd, collauda il pogo e l'anti-war World Wide Suicide ridesta i corpi rattrappiti della fiumana di gente pressata sotto al palco. Vent’anni insieme, e non è un iperbole quando si dice che l’affiatamento ha migliorato certi aspetti della band. McCready è semplicemente perfetto: si carica addosso il peso di ogni intricatissimo assolo, salta come Pete Townshend, imperversa, chitarra dietro la nuca, come fosse Hendrix e regala decine di agognati plettri alla folla. Impeccabili i due fondatori del gruppo: Gossard, alla chitarra ritmica, e Ament, al basso. Puntuali Cameron, alla batteria, e “Boom” Gaspar, membro aggiunto, alle tastiere. Vedder è più rilassato e comunicativo ma non meno arrendevole che in passato. Impone i ritmi aggressivi delle origini che soverchiano quelli recenti e più controllati. Gli otto brani estratti da Ten (disco del 1991), o comunque a quell’album direttamente riconducibili - come le outtake di lusso Breath e State Of Love And Trust - doppiano per numero quelli estrapolati da Backspacer (2009).
Momenti di profonda riflessione frenano le impetuose interpretazioni dei musicisti e digradano la tensione in platea. Succede con la nostalgica Elderly Woman Behind The Counter In A Small Town e con la disperata Black (uno dei tanti colori dell’amore, dice Vedder). Ripartenze brucianti lasciano senza fiato. Succede con la rabbiosa Even Flow, quasi sempre presente in scaletta, e soprattutto con la provocatoria Do To Evolution. Il suo contagioso beat incita a dimenarsi, il testo a rinnegare credo distruttore e mito della prevaricazione. Per Red Mosquito la band si avvale dell’ hawaiian lap steel guitar elettrica di Ben Harper per un sound pervaso di Delta blues. Ma non sono solo i fantasmi del Mississippi ad aleggiare nel buio di questa straordinaria notte nella Serenissima: Arms Aloft in Aberdeen rende omaggio all’ultima visione musicale di Joe Strummer. Un Vedder ebbro, di vino, di passione, stecca l’inno per eccellenza; un lampo di smarrimento segna il suo sguardo desideroso di aiuto, ma non è un problema perché ad assisterlo su Alive ci sono migliaia di voci pronte a cantare i versi dimenticati.
Rockin’ In The Free World si tramuta in un sing-along che richiama sul palco Harper, i suoi Relentless7 e Rob Machado (surfista australiano amico di Eddie) per un finale mozzafiato.
L’ultimo saluto è un atto d’amore per l’Italia. Vedder dice di aver idealizzato, da ragazzo, il nostro Paese, di averlo sempre visto come un posto irraggiungibile come la luna. Ma la conclusiva acclamazione gli offre la certezza di aver raggiunto, oggi, quel posto e di poterne godere di un piccolo pezzo.
3 commenti:
Sì, ma che vecchietti! ;-)
Un abbraccio!
vecchietta presente!! mi pare di capire che i ragazzi non ti hanno deluso...e quando mai???
"Restless soul, enjoy your youth", i veri ragazzi siamo noi!
Un abbraccio stritolante :-)
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