Il 2009 è stato prodigo di pubblicazioni, non proprio significative, di big del mainstream rock. Al modesto Working On A Dream di Springsteen, ad esempio, ha fatto seguito l’inconsistente “No Line On The Orizon” degli U2. Adesso tocca ai Pearl Jam rifarsi vivi con nuovo materiale.
Tra lettere, numeri e simboli, il “Backspacer” (indicato sulle tastiere dei PC dall’abbreviazione “Bk Sp”) è il tasto che svolge l’importante funzione di correggere errori (e/o orrori) con una netta “sbianchettata”, con un semplice ritorno di posizione del cursore. L’omonimo album dei Pearl Jam corregge un bel po’ di scelte della recente storia passata, fino a riannodare la trama di un discorso interrotto undici anni fa.
C’è il ritorno del produttore Brendan O’Brien, con il quale sanno instaurare un dialogo speciale (Vs., Vitalogy, No Code, Yield e la riedizione di Ten sono affar suo) che sembra esclusivo, vista l’impossibilità di funzionare pienamente con altri artisti. Dalla lista dei musicisti il backspacer cancella pure il nome del sesto Jammers, quello “aggiunto”. In sala d’incisione manca il tastierista “Boom” Gaspar e il suono ritrova quel mood naturale, mentre il ritmo riprende quel tiro roccioso che bene sa esprimere la band.
Una curiosità sul titolo. Pochi mesi fa il nome Backspacer ha avuto una destinazione d’uso particolare. Da buoni ambientalisti i Jammers hanno supportato un progetto per la salvaguardia dell’ecosistema marino, battezzando proprio Backspacer la testuggine di mare che nell’aprile scorso (quindi durante le sessions di registrazione) ha partecipato e poi vinto la “Great Turtle Race”, bizzarra gara di nuoto tra simili, indetta per sensibilizzare l’opinione pubblica sul pericolo di estinzione di questa specie animale.
Ma non è di certo lento come l’andamento di una tartaruga, il ritmo dell’album. Gonna See My Friends spara chitarre a tutto volume dalle grate di un garage che dà sul cortile. Partenza bruciante, cattiva come non succedeva con Brain of J tratta da Yield (del ‘98).
Il motore sotto il cofano gira a mille e spinge ancora. L’accelerata di Got Some spazza via tutta la polvere accumulata sulla carrozzeria; il brano è potente, dai cori efficaci anche se discreti, e la sezione ritmica retta dalla premiata ditta Ament & Cameron sfianca i compagni. Lanciato come singolo accalappia clienti The Fixer, testo ottimista e motivo accattivante, da solo non ha senso, ma posto al termine del double-shot di testa forma un trittico che si esaurisce in soli otto minuti: una media da punk band. Bentornati ragazzi!
Una massiccia dose di wah-wah e Johnny Guitar trova nei saliscendi virtuosi della voce di Vedder una soluzione già utilizzata in Alone, b-side inclusa nella raccolta Lost Dogs (del 2003).
E come nel puzzle fumettistico di Tom Tomorrow riproposto in copertina, anche il contenuto del disco è un mosaico di tessere dai colori vividi e opachi che si mescolano per proporre un album dai toni indistinti. O meglio, con Johnny Guitar si chiude il capitolo tosto dell’album (che sarà poi parzialmente riaperto da Supersonic) e con Just Breathe si inaugura il Backspacer dalle sfumature pastello. E’ una ballata uscita direttamente dall’album solista di Vedder (Into the wild, colonna sonora dell’omonimo film di Sean Penn) e si sente. Arrangiamenti di archi e una linea di basso semplice ed in evidenza assicurano un taglio vintage al pezzo.
Da tempo la band ha abbandonato atmosfere cupe fatte di musiche irruente e testi carichi di angoscia, collera e tristezza, ma è in questa nona prova in studio che i musicisti lasciano il passo a soluzioni meno problematiche che includono calma, gioia e piacere. Da bravi patrioti americani che hanno votato dalla parte giusta, i cinque di Seattle non possono esimersi dall’esternare maggiore fiducia nel futuro. Brani come The Fixer, inedito manifesto dell’ottimismo espresso dalla band (“se qualcosa è andato rotto voglio provare a rimettere insieme qualche pezzo”), e la romantica ballad Just Breathe (“Sono un uomo fortunato, per contare sulle mani del mio amore”) sono l’espressione del nuovo corso. Del resto è lo stesso Vedder ad aver dichiarato: “Finalmente un briciolo di speranza, dopo dieci anni di canzoni arrabbiate”. E questo senso di rilassatezza si tramuta in redenzione che permea l’epica Amongst the Waves fortemente influenzata dalla passione di Ed per il surf (“Cavalcando alto fra le onde/ Posso sentire di aver avuto un’anima che è stata risparmiata/ Posso vedere la luce attraversare le nubi sotto forma di raggi”). Liriche ispirate, voce e suoni trattati con effetti eco in aggiunta all’assolo di chitarra di Mike, le conferiscono un taglio epico e la candidano a futuro classico del repertorio.
Unthought known è schiacciata dalla traccia precedente, della quale sembra una copia incolore, e da Supersonic, non eccelsa ma veloce e messaggera di una tesi taciuta fino ad oggi ma tramandata per consuetudine sin dal mitico Ten: “voglio vivere la mia vita a tutto volume” (I wanna live my life with the volume full).
Negli scarsi 40 minuti di durata che servono a riprodurre gli undici brani c’è spazio anche per momenti non proprio all’altezza. Pervaso da una criptica introspezione trova spazio, sul finire del disco, un terzetto di componimenti senza troppe pretese. La ridondante Speed of Sounds (solo omonima della creazione dei Coldplay), l’anonima Force of Nature e la malinconica The End non lasciano un segno indelebile.
A questo punto della carriera i Pearl Jam possono permettersi di avventurarsi in sentieri più commerciali senza perdere credibilità e mantenendo vivo il loro impegno nel tramandare l’essenza di un genere allo sbando. E il rifiuto di sottoscrivere un contratto con una major discografica è la prova che questi uomini hanno scelto di portare avanti, senza pressanti vincoli, una missione nel rispetto di valori inviolabili: su tutti la libertà di esprimere la propria arte.
Let’s rock!
Nessun commento:
Posta un commento