Patti Smith Acoustic TrioAlberobello, 4 luglio 2009 - Piazza IndipendenzaIn un incantevole scenario architettonico e naturale, Patti Smith regala per un’ora e mezza un’intensa ed appassionata rivisitazione in chiave acustica dei suoi brani. Al chiaro di luna, racconti di vita, morte e resurrezione si vestono di musica e compenetrano sotto pelle come un antidoto salvifico, tra ballate spettrali e rock ’n’ roll impareggiabili. L’artista veste i congeniali panni di sacerdotessa e protagonista assoluta, Lenny Kaye quelli di guitar man e amico fraterno, e Jesse Smith di musicista esordiente e figlia. Il pubblico, invece, ricopre il ruolo di testimone ed esterrefatto comprimario di una serata storica. Assieme alle registrazioni di altri tre concerti, quella pugliese verrà pubblicata in un disco live. Una volta di più, Alberobello è patrimonio mondiale dell’umanità. Sono le 22 esatte quando Patti Smith entra in scena per aprire questa terza edizione della manifestazione
Primitivo Festival - la provincia dei suoni, che coniuga arte e turismo e che mira a richiamare presenze nei luoghi incantevoli della provincia barese con l’avvento di artisti internazionali.
Con il suo gentile incedere l’immancabile Lenny Kaye, longilineo e ormai quasi canuto, compare al fianco della musicista e poetessa americana. Lei, sorridente nei suoi blue jeans infilati in stivali texani e con la chitarra a tracolla, esordisce con un timido ma preciso “Buonasera”.
Con serenità mista a rassegnazione, una nenia dolce e malinconica, apre il concerto. Si tratta di un nuovo componimento offerto alla memoria dello scomparso Michael Jackson. Un pre-set onirico, quasi astratto dal contesto passionale nel quale si svilupperà lo spettacolo.
Patti Smith mito ribelle degli anni ’70, è al centro di un palco spoglio che contempla solo un fondale nero con la riproposizione del logo del festival ospitante ed essenziali fasci di luce ad illuminare la scena. La sua figura, tutt’altro che curata, catalizza lo sguardo della muraglia umana che le si para di fronte e che è stipata in ogni anfratto dell’anfiteatro. Dopo Radio Baghdad, eseguita solo dalla Smith e da Kaye, Jesse Smith fresca dei suoi 22 anni (presentata semplicemente come “my daughter”) fa il suo ingresso sul palco.
Parte l’accompagnamento al piano per Grateful, poi l’aria s’impregna delle dolenti atmosfere di Birdland: i tasti suonano una melodia solenne, la chitarra insegue note altissime e la voce rincorre l’interminabile testo e all’ennesimo “where we are not human, we’re not human”, Patti lascia partire un primo spurgo di saliva. My Blakean Year mostra una Smith capace di tenere sempre alta l’attenzione del pubblico (abilità rara quando lo show è acustico), ma per non rischiare troppo, Redondo Beach vira verso l’allegro motivo affidato all’organo di Jesse e alla chitarra aggiunta di Mike Campbell, suo compagno di vita, che si aggrega al trio. Testo lugubre per un ritmo reggae che si addice al battimani ritmato del pubblico.
Nell’ipnotica Ghost Dance c’è gloria anche per Lenny, che canta qualche verso smussando il ritornello con la sua vocalità dolce, perfetto contraltare ai toni spigolosi della sacerdotessa “maudit”. Lei spesso canta in trance, spesso cerca il non limite del cielo aperto, spesso accompagna i versi con gesti sinuosi, sbraita e scalcia come un mulo, sembra una debuttante eppure calca i palcoscenici che contano da oltre trent’anni (era il 1975 quando ancora giovane appariva su Horses nel bianco e nero a cura dell’amico fraterno Mapplethorpe). Calcoli anagrafici a parte, l’inesorabile luminosità del palco rende evidente un dato di fatto: Patti Smith è vecchia. E la sua vecchiaia viene ostentata senza indugi. Quello che futilmente pare un limite nell’odierno showbiz, è al contrario, il suo punto di forza. È un’artista, non una diva. La sua immagine è di una brutale essenzialità e riflette senza alcun gioco di prestigio l’immagine di una donna di 62 anni. La mostra come dovrebbe essere, senza temere l’evidente ricrescita di capelli perennemente in disordine, senza trucco su occhi contornati da rughe, senza artifici posati sul o nel viso ormai vinto dal tempo e assalito dalla peluria, e senza timore d’inforcare occhiali (tondi e fuori moda) per correggere la vista. Al contrario di molte sue colleghe – e ahimè molti colleghi – è perentorio il divieto di utilizzo di espedienti volti ad ingannare. Ecco, dunque, l’antidiva per eccellenza mostrare il suo naturale declino fisico in tutta sincerità. Uno stile che, con le dovute differenze, richiama quello dell’attrice Anna Magnani, capace di rimproverare una truccatrice che prima di un ciak intendeva coprire quelle che a lei sembravano rughe, ma che in realtà erano racconti di vita. Così pure per la Smith: ogni piega una sofferenza, ogni solco del viso scavato da lacrime amare per la perdita di marito, parenti e compagni di viaggio.
Ma per eroi ed eroine attraversare la tempesta è un obbligo da affrontare con dedizione alla causa. Il fardello di tramandare la stirpe di poeti, maledetti e audaci che va da Rimbaud a Ginsberg, risolleva lo spirito di una donna affranta ma non sconfitta. Una che con slancio ha ripreso un percorso interrotto prima volontariamente (per costruirsi una famiglia) e poi forzosamente (quando la famiglia faticosamente costruita ha perso un cardine con la morte, nel 1994, del marito Fred “Sonic” Smith, già chitarrista degli MC5). Un percorso senza via d’uscita che la veicola nuovamente nel vortice dell’arte.
Quel vortice che l’ha condotta in questo piccolo e splendido borgo della provincia barese, dove, per la conclusione dello show, raccoglie ovazioni e gratitudine che ricambia con una passeggiata in platea su Dancing Barefoot. Non è più giovane ma è ancora destinata a cantare l’amore (Because The Night, e questa la sanno pure i trulli), la speranza (People Have The Power) la delusione (la splendida Pissing In A River), il desiderio (Gloria). Recita di anime in pezzi marcite nella disperazione e di ferite rabberciate in qualche modo (proprio in Dancing Barefoot). Per la sua stirpe ogni tempesta muta in arcobaleno, ogni dolore muta in sofisma, in una sorta di congiungimento al nirvana.La sua vecchiaia non ha placato la sua irrequietezza, perché ancora sputa come il codice del movimento punk prescrive e perché, insofferente, punta i pugni ad un cielo che pare voler tirare giù e inchiodare al terreno per annullare un limite invalicabile, con l’intento di disarcionare ipotetici dèi dal loro potere e imporgli un solo giorno di sofferenze su questa terra. La sua autentica aura da bohémien è comprovata da un evento accaduto nel pomeriggio, dopo il soundcheck. Si concede un piccolo giro turistico con l’intento di visitare una minuscola chiesa. Incuriosita dal gruppetto di gente ferma sul sagrato, una giovane famiglia di passaggio si ferma e l’attende. Lei li nota e quasi timidamente chiede il permesso di immortalarli con una foto (“un ricordo da conservare”) che scatta con la sua mitica Polaroid. Esempio sbalorditivo della sua curiosità per persone in cui s’imbatte e per luoghi che l’accolgono. Così come è sorprendente l’improvvisato augurio cantato sul palco (con tanto di “Happy Birthday” intonato in coro da tutto il pubblico) a Stefano, suo locale assistente che è nato il 4 luglio. “Negli U.S.A. il 4 di luglio è il Giorno dell’Indipendenza – dice – e proprio adesso stanno sparando i fuochi d’artificio. È la data designata a celebrare la libertà”, e parte una coinvolgente People Have The Power. Ed è festa, perché nessuno più resta seduto: tutti si riversano sotto il palco richiamati da un’enorme forza invisibile. Ma il lato scapigliato del carattere della Smith non penalizza in alcun modo la professionalità. Lo show, infatti, dev’essere perfetto non solo perché finirà su disco, ma perché il rispetto per il pubblico è sacro. Ed allora, subito dopo Grateful, richiama l’attenzione con un ibrido “Scusè” e chiede al tecnico del suono (che chiama Michele, per nome!) di dare più volume al piano (“Jesse need more piano”) e più spessore alla voce (“and I need a little more vocal”) cosicché la platea possa godere appieno della performance. E conclude con un goffo “Grassie, grassie”. Con la dolce Wing dedicata alla figlia Jesse e a “tutti i bambini in cui è riposta la speranza per un futuro migliore” e l’ardente Gloria (
ecco le immagini), si conclude un rito catartico, più che un concerto. Già Signora Smith, non è solo negli States adesso che i botti pirotecnici stanno illuminando la notte. Per una serie di coincidenze, infatti, viene in mente una grande canzone di Springsteen [4th Of July, Asbury Park (Sandy)], che adeguatamente corretta nel nome della protagonista e del luogo sarebbe una perfetta sintesi della serata: “Patti, i fuochi d’artificio scintillano su Alberobello in questo 4 di luglio”.
La "Godmother of Punk", a 62 anni, è poetica, avvincente e più giovane che mai.
Report per
Revolving Doors.
2 commenti:
... indimenticata Patty Smith in Piazza San Marco, ormai molti anni fa.
Ciao Fratelli Caponi!
A proposito di situazioni indimenticabili.
Prima e dopo il concerto ho incrociato la Smith e Kaye.
Pensa cos'ha provato il sottoscritto nel trovarsela davanti, chiederle 2 autografi (per Easter e Horses) ed essere accontentato.
Ma soprattutto pensa a come si è sentito 'sto poveraccio quando ha beccato Kaye, gl'ha chiesto 2 autografi, c'ha scambiato 2 chiacchiere (in inglese!) e non solo è stato accontentato ma è stato anche compreso!! :-)
Grazie per il commento,
torna quando vuoi.
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