martedì 29 settembre 2009

Tastiere Rock

One-two-three-four! Batteria, chitarra, voce cavernosa e basso stipati in un 4/4 da tre minuti. What else?
Al rock non serve altro. O forse sì?
Beh, un pianoforte!
Superfluo optional per i detrattori o arnese fondamentale per gli estimatori, lo strumento ha vissuto una storia controversa sin dagli albori del rock’n’roll.
Rinnegato o amato, il suo ruolo è stato determinante nella realizzazione di brani (tosti e non melodici) passati alla storia.

Duttilità dello strumento e mani capaci hanno permesso la risoluzione di tragiche situazioni di stallo in sala d’incisione, o la creazione di trame fittissime improponibili a semplici “impiegati” della chitarra.
The Band, The E Street Band e The Wallflowers, solo per citarne alcune, sono rock band riuscite a creare una perfetta alchimia di suoni, un ineccepibile equilibrio tra smisurato egoismo di chitarre e dispotico incedere di console.
Per queste band, il pastoso suono del piano, il pervasivo fluire dell'organo (generalmente il mitico Hammond), la glaciale marcia del synth, o i tre elementi insieme, sono una costante imprescindibile. E’ morbida malta che, discreta ma efficace, colma fessure cementando lastre di granito altrimenti instabili. Garth Hudson (mi genufletto mentre scrivo il suo nome), Roy Bittan (sono sempre in ginocchio e ho sparso chiodi sul pavimento) e Rami Jaffee sono, per i rispettivi compagni, il rifugio in vetta alla montagna quando impazza la tempesta. La loro arte, di rado sotto i riflettori, è quasi sempre al servizio della band.

Ma è solo una parte della storia. Altre vicende narrano di gruppi che individuano l’epicentro del sound nelle magie elargite dagli 88 tasti. La tendenza a lasciar spaziare aride armonie o telegrafici suoni artificiali porta a soppiantare corde e tamburi con pianole e sintetizzatori sempre più evoluti. La diaspora porta alla nascita di una cultura musicale che rifiuta il ruolo complementare assegnato alle tastiere nel mainstream rock. Diverse correnti di pensiero si fronteggiano e gettano nuove basi da cui ripartire. Dal confronto emergono i pionieri Kraftwerk e, dopo il loro esordio, è un continuo prosperare di band che creano mille sottogeneri - krautrock, new wave, synth rock, industrial, ecc. - collocabili nell’ambito della musica elettronica.
Il presupposto è più o meno questo: se le corde vocali accompagnate dai tre strumenti basilari del rock possono dare vita ad una band, una sola tastiera può sostituire la Berliner Philharmonisches Orchester. Argomento spinoso questo, che potrebbe esaurirsi (forse) solo in un trattato ad hoc.

Ma quali potrebbero essere i componimenti, incontestabilmente rock, nati dal ripetuto battere di quei tasti ebano e avorio? Quali i pezzi in cui l’organo lagna una frase indimenticabile? Quali i brani guidati da un rigido suono sintetizzato che, di diritto, rientrano in una playlist rock? Tanti. Troppi.
Ecco, allora, tre graduatorie alla maniera di Rob Fleming (il personaggio ideato da Nick Hornby per “High Fidelity”) che classificano alcuni esempi di tastiere rock.
Le top five, coprono l'arco temporale che va dalla metà dei ’50 fino a oggi. Dalle infuocate progressioni di Jerry Lee Lewis, uno che malmenava il suo Baldwin con mani, piedi e chiappe, ai sintetizzatori Roland dei Chemical Brothers.


1. La top five dei brani rock con un pianoforte in fiamme:

- Jerry Lee Lewis: Great Balls Of Fire [1957]
Unico e irripetibile, il sound di Lewis fonde honk tonk e boogie–woogie in una miscela altamente infiammabile, proprio come la versione del pezzo composto da Otis Blackwell. Quella del “killer” è una cavalcata pianistica trasgressiva e insolente, insomma, rock’n’roll.

- The Band: Rag Mama Rag [1969]
Un classico del repertorio del gruppo. Garth Hudson è il cuore della band che pulsa pompando sangue nelle vene. In Rag Mama Rag è facile, ad un certo punto, individuare un cambio: la pioggia di note che blandamente si è poggiata sulla struttura del pezzo, inizia a rovesciarsi torrenziale finché non ne impregna il mood. Straordinaria la versione su disco, superlativa quella inclusa in “The Last Waltz”.

- Bruce Springsteen: Jungleland [1975]
Una rimaneggiata E Street Band, più grintosa di quella del debutto, regala al mondo una pietra miliare del rock. L’ingresso del valente “professor” Roy Bittan spinge Bruce a plasmare il suo terzo disco, Born To Run, su partiture di pianoforte. In questo lavoro le liriche concedono la vista agli occhi dell’ascoltatore, mentre il piano di Bittan ha il pregio di trasmettere gli umori narrati.
Jungleland svetta sulle altre sette mirabili registrazioni per solenne autorevolezza.

- Warren Zevon: Werewolves Of London [1978]
Si potrebbero spendere migliaia di parole sul conto di Zevon e delle sue canzoni. Istrionico e talentuoso, il cantautore affida il suo particolare humor a Werewolves Of London, il suo singolo più conosciuto, il più fresco, un brano senza tempo. Ne è prova la truffa perpetrata da quel tamarro di Kid Rock che ne ha fuso un segmento a Sweet Home Alabama (dei Lynyrd Skynyrd) per farne un hit a trent’anni esatti dalla pubblicazione. Il pezzo del compianto Warren resta, però, irripetibile.

- Patti Smith Group: Frederick [1979]
Il brano che insieme a “Dancing Barefoot” salva Wave, quarto album del Patti Smith Group, dall’anonimato. Il pianoforte di Richard Sohl offre a Patti un vellutato tappeto sonoro ove poggiare il tenue canto. Quando il ritmo prende il sopravvento, il piano si mimetizza e conduce gli altri strumenti fino al termine. Nel mezzo c’è spazio anche per un breve accenno di synth. Nell'insieme, il componimento risulta ritmato e allo stesso tempo melodico.

2. La top five dei brani rock con un suono d’organo grosso così:

- The Animals: House Of The Rising Sun [1964]
Musica sacra prestata al pop. Nella versione di House of The Rising Sun degli Animals, Alan Price rende profana una musica che ricorda gli inni che riecheggiano in chiesa. E’ magistrale il binomio organo-voce del triste pezzo condotto dalla tastiera di Price e dalla sofferta voce di Eric Burdon.

- Bob Dylan: Like A Rolling Stone [1965]
Assolutamente trascinante il motivo proposto dall’organo di Al(an) Kooper. E pesare che questo poco più che ventenne sessionist non doveva essere in sala d’incisione. Costretto a rivestire un ruolo improprio, il baldanzoso chitarrista, riesce a reinventarsi organista pur di suonare con Dylan. Durante le registrazioni per Highway 61 Revisited realizza, all'impronta, un capolavoro che aiuta Like a Rolling Stone a diventare un pezzo storico. A testimoniarlo è un evento particolarmente importante: quando Dylan entra in scena per pronunciare il suo discorso alla Rock’n’Roll Hall Of Fame (1988), viene accolto proprio dal riff di organo creato da Kooper.

- The Doors: Light My Fire [1967]
La band trasgressiva. La band senza basso. La band del poeta dallo sguardo magnetico. La band che ha fatto del suono d’organo un marchio di fabbrica. Light My Fire è un pezzo coi fiocchi soprattutto per merito di Manzarek.

- Deep Purple: Highway Star [1972]
Non è un brano che mi fa impazzire ma poco importa. L’assolo di organo dura solo un minuto ed esalta le qualità di Jon Lord: ogni tasto un grilletto, ogni grilletto un colpo. E di colpi, la sua tastiera, ne spara a raffica. Per tutto il resto del brano l’organo si piazza in una zona d’ombra e il suo suono non soccombe e non sovrasta gli altri strumenti.

- The Wallflowers: Bleeders [1996]
Rami Jaffee riporta in auge il ruolo dell’organo. Con piglio autoritario direziona il suono della band regalando agli appassionati di rock un vero gioiello. La sua proverbiale capacità è la chiave di volta del successo di Bringing Down The Horses. The Bledeers include ritmi rock e momenti più riflessivi nell’arco di 3 minuti e mezzo mantenendo sempre alta la tensione: un pezzo così andrebbe studiato a scuola.

3. La top five dei brani rock (o quasi) condotti dal sintetizzatore:

- Joy Division: Love Will Tear Us Apart [1980]
E’ rock fortemente influenzato da suoni elettronici quello di LWTUA. Il suono del sintetizzatore è freddo e riconoscibile al primo ascolto. Un sibilo fastidioso e sinistro che ben accompagna le tristi liriche. Un capolavoro.

- Eurytmics: Sweet Dreams (Are Made Of This) [1983]
E’ una dicotomia evidente a portare inalterato il fascino del brano sino ai giorni nostri. La voce di Annie Lennox è suadente mentre il synth è algido. E’ tra i brani più significativi e più sputtanati degli anni ’80, finito in tutte le più becere compilations dell’epoca.

- Van Halen: Jump [1984]
Ignobile brano, ignobile il suo autore. Chi l’avrebbe mai detto? Jump è assolutamente dipendente dal suono di synth eppure Eddie Van Halen è un chitarrista dalle funamboliche abilità. Ma con queste, non sempre si porta la pagnotta a casa. Brano indispensabile, nonostante tutto.

- Depeche Mode: Never Let Me Down Again [1987]
Nell’ambito della musica elettronica è quanto di più vicino al rock suonato con gli strumenti tradizionali si possa trovare. Davvero pregevole l’apertura del chorus dopo toni cupi e frustrati. Questo brano trova spazio in Music For The Masses, l’album che ha steso mezzo mondo. Splendido.

- The Chemical Brothers (feat. Richard Ashcroft): The Test [2003]
La collaborazione tra i Chemical Bros. e il frontman dei Verve è quasi riuscita. I registri della voce di Ashcroft e i ritmi accattivanti dei sintetizzatori rendono sperimentale e vagamente accostabile al rock il risultato finale.
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Nota:
Nella seconda playlist, per un soffio, non c’ho infilato la magnetica Black Mask degli (International) Noise Conspiracy. Un rock martellante, veloce, potente, carico di chitarre. Il suono dell’organo ha poco più di 10 secondi per dominare. E in quella manciata di momenti urla e spacca creando dipendenza.

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