Roma, 19 luglio 2009 - Stadio Olimpico
Con uno show di tre ore Bruce Springsteen si esibisce per la prima volta in carriera allo stadio Olimpico di Roma aprendo la tre giorni italiana di questo suo ultimo tour. Rinnegati gli ultimi due album, Magic e Working On A Dream, vengono riproposti molti grandi classici che hanno reso celebre l’artista del New Jersey. Nel cuore della notte il generoso ed energico performer si ricongiunge al suo pubblico più devoto con una esibizione che supera il mero aspetto artistico per approdare anche ad una dimensione fisica.
Il palco a ridosso delle prime file annulla tutti gli ostacoli tra il musicista e il suo pubblico e il rapporto empatico si rinnova anche attraverso numerose strette di mano. Al suo fianco, poi, l’imprescindibile ausilio della E Street Band porta Bruce a difendere validamente il titolo di imbattuto campione mondiale di Rock’n’Roll.
Con uno show di tre ore Bruce Springsteen si esibisce per la prima volta in carriera allo stadio Olimpico di Roma aprendo la tre giorni italiana di questo suo ultimo tour. Rinnegati gli ultimi due album, Magic e Working On A Dream, vengono riproposti molti grandi classici che hanno reso celebre l’artista del New Jersey. Nel cuore della notte il generoso ed energico performer si ricongiunge al suo pubblico più devoto con una esibizione che supera il mero aspetto artistico per approdare anche ad una dimensione fisica.
Il palco a ridosso delle prime file annulla tutti gli ostacoli tra il musicista e il suo pubblico e il rapporto empatico si rinnova anche attraverso numerose strette di mano. Al suo fianco, poi, l’imprescindibile ausilio della E Street Band porta Bruce a difendere validamente il titolo di imbattuto campione mondiale di Rock’n’Roll.
Quando Born To Run debutta nel circuito musicale, Springsteen ha 26 anni, un paio di Converse scalcagnate ai piedi, un mucchio d’idee in testa e una travolgente passione nel cuore. Una passione capace di fargli conquistare – ben al di là di ogni più rosea aspettativa – lo status di indiscusso eroe del rock ’n’ roll. È con Born To Run, infatti, che il musicista mette a fuoco sogni e disillusioni di giovani vagabondi alla deriva ma ancora capaci di scorgere un barlume di speranza in un futuro favorevole. Se invece di essere un disco fosse un film (e a tratti pare davvero uno script cinematografico) la scena madre sarebbe individuabile in quella magistrale immagine della coppia che si lascia alle spalle la città per camminare verso il caldo abbraccio e il fulgore dei raggi del sole, metafora di un domani più rassicurante.
Una vita dopo Bruce Springsteen è un artista affermato, ha da tempo rottamato le vecchie Converse, la sua vena creativa si è un po’ inaridita ma dal suo animo sgorga ancora veemente quella passione che lo rende musicista di primo piano (si veda la sua odierna influenza su molteplici artisti), performer imbattibile (si assista anche solo ad un suo concerto a caso) e uomo sensibile al sociale (è noto il suo impegno in numerose cause benefiche).
Born To Run è ancora oggi una presenza fissa nei suoi show, Bruce è prossimo ai sessanta e se non fosse per la convinzione espressa nell’esecuzione del brano, potrebbe tranquillamente essere scambiato per un attempato riccone che blatera di eventi lontani anni luce dalla sua vita. Ma il rischio non sussiste: Born To Run non è più sua. O meglio oggi, forse, è più del suo pubblico che sua. Quando a Roma le luci illuminano tutti i 40.000 e passa presenti (molti dei quali giovanissimi) l’ennesima riproposizione di quello che è l’inno internazionale del rock ’n’ roll viene cantato all’unisono come fosse un’invocazione, una richiesta accorata di quel barlume di speranza individuata dai protagonisti del noto brano. E per almeno cinque minuti tutti sognano di essere vagabondi che camminano nel sole.
Il concerto romano, anzi l’intero tour, fa leva sul risveglio di emozioni che gli ultimi Magic (2007) e Working On A Dream (2009) non possono suscitare. Si punta tutto, allora, sulla proposta di inossidabili brani della produzione passata a scapito di queste due modeste pubblicazioni. La novità, insomma, è che non ci sono novità. Vengono propagandati solo tre pezzi recenti: Outlaw Pete, Working On A Dream e su richiesta Surprise Surprise (Magic, addirittura, non è affatto rappresentato). Bruce è costretto a sbugiardare se stesso mortificando l’avventata scelta di dare alle stampe due album praticamente brutti che non apportano linfa allo show.
Una vita dopo Bruce Springsteen è un artista affermato, ha da tempo rottamato le vecchie Converse, la sua vena creativa si è un po’ inaridita ma dal suo animo sgorga ancora veemente quella passione che lo rende musicista di primo piano (si veda la sua odierna influenza su molteplici artisti), performer imbattibile (si assista anche solo ad un suo concerto a caso) e uomo sensibile al sociale (è noto il suo impegno in numerose cause benefiche).
Born To Run è ancora oggi una presenza fissa nei suoi show, Bruce è prossimo ai sessanta e se non fosse per la convinzione espressa nell’esecuzione del brano, potrebbe tranquillamente essere scambiato per un attempato riccone che blatera di eventi lontani anni luce dalla sua vita. Ma il rischio non sussiste: Born To Run non è più sua. O meglio oggi, forse, è più del suo pubblico che sua. Quando a Roma le luci illuminano tutti i 40.000 e passa presenti (molti dei quali giovanissimi) l’ennesima riproposizione di quello che è l’inno internazionale del rock ’n’ roll viene cantato all’unisono come fosse un’invocazione, una richiesta accorata di quel barlume di speranza individuata dai protagonisti del noto brano. E per almeno cinque minuti tutti sognano di essere vagabondi che camminano nel sole.
Il concerto romano, anzi l’intero tour, fa leva sul risveglio di emozioni che gli ultimi Magic (2007) e Working On A Dream (2009) non possono suscitare. Si punta tutto, allora, sulla proposta di inossidabili brani della produzione passata a scapito di queste due modeste pubblicazioni. La novità, insomma, è che non ci sono novità. Vengono propagandati solo tre pezzi recenti: Outlaw Pete, Working On A Dream e su richiesta Surprise Surprise (Magic, addirittura, non è affatto rappresentato). Bruce è costretto a sbugiardare se stesso mortificando l’avventata scelta di dare alle stampe due album praticamente brutti che non apportano linfa allo show.
I momenti migliori di questo primo concerto italiano sono quelli che recuperano i cavalli di battaglia. Mezzo prezzo del biglietto viene consumato dalla durissima Badlands (che infonde energia a tutti i fans più accaniti, in coda da giorni) ,perfetto esempio di battesimo del fuoco, una No Surrender che ripropone sui megaschermi immagini amarcord della leggendaria E Street Band (con l’organista Federici ancora in vita), una Seeds da brivido, sporca e ringhiata proprio come ai bei tempi, e una felicissima You Can't Sit Down (“from Ciccio to Ciccio, my old friend!”).
Altri componimenti storici quali Johnny 99 e Atlantic City risuonano a cavallo della mezzanotte. Mostrano chiaramente la capacità di una band in grado di dialogare col blues così come di esprimere al meglio quel country rock tanto caro allo Springsteen memore della lezione dei Creedence.
Raise Your Hand, un R&B del passato, lascia il mattatore libero di scorrazzare su e giù per il palco e fa il paio con Hungry Heart la cui apertura, come di consueto, viene affidata alle ugole di un divertito pubblico. Affettuoso, invece, si rivela il gesto di provare a far cantare il refrain di Waitin’ On A Sunny Day, ad un bimbo che proprio non ci riesce. Bello il ripescaggio di Pink Cadillac, testo allusivo e struttura honky tonk per un brano ripreso anche dal “Killer” Jerry Lee Lewis.
Ormai parte integrante dello show, il momento del jukebox ha un ruolo centrale. Tra la selva di cartelli che vengono letteralmente lanciati su Springsteen da ogni angolo del pit (lo spazio sotto il palco riservato ai primi mille arrivati) vengono estratte I’m On Fire, regalata ad una incredula ragazza prossima al matrimonio, e una Surprise Surprise che da un lato rende glorioso il compleanno di una conterranea del Boss presente tra il pubblico, dall’altro getta nello sconforto i “seguaci” di vecchia data (non a torto!). Prove It All Night, qui un po’ scolastica, è sempre meravigliosa e regala al pubblico un assolo di Nils Lofgren complesso e vivace.
La band è indiscutibilmente in palla e Max Weinberg brilla di luce propria dietro la batteria, mentre un rinato Steve Van Zandt sembra vestire, come un tempo, i panni della vera spalla di Bruce a causa della prolungata assenza di Patti Scialfa (moglie e più o meno musicista/corista della band).
Sul finire del main set risuona American Skin, inaspettata e dolorosa come un pugno improvviso allo stomaco molle e indifeso. Viene eseguita per la seconda volta in questo tour. Springsteen ha passato i guai per averla fatta esordire nel glorioso tour del ricongiungimento artistico con la E Street Band.
Altri componimenti storici quali Johnny 99 e Atlantic City risuonano a cavallo della mezzanotte. Mostrano chiaramente la capacità di una band in grado di dialogare col blues così come di esprimere al meglio quel country rock tanto caro allo Springsteen memore della lezione dei Creedence.
Raise Your Hand, un R&B del passato, lascia il mattatore libero di scorrazzare su e giù per il palco e fa il paio con Hungry Heart la cui apertura, come di consueto, viene affidata alle ugole di un divertito pubblico. Affettuoso, invece, si rivela il gesto di provare a far cantare il refrain di Waitin’ On A Sunny Day, ad un bimbo che proprio non ci riesce. Bello il ripescaggio di Pink Cadillac, testo allusivo e struttura honky tonk per un brano ripreso anche dal “Killer” Jerry Lee Lewis.
Ormai parte integrante dello show, il momento del jukebox ha un ruolo centrale. Tra la selva di cartelli che vengono letteralmente lanciati su Springsteen da ogni angolo del pit (lo spazio sotto il palco riservato ai primi mille arrivati) vengono estratte I’m On Fire, regalata ad una incredula ragazza prossima al matrimonio, e una Surprise Surprise che da un lato rende glorioso il compleanno di una conterranea del Boss presente tra il pubblico, dall’altro getta nello sconforto i “seguaci” di vecchia data (non a torto!). Prove It All Night, qui un po’ scolastica, è sempre meravigliosa e regala al pubblico un assolo di Nils Lofgren complesso e vivace.
La band è indiscutibilmente in palla e Max Weinberg brilla di luce propria dietro la batteria, mentre un rinato Steve Van Zandt sembra vestire, come un tempo, i panni della vera spalla di Bruce a causa della prolungata assenza di Patti Scialfa (moglie e più o meno musicista/corista della band).
Sul finire del main set risuona American Skin, inaspettata e dolorosa come un pugno improvviso allo stomaco molle e indifeso. Viene eseguita per la seconda volta in questo tour. Springsteen ha passato i guai per averla fatta esordire nel glorioso tour del ricongiungimento artistico con la E Street Band.
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2 commenti:
Ottima recensione di un concerto che tanti fan non hanno apprezzato: io mi sono divertito moltissimo, come non mi accadeva da un po' ad un concerto di Bruce.
Bravo Francesco!
PS: non ti ho perdonato per non esserti fatto vedere al concerto.
Ciao Colonnello!
Anch'io mi sono divertito: un concerto di Bruce non è mai un concerto qualsiasi.
Grazie per il commento.
P.S. al tuo P.S.: Mi spiace ma ti ho già spiegato. :-(
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