Esce in questi giorni la nuova edizione di Nevermind. Quattro CD (70 brani per metà inediti), un DVD (live at Paramount) e un corposo booklet (90 pagine) per celebrare i vent’anni di una pietra miliare del rock. Il più noto album dei Nirvana, originariamente pubblicato nel 1991, è stato fulmine inceneritore di una gerarchia musicale consolidata. Ha inciso una nuova norma, chiara e inviolabile, sulla tavola dei comandamenti rock: distruggi la tavola dei comandamenti.
E’ rivoluzione! Testi, musiche e persino look di Kurt Cobain, Krist Novoselic e Dave Grohl mettono in fila adepti, conquistano media, catturano pubblico e critica. Nevermind catalizza il simultaneo interesse di giovani lontani da eminenti centri urbani zeppi di vita e da ragazzi discriminati dall’american way of life opulento e ingannevole. Per questi emarginati, solitudine, senso di smarrimento e di estraneità vengono esorcizzati e, almeno in parte, annientati da musica implacabile. I concerti mutano da spettacoli a riti collettivi che individuano nel pogo il modo per scrollarsi di dosso frustrazioni e per affrancarsi dalla rabbia.
Kurt Cobain blinda un intimo pensiero e lo porta alla ribalta: quel nebuloso e persistente desiderio di qualcosa che non esiste e, forse, non può esistere. Nevermind ha quel retrogusto amaro ma rassicurante che deriva dalla quiete di pensieri ristagnanti nella tristezza. Finalmente chi è solo, trova il consenso di altre solitudini. Qualcuno là fuori si contorce e sbraita riflessioni negative con coraggio e autorità. Per dirla alla maniera di Kurt Danielson dei Tad (altro gruppo della scena di Seattle), “il perdente è l’eroe esistenziale degli anni ‘90”.
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