Il mondo del lavoro permea una grande parte del songbook di Bruce Springsteen. L’occupazione (o la sua mancanza) determina una serie di conseguenze che influenzano fortemente la condizione umana dei personaggi al centro della sua opera.
E’ questo l’humus che alimenta le redici di Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni. Il libro di Alessandro Portelli, pubblicato da Donzelli Editore, rende vivido l’aspetto proletario delle canzoni di Springsteen, lo inquadra in un contesto letterario, storico e lo interconnette all’attualità e alla discografia di altri cantori del lavoro.
Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni di Alessandro Portelli – docente di Letteratura angloamericana all’Università “La Sapienza” di Roma – indaga la produzione narrativa che il cantautore del New Jersey incentra sul lavoro, tòpos dell’esperienza artistica di Springsteen: il lavoro che avvia il processo di crescita personale, il lavoro quale propulsore del riscatto sociale.
Come indica il titolo del libro, è Badlands, brano foriero dell’urgenza di affrancare la propria vita dal disprezzo, il leitmotiv che cuce i capitoli uno per uno. Le sue liriche rivelano un protagonista furioso e disilluso, eppure razionale e incline tanto all’autodeterminazione quanto alla denuncia sociale. Sono dinamiche che animano tutto Darkness On The Edge Of A Town, l’album dischiuso proprio dalle note di Badlands.
Il libro di Alessandro Portelli ha il grande valore di rigenerare il significato di brani “inariditi” dall’ascolto, di parole che, a furia di essere mandate a memoria, hanno ormai raggiunto la sazietà semantica. Portelli esprime un punto di vista soggettivo sull’opera di Springsteen ma scandito dall’oggettività del letterato – nonostante il palese coinvolgimento emotivo e una personale aneddotica. Springsteen e l’America: ovvero come Springsteen interpreta la “terra delle possibilità” riflettendo sulla tanto enfatizzata mobilità del lavoro che dovrebbe promuovere il riscatto sociale ma che, più spesso, degrada in ricatto sociale. L’indagine di Portelli ripercorre quel coacervo di umiliazioni che caratterizzano le dinamiche comportamentali dei protagonisti delle canzoni di Springsteen. Fatiche, benefici, privazioni, successi, iniquità che risollevano o demoliscono la vita di un nugolo di personaggi.
“Un lavoro che non ti ispira è come una condanna” scrive Portelli, sostenendo un epifonema pronunciato da Springsteen “in uno dei suoi rari interventi politici in pubblico”. Il musicista auspica un’America in cui tutti possano ottenere “un lavoro che ti soddisfa, che dà senso e motivazione alla vita”, ma l’utopia di un’ascensione occupazionale è quasi sempre frustrata nelle sue canzoni. Forse solo in Darkness on the Edge of Town, la title track del disco pubblicato nel ’78, Portelli ravvisa gli estremi per delineare “l’unica storia di mobilità verso l’alto in tutto il canone di Springsteen” (Now I hear she's got a house up in Fairview, and a style she's trying to maintain […] Some folks are born into a good life, other folks get it anyway anyhow. I lost my money and I lost my wife) ma con l’inevitabile risvolto negativo, un contrappeso quasi sempre presente “quando si parla di gente coi soldi” invischiata in vicende dai risvolti opachi.
Anche Born In The U.S.A., il brano più popolare di Springsteen, “condensa tre temi di fondo: l’orgoglio patriottico, l’esperienza della guerra, la condizione operaia”. L’orgoglio patriottico, abbinato all’ostentazione di un’estetica da scaricatore di porto postmoderno, è quello che ha alimentato un persistente bias cognitivo mistificatorio: Springsteen nazionalista tout court. Eppure, scrive Portelli, è ben chiara la posizione del reduce dal Vietnam (l’io narrante born in the U.S.A.) “offeso in quanto americano, perché l’America ha fatto ai suoi cittadini una promessa e non l’ha mantenuta, ha fatto balenare un sogno che continua a rinviare”.
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lunedì 16 novembre 2015
mercoledì 4 novembre 2015
Medimex 2015
Si è svolta a Bari, dal 29 al 31 ottobre, la quinta edizione del Medimex.
Il salone dell’innovazione musicale ha incrementato il suo seguito e ha portato in Puglia artisti desiderosi di farsi strada e musicisti già nel “giro che conta”. Fiore all’occhiello della manifestazione l’installazione «Light Paintings» (aperta fino al 14 novembre presso il Teatro Margherita) di Brian Eno.
Per ospitare il Medimex la Fiera del Levante si è trasformata per la quinta volta in una cittadella della musica, crocevia di artisti indie e mainstream, capace di attirare un numero vastissimo di spettatori, operatori del settore e artisti. Il bilancio finale computa 50.000 presenze e conferma l’utilità dell’investimento sulla cultura musicale.
Gli invitati a condividersi la scena erano tanti: l’impresa vera era seguirli tutti. In cima alla lista delle priorità c’era il panel con Brian Eno, artefice di una trattazione tanto sincera (“ho promesso a me stesso che non avrei mai avuto un lavoro") quanto autoironica (“dirò cose che non importano ad alcuno”) che ha solo lambito i trascorsi di musicista e produttore per dettagliare il suo percorso di visual artist e cercare di spiegare genesi e finalità di Light Paintings, una serie di opere da lui concepite e “dipinte con la luce”.
Appuntamenti interessanti anche quelli con Lo Stato Sociale, gruppo di ragazzi che hanno le idee ben chiare e che vantano una coerenza che sembra fuoriuscire d’altri tempi; con i Deproducers che hanno presentato la loro idea di “musica per conferenze spaziali”; con il sempre lucido Erri De Luca che annovera un recente sodalizio artistico con Nicky Nicolai e Stefano Di Battista.
Tra i più celebrati Ludovico Einaudi – impressionante il seguito del compositore tra i giovanissimi – Carmen Consoli che racconta come “è tutto in costruzione” dopo aver data alla luce un figlio e David Lang – premio Pulizer per la musica e compositore USA dell’anno nel 2013 – autore della colonna sonora del film Youth (Paolo Sorrentino).
Seguitissimo anche l’incontro d’autore con Vinicio Capossela, autore del libro Il paese dei copoloni da cui è stato tratto l’omonimo lungometraggio presentato in anteprima in versione non definitiva.
Nutrita anche la sezione live, con una predominanza femminile. Hindi Zara ha ottenuto consensi per una performance molto intensa, Natalie Imbruglia ha fatto leva sulla nostalgia dei fans e Carmen Consoli ha raccolto il maggior numero di spettatori.
Gli organizzatori del Medimex confermano una formula ormai rodata, e decisamente vincente, scevra di novità formali. Fiduciosi, aspettiamo di sapere se ci sarà un seguito nel 2016.
Per ospitare il Medimex la Fiera del Levante si è trasformata per la quinta volta in una cittadella della musica, crocevia di artisti indie e mainstream, capace di attirare un numero vastissimo di spettatori, operatori del settore e artisti. Il bilancio finale computa 50.000 presenze e conferma l’utilità dell’investimento sulla cultura musicale.
Gli invitati a condividersi la scena erano tanti: l’impresa vera era seguirli tutti. In cima alla lista delle priorità c’era il panel con Brian Eno, artefice di una trattazione tanto sincera (“ho promesso a me stesso che non avrei mai avuto un lavoro") quanto autoironica (“dirò cose che non importano ad alcuno”) che ha solo lambito i trascorsi di musicista e produttore per dettagliare il suo percorso di visual artist e cercare di spiegare genesi e finalità di Light Paintings, una serie di opere da lui concepite e “dipinte con la luce”.
Appuntamenti interessanti anche quelli con Lo Stato Sociale, gruppo di ragazzi che hanno le idee ben chiare e che vantano una coerenza che sembra fuoriuscire d’altri tempi; con i Deproducers che hanno presentato la loro idea di “musica per conferenze spaziali”; con il sempre lucido Erri De Luca che annovera un recente sodalizio artistico con Nicky Nicolai e Stefano Di Battista.
Tra i più celebrati Ludovico Einaudi – impressionante il seguito del compositore tra i giovanissimi – Carmen Consoli che racconta come “è tutto in costruzione” dopo aver data alla luce un figlio e David Lang – premio Pulizer per la musica e compositore USA dell’anno nel 2013 – autore della colonna sonora del film Youth (Paolo Sorrentino).
Seguitissimo anche l’incontro d’autore con Vinicio Capossela, autore del libro Il paese dei copoloni da cui è stato tratto l’omonimo lungometraggio presentato in anteprima in versione non definitiva.
Nutrita anche la sezione live, con una predominanza femminile. Hindi Zara ha ottenuto consensi per una performance molto intensa, Natalie Imbruglia ha fatto leva sulla nostalgia dei fans e Carmen Consoli ha raccolto il maggior numero di spettatori.
Gli organizzatori del Medimex confermano una formula ormai rodata, e decisamente vincente, scevra di novità formali. Fiduciosi, aspettiamo di sapere se ci sarà un seguito nel 2016.
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domenica 18 ottobre 2015
Joss Stone - Water For Your Soul
Svincolata dai legacci delle major, Joss Stone continua la propria ricerca musicale in piena autarchia. Water For Your Soul fotografa un ulteriore stadio di maturazione professionale che travalica generi e tendenze. Su tutto è la solita duttile voce a persuadere.
Una gestione travagliata, debitoria di viaggi ed esperienze, ma libera di spaziare senza argini. Da un percorso che scioglie nodi, personali e professionali, nasce l'intuizione per il disco. In autonomia da schemi e restrizioni di genere, Joss Stone ha pubblicato Water For Your Soul, album riconducibile al reggae eppure inclusivo di una ricchezza espressiva che travalica le catalogazioni. La Stone convalida il proprio talento con una voce versatile, densa di soul, ma capace di farsi protagonista o di rimettersi al servizio della struttura dei brani. Tra questi, una buona quota degli accenti musicali è in levare e avanza a ritmo di reggae, ma la grana blues sottende ed emerge, a tratti, abbacinante.
Damien Marley, figlio d’arte, collabora al progetto, come pure Dennis Bovell: la loro influenza è tangibile e invita, idealmente, la cerea inglese a lasciare i freddi lidi della terra natia per rigenerare spirito e canto su spiagge battute da sole e ritmi caraibici. Ma anche di world music è intriso Water For Your Soul che la Stone reputa una ricerca sulla presa di coscienza, del risveglio della consapevolezza pur nella realizzazione individuale. Una sorta di new age moderata, riveduta e corretta, che punta sull'elemento naturale di purezza per antonomasia: l'acqua – simulacro che supplisce la musica o qualsiasi altra cosa – capace di dissetare il proprio ego. E’ questo il concetto portante su cui sono strutturati i quattordici brani inclusi nel disco, introdotti dal coinvolgente Love Me scritto con Damien Marley all’epoca della comune militanza nei SuperHeavy.
Pubblicato per l’etichetta da lei fondata, la Stone'd Records, il mood eterogeneo del sound è sicuramente influenzato dalla composizione delle tracce in epoche diverse e qui riunite per dare sostanza all’idea di libertà, purezza e sazietà che l’arte può donare. L’intento dichiarato sembra raggiunto: l’album riluce in un mix di gratificazione personale, di gioiosa condivisione con fans di vecchia data e sostenitori novizi.
Water For Your Soul si lascia ascoltare – nonostante tanta opulenza includa momenti non essenziali – e rientra tra le produzioni più riuscite dell’anno (oltre alla Stone ci hanno messo mano Steve Greenwell e Jonathan Shorten).
Stuck on You e The Answer, ottimi singoli scelti per promuovere l’uscita discografica, si muovono tra territori che offrono impeccabili occasioni per lasciar librare un cantato dai risvolti solari e dai guizzi raffinati.
Water For Your Soul sembra nato per appagare l’io di una Joss Stone in continua evoluzione.
Una gestione travagliata, debitoria di viaggi ed esperienze, ma libera di spaziare senza argini. Da un percorso che scioglie nodi, personali e professionali, nasce l'intuizione per il disco. In autonomia da schemi e restrizioni di genere, Joss Stone ha pubblicato Water For Your Soul, album riconducibile al reggae eppure inclusivo di una ricchezza espressiva che travalica le catalogazioni. La Stone convalida il proprio talento con una voce versatile, densa di soul, ma capace di farsi protagonista o di rimettersi al servizio della struttura dei brani. Tra questi, una buona quota degli accenti musicali è in levare e avanza a ritmo di reggae, ma la grana blues sottende ed emerge, a tratti, abbacinante.
Damien Marley, figlio d’arte, collabora al progetto, come pure Dennis Bovell: la loro influenza è tangibile e invita, idealmente, la cerea inglese a lasciare i freddi lidi della terra natia per rigenerare spirito e canto su spiagge battute da sole e ritmi caraibici. Ma anche di world music è intriso Water For Your Soul che la Stone reputa una ricerca sulla presa di coscienza, del risveglio della consapevolezza pur nella realizzazione individuale. Una sorta di new age moderata, riveduta e corretta, che punta sull'elemento naturale di purezza per antonomasia: l'acqua – simulacro che supplisce la musica o qualsiasi altra cosa – capace di dissetare il proprio ego. E’ questo il concetto portante su cui sono strutturati i quattordici brani inclusi nel disco, introdotti dal coinvolgente Love Me scritto con Damien Marley all’epoca della comune militanza nei SuperHeavy.
Pubblicato per l’etichetta da lei fondata, la Stone'd Records, il mood eterogeneo del sound è sicuramente influenzato dalla composizione delle tracce in epoche diverse e qui riunite per dare sostanza all’idea di libertà, purezza e sazietà che l’arte può donare. L’intento dichiarato sembra raggiunto: l’album riluce in un mix di gratificazione personale, di gioiosa condivisione con fans di vecchia data e sostenitori novizi.
Water For Your Soul si lascia ascoltare – nonostante tanta opulenza includa momenti non essenziali – e rientra tra le produzioni più riuscite dell’anno (oltre alla Stone ci hanno messo mano Steve Greenwell e Jonathan Shorten).
Stuck on You e The Answer, ottimi singoli scelti per promuovere l’uscita discografica, si muovono tra territori che offrono impeccabili occasioni per lasciar librare un cantato dai risvolti solari e dai guizzi raffinati.
Water For Your Soul sembra nato per appagare l’io di una Joss Stone in continua evoluzione.
martedì 13 ottobre 2015
Warren Haynes - Ashes & Dust
Warren Haynes mette a nudo il suo lato meditativo e tralascia la sei corde elettrica. È la chitarra acustica la principale risorsa di un disco che desta meraviglia per immediatezza, nonostante la profondità di un sound composito e a tratti maestoso.
Ci voleva una lacerazione nella routine per lasciare sanguinare il flusso emozionale più denso e profondo di Warren Haynes. Una pausa dai Gov’t Mule ha ricreato le condizioni per ispirare brani autografi nuovi e manifestarne altri sopiti nell’oscurità da decenni.
Il chitarrista americano ha lasciato emergere un aspetto di sé per gran parte inedito, svelato grazie ad Ashes & Dust, un tripudio di country, bluegrass e soul: musica che affonda le radici nel solco dell’Americana, insomma.
Continua su SENTIREASCOLTARE.
Ci voleva una lacerazione nella routine per lasciare sanguinare il flusso emozionale più denso e profondo di Warren Haynes. Una pausa dai Gov’t Mule ha ricreato le condizioni per ispirare brani autografi nuovi e manifestarne altri sopiti nell’oscurità da decenni.
Il chitarrista americano ha lasciato emergere un aspetto di sé per gran parte inedito, svelato grazie ad Ashes & Dust, un tripudio di country, bluegrass e soul: musica che affonda le radici nel solco dell’Americana, insomma.
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lunedì 12 ottobre 2015
Joe Bonamassa - Live at Radio City Music Hall
È disponibile dal 2 ottobre il Live at Radio City Music Hall di Joe Bonamassa.
Su uno degli stage più importanti e suggestivi d’America, il guitar man si produce in un concerto dai due volti: acustico e intimo nella prima parte, elettrico e a tratti esaltante nella seconda.
Apprezzato nell’ambiente blues, il trentottenne Joe Bonamassa ha sempre avuto un seguito di nicchia molto affezionato. Nell’arco di tre lustri ha inciso, senza contare i side-project, una dozzina di dischi autografi.
Enfant prodige, Bonamassa ha bruciato le tappe di una carriera che l’ha portato ad iscrivere il proprio nome nel gotha dei chitarristi blues più stimati.
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Su uno degli stage più importanti e suggestivi d’America, il guitar man si produce in un concerto dai due volti: acustico e intimo nella prima parte, elettrico e a tratti esaltante nella seconda.
Apprezzato nell’ambiente blues, il trentottenne Joe Bonamassa ha sempre avuto un seguito di nicchia molto affezionato. Nell’arco di tre lustri ha inciso, senza contare i side-project, una dozzina di dischi autografi.
Enfant prodige, Bonamassa ha bruciato le tappe di una carriera che l’ha portato ad iscrivere il proprio nome nel gotha dei chitarristi blues più stimati.
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mercoledì 7 ottobre 2015
A proposito di un sogno - Cristopher Philips e Louis P. Masur
A proposito di un sogno – Le più belle interviste a Bruce Springsteen raccoglie opinioni, esperienze e conversazioni "senza rete" che il cantautore statunitense ha concesso ai media nell’arco di quarant’anni. E’ disponibile da giugno per Mondadori Editore.
Non un libro biografico, non un libro agiografico, tantomeno un libro fermacarte. A proposito di un sogno è stato scritto a quattro mani da Cristopher Philips e Louis P. Masur ed è stato edito in italiano da Mondadori (con la traduzione di Dario Ferrari). Gli autori non sono improvvisatori in cerca di notorietà, in passato hanno già avuto modo di argomentare sulla carriera di Bruce Springsteen. Phillips è l’editore del seguitissimo website backstreets.com e di Backstreets, “la” fanzine cartacea che sin dal 1980 sopperisce alla mancanza di un fans club ufficiale del musicista del New Jersey. Masur, docente di Studi americani alla Rutgers University, è l'artefice di Runway Dream (2010) in cui si narra l’intricato processo evolutivo che ha portato all’incisione di Born To Run.
Due autorevoli redattori non di certo a corto di informazioni sul tema, insomma, e che, pur avendone titolo, non hanno la pretesa di vestire i panni dei cattedratici o aggiungere nulla di nuovo a quanto fin qui elargito da altri autori su Springsteen (una rapida scorsa all’elenco sulle pubblicazioni, anche solo in lingua italiana, sbalordisce per sovrabbondanza). Il rischio di ripetersi, e di tediare anche il più devoto discepolo del cantautore, è evidente, per questo il libro propone un racconto mediato dallo stesso Springsteen attraverso interviste rilasciate nell’arco temporale dell’intera carriera (High Hopes escluso).
Springsteen, almeno agli inizi del suo percorso artistico, ha sempre dimostrato una certa diffidenza nei confronti dei media, per questo ha concesso poche interviste. Leggerle porta ad individuare da dove è scoccata la scintilla che ha reso possibile il divampare di una passione travolgente che ha trasformato un esordio dagli esiti incerti in una rara missione in nome del rock’n’roll. Altre, come quelle rilasciate professionalmente a giornalisti europei, sono andate perdute e recuperate solo di recente. Ritrovare le parole di un venticinquenne provinciale e dai modi ruvidi – che però si presta a reclamizzare un vino –, intervistato dal dj Ed Sciaky per la stazione radio WMMR nel ’74, porta a ricordare chi era e da dove veniva il ragazzo che ha poi conquistato sostenitori in ogni angolo del Pianeta.
E’ facile individuare, rispettando la lettura cronologica prevista dalla pubblicazione, i cambiamenti avvenuti nell’uomo e nell’artista, così come appare semplice notare la maturità nell’approccio con gli intervistatori e il modo di relazionarsi, in generale, con i mezzi di comunicazione. Il primordiale intento di non lasciare strumentalizzare le proprie dichiarazioni, con il tempo muta in una situazione da cui trarre vantaggio. Ma a Springsteen, va comunque concesso il merito di non essersi mai arreso totalmente ai dettami dei mass media.
Nelle oltre cinquecento pagine si possono apprezzare riflessioni, aneddoti di prima mano, ricordi e quant’altro Springsteen abbia lasciato in giro per microfoni, a parte quelli del palco e delle sale di registrazione. Tra le tante, riluce di semplicità ed efficacia l'asserzione che Springsteen offre a Will Percy: “parte di quello che chiamiamo « intrattenimento» dovrebbe essere «cibo per la mente»” (DoubleTake Magazine, 1998). Non sarà la sintesi perfetta che inquadra il rocker americano, ma illustra il credo che ha permesso all'introverso ragazzo di periferia di scalare la vetta. E di rimanerci per oltre quarant’anni.
A proposito di un sogno è un libro utile per i fans, ma significativo soprattutto per chi vuole avvicinarsi allo “Springsteen pensiero”, alle sue liriche che assimilano romanticismo e crudezza, all’uomo e all’artista.
Leggi il primo capitolo.
Non un libro biografico, non un libro agiografico, tantomeno un libro fermacarte. A proposito di un sogno è stato scritto a quattro mani da Cristopher Philips e Louis P. Masur ed è stato edito in italiano da Mondadori (con la traduzione di Dario Ferrari). Gli autori non sono improvvisatori in cerca di notorietà, in passato hanno già avuto modo di argomentare sulla carriera di Bruce Springsteen. Phillips è l’editore del seguitissimo website backstreets.com e di Backstreets, “la” fanzine cartacea che sin dal 1980 sopperisce alla mancanza di un fans club ufficiale del musicista del New Jersey. Masur, docente di Studi americani alla Rutgers University, è l'artefice di Runway Dream (2010) in cui si narra l’intricato processo evolutivo che ha portato all’incisione di Born To Run.
Due autorevoli redattori non di certo a corto di informazioni sul tema, insomma, e che, pur avendone titolo, non hanno la pretesa di vestire i panni dei cattedratici o aggiungere nulla di nuovo a quanto fin qui elargito da altri autori su Springsteen (una rapida scorsa all’elenco sulle pubblicazioni, anche solo in lingua italiana, sbalordisce per sovrabbondanza). Il rischio di ripetersi, e di tediare anche il più devoto discepolo del cantautore, è evidente, per questo il libro propone un racconto mediato dallo stesso Springsteen attraverso interviste rilasciate nell’arco temporale dell’intera carriera (High Hopes escluso).
Springsteen, almeno agli inizi del suo percorso artistico, ha sempre dimostrato una certa diffidenza nei confronti dei media, per questo ha concesso poche interviste. Leggerle porta ad individuare da dove è scoccata la scintilla che ha reso possibile il divampare di una passione travolgente che ha trasformato un esordio dagli esiti incerti in una rara missione in nome del rock’n’roll. Altre, come quelle rilasciate professionalmente a giornalisti europei, sono andate perdute e recuperate solo di recente. Ritrovare le parole di un venticinquenne provinciale e dai modi ruvidi – che però si presta a reclamizzare un vino –, intervistato dal dj Ed Sciaky per la stazione radio WMMR nel ’74, porta a ricordare chi era e da dove veniva il ragazzo che ha poi conquistato sostenitori in ogni angolo del Pianeta.
E’ facile individuare, rispettando la lettura cronologica prevista dalla pubblicazione, i cambiamenti avvenuti nell’uomo e nell’artista, così come appare semplice notare la maturità nell’approccio con gli intervistatori e il modo di relazionarsi, in generale, con i mezzi di comunicazione. Il primordiale intento di non lasciare strumentalizzare le proprie dichiarazioni, con il tempo muta in una situazione da cui trarre vantaggio. Ma a Springsteen, va comunque concesso il merito di non essersi mai arreso totalmente ai dettami dei mass media.
Nelle oltre cinquecento pagine si possono apprezzare riflessioni, aneddoti di prima mano, ricordi e quant’altro Springsteen abbia lasciato in giro per microfoni, a parte quelli del palco e delle sale di registrazione. Tra le tante, riluce di semplicità ed efficacia l'asserzione che Springsteen offre a Will Percy: “parte di quello che chiamiamo « intrattenimento» dovrebbe essere «cibo per la mente»” (DoubleTake Magazine, 1998). Non sarà la sintesi perfetta che inquadra il rocker americano, ma illustra il credo che ha permesso all'introverso ragazzo di periferia di scalare la vetta. E di rimanerci per oltre quarant’anni.
A proposito di un sogno è un libro utile per i fans, ma significativo soprattutto per chi vuole avvicinarsi allo “Springsteen pensiero”, alle sue liriche che assimilano romanticismo e crudezza, all’uomo e all’artista.
Leggi il primo capitolo.
venerdì 2 ottobre 2015
Galactic - Into The Deep
Undicesimo lavoro in carriera per i Galactic.
Into The Deep rigenera il funk che ha reso celebre il suono degli statunitensi in oltre due decenni di attività. Tanti i nomi di spessore che celebrano il ritorno del combo.
I Galactic sono fondamentalmente una jam band. Esportano funk, jazz e soul da New Orleans e dopo 25 anni di carriera il loro appeal nell'ambiente musicale non è mai scemato, almeno a giudicare dalle guest appearances vantate in quest'ultimo progetto. In particolar modo due sono le collaborazioni che meritano menzione.
Into The Deep, la title track, è uno dei momenti migliori del disco. Il brano reca il timbro identitario di una Macy Gray ispirata da un groove lento ma inesorabile. La cantante dell'Ohio condivide lo spettro sonoro con pianoforte e chitarra prima di soverchiare questi e gli altri strumenti nel refrain.
Una grandissima (anche se misurata) Mavis Staples arricchisce di fascino il soul di Does It Really Make A Difference tra una sezione fiati, un organo e una chitarra che risplendono dell'aura magica dei sixties.
Il disco porta in dote un'eccentrica gioia che si perpetua lungo tutti i brani a cominciare dal festaiolo incipit di Sugar Doosie, con fiati in primo piano e il basso leggermente indietro: qualcosa che somiglia ad una marching band della Louisiana in forma ridotta.
Il mix di generi proposto prolifera ulteriormente con il mood "shaftiano" di Higher and Higher, un soul dall'esecuzione viscerale, che può contare sul generoso apporto vocale di JJ Grey.
Coinvolgenti gli strumentali Long Live The Borgne e Today's Blues, ma più che i singoli episodi a rendere valida la proposta di Into The Deep e l'insieme di ritmi avvolgenti che rende tangibile questa ulteriore evoluzione dei Galactic nel nome del funk, un genere così maturo ma tutt'altro che invariabile.
Into The Deep rigenera il funk che ha reso celebre il suono degli statunitensi in oltre due decenni di attività. Tanti i nomi di spessore che celebrano il ritorno del combo.
I Galactic sono fondamentalmente una jam band. Esportano funk, jazz e soul da New Orleans e dopo 25 anni di carriera il loro appeal nell'ambiente musicale non è mai scemato, almeno a giudicare dalle guest appearances vantate in quest'ultimo progetto. In particolar modo due sono le collaborazioni che meritano menzione.
Into The Deep, la title track, è uno dei momenti migliori del disco. Il brano reca il timbro identitario di una Macy Gray ispirata da un groove lento ma inesorabile. La cantante dell'Ohio condivide lo spettro sonoro con pianoforte e chitarra prima di soverchiare questi e gli altri strumenti nel refrain.
Una grandissima (anche se misurata) Mavis Staples arricchisce di fascino il soul di Does It Really Make A Difference tra una sezione fiati, un organo e una chitarra che risplendono dell'aura magica dei sixties.
Il disco porta in dote un'eccentrica gioia che si perpetua lungo tutti i brani a cominciare dal festaiolo incipit di Sugar Doosie, con fiati in primo piano e il basso leggermente indietro: qualcosa che somiglia ad una marching band della Louisiana in forma ridotta.
Il mix di generi proposto prolifera ulteriormente con il mood "shaftiano" di Higher and Higher, un soul dall'esecuzione viscerale, che può contare sul generoso apporto vocale di JJ Grey.
Coinvolgenti gli strumentali Long Live The Borgne e Today's Blues, ma più che i singoli episodi a rendere valida la proposta di Into The Deep e l'insieme di ritmi avvolgenti che rende tangibile questa ulteriore evoluzione dei Galactic nel nome del funk, un genere così maturo ma tutt'altro che invariabile.
giovedì 17 settembre 2015
Gary Clark Jr. - The Story of Sonny Boy Slim
Musicista autodidatta, virtuoso della chitarra, cantautore, afroamericano del Texas.
Sono le tessere del mosaico che raffigura Gary Clark Jr.
Osannato dal gotha del circuito mainstream, il musicista cerca di allargare la propria audience con The Story of Sonny Boy Slim, album blues che favorisce continui cambi di genere in un tripudio di ottima black music.
“Mia madre mi chiamava Sonny Boy di tanto in tanto, e anche i miei artisti preferiti – Sonny Boy Williamson, e tutti quei ragazzi del blues – si chiamavano così”. E ancora “Greg Izor (un grande armonicista) mi chiamava sempre Slim”. Nasce da un arzigogolo di moniker il titolo del nuovo album di Gary Clark Jr.
The Story of Sonny Boy Slim: solo a pronunciarlo sembra evocativo e spontaneo. Si presenta come una risacca del passato che, in parte, ne restituisce la mitologia. Il suo autore è l’ultimo profeta di una lunga stirpe intento a (ri)leggere i comandamenti del blues senza badare troppo a mutamenti radicali. E’ fisiologico che prenda a prestito, che alluda, che provi a muoversi – quasi ad ogni passo – nelle orme impresse da strabilianti antesignani. Un’aspirazione, quella di misurarsi con i grandi, che per certi versi denota stima, per altri sottopone il progetto di Clark allo “stress test” delle analogie.
The Story of Sonny Boy Slim assume i contorni del lavoro biografico nell’intestazione e nel messaggio. Dopo una generica auto-presentazione affidata a Blak and Blu, debutto del 2012 per Warner Bros. Records, ora Gary Clark Jr. focalizza i dettagli e avoca per sé la piena autonomia, concettuale e pragmatica, nelle fasi cruciali del lavoro. Dall’ideazione alla scrittura, dall’arrangiamento alla produzione, è lui che progetta, suona, taglia, scarta e ricuce. Blak and Blu aveva provocato alcuni giudizi contrastanti tra i critici. Il disco si insediava autorevolmente nel solco della tradizione blues con significativi apporti soul e rhythm and blues. Ma a pesare sui commenti di certi puristi erano quei rimandi black à la page capaci di far travisare l’intera registrazione e di bollare Clark mero prigioniero nella morsa di un sound ruffiano. Un vero e proprio paradosso per un giovane bluesman che cercava di attualizzare il repertorio del genere raccogliendo giudizi esasperati: o lodi sperticate (per qualità di proposta, abilità tecnica e freschezza di stile) o biasimo (per eterogeneità, artificiosità, sovrapproduzione, pubblicazione tramite una major). Una situazione che non sembra aver pesato sul percorso dell’allora ventottenne, impegnato ad assecondare la propria attitudine dal vivo e in studio di registrazione.
Nell’alveo familiare delle strade di Austin, la sua città, Clark ha compendiato idee abbozzate in tour e le ha sigillate in The Story Of Sonny Boy Slim. L’album sfodera un’atmosfera intensa sin dalle prime battute. Partitura e liriche, pur nella loro relativa essenzialità, competono per la supremazia in un duello che si rivela molto personale. “Il tema di fondo di questo album sono la fede e la speranza nella realtà” conferma Clark “alla fine della giornata è ciò di cui abbiamo bisogno”. L’apertura affidata a The Healing conferma l’assunto. “I’m a hard fighting soldier and I’m on the battlefield” canta la voce fuori campo “I’ll keep bringing souls to Jesus by the service that I pray”. Il pezzo è introdotto dai versi di Hard Fightin’ Soldier, un traditional battista, un gospel che spiana la strada al manifesto di Clark, all’ammissione dogmatica della musica quale strumento catartico per tutte quelle aberrazioni che cingono d’assedio l’esistenza. Una canzone sospesa, di grande impatto, che assurge a metafora potente e salvifica. La solennità abbacinante del ritornello è quasi un mantra. Efficacemente posto in testa al tracklisting, il brano arretra solo grazie all’impatto di Grinder, testo recalcitrante ma indefinito, tra le cui battute aleggia il fantasma di Hendrix. La sacralità introduttiva è compromessa da feedback incisivi e lick ardenti alla maniera del mancino di Seattle.
Più evidente risulta il sentimento di sconforto in Hold On, redatto sull’onda emozionale della recente paternità. L’amarezza sfocia nella collera, nel disorientamento e nella frustrazione: lo squallore del razzismo, nonostante la presidenza di un afroamericano, deflagra con i fatti di Ferguson e Baltimora e risuscita un aspetto celato nella società statunitense di cui anche Clark è incredulo testimone.
Da Blak and Blu il nuovo The Story Of Sonny Boy Slim eredita uno spettro di varietà stilistiche che inclinano il mood. A spostare in ambito nettamente positivo l’“indice della felicità interna lorda” – sì, esiste per davvero – sono Shake, blues scaltro, veloce, senza tempo e BYOB (l’acronimo si riferisce al diritto di tappo?) intermezzo farsesco dall’alto tasso alcolico. La voce di Clark si rivela vincente, è una risorsa persuasiva al pari delle sue innate doti di chitarrista. In Star il texano sfodera lo stesso falsetto che gli è valso il Grammy Award per Please Come Home (Best Traditional R&B Performance) mentre Our Love e Cold Blooded sembrano celebrare la raffinatezza timbrica di Curtis Mayfield. Church, intrisa di spiritualismo – e per ciò legata a doppio filo con The Healing – è tutta voce, chitarra acustica, armonica e un tocco di percussioni. Esempio di scarna bellezza, lascia coincidere ulteriori brandelli di storia personale con quella artistica, dato l’ausilio delle due sorelle Clark, Shawn e Savannah, ai cori.
Gary Clark Jr. ha mosso i primi passi presso l’Antone’s – del leggendario promoter Clifford Antone – l’ombelico del mondo blues. Da adolescente, in quel locale, ha iniziato a fare proseliti ed ha trovato il prezioso aiuto di Jimmie Vaughan (fratello dell’indimenticato Stevie Ray) fino a scalare le vette del successo ed arrivare ad esibirsi durante il Crossroads Guitar Festival nel 2010. Da quel momento la carriera di Clark è stata un crescendo che lo ha portato a calcare il palco al fianco di numerose star (su tutte, gli Stones per il loro tour 50 & Counting). L’inesorabile esplosione sulla scena musicale non sembra aver disorientato il bluesman che, in proposito, ha schiettamente ammesso: “Realizzo i miei spettacoli e incido i miei dischi. Cerco di non rimanere invischiato nelle campagne pubblicitarie che accompagnano il mio nome. Sono sempre lo stesso: faccio quello che facevo prima”. Oltre alle qualità fin qui mostrate, sono il legame con le radici e l’innato desiderio di incrociarle con il soul, l’hip hop e ulteriori rivoli della musica contemporanea, che forse candidano davvero Gary Clark Jr. a rappresentare, insieme a pochi altri esponenti (l’immarcescibile Prince, il redivivo D’Angelo, e l’ammaliatore Kendrick Lamar), il titolo di campione mondiale della scena black. Il verdetto appartiene al futuro, è certo, ma al presente spetta The Story Of Sonny Boy Slim.
On-line su SENTIREASCOLTARE.
- Fotografie di Frank Maddocks e Jon Shapley.
Osannato dal gotha del circuito mainstream, il musicista cerca di allargare la propria audience con The Story of Sonny Boy Slim, album blues che favorisce continui cambi di genere in un tripudio di ottima black music.
“Mia madre mi chiamava Sonny Boy di tanto in tanto, e anche i miei artisti preferiti – Sonny Boy Williamson, e tutti quei ragazzi del blues – si chiamavano così”. E ancora “Greg Izor (un grande armonicista) mi chiamava sempre Slim”. Nasce da un arzigogolo di moniker il titolo del nuovo album di Gary Clark Jr.
The Story of Sonny Boy Slim: solo a pronunciarlo sembra evocativo e spontaneo. Si presenta come una risacca del passato che, in parte, ne restituisce la mitologia. Il suo autore è l’ultimo profeta di una lunga stirpe intento a (ri)leggere i comandamenti del blues senza badare troppo a mutamenti radicali. E’ fisiologico che prenda a prestito, che alluda, che provi a muoversi – quasi ad ogni passo – nelle orme impresse da strabilianti antesignani. Un’aspirazione, quella di misurarsi con i grandi, che per certi versi denota stima, per altri sottopone il progetto di Clark allo “stress test” delle analogie.
The Story of Sonny Boy Slim assume i contorni del lavoro biografico nell’intestazione e nel messaggio. Dopo una generica auto-presentazione affidata a Blak and Blu, debutto del 2012 per Warner Bros. Records, ora Gary Clark Jr. focalizza i dettagli e avoca per sé la piena autonomia, concettuale e pragmatica, nelle fasi cruciali del lavoro. Dall’ideazione alla scrittura, dall’arrangiamento alla produzione, è lui che progetta, suona, taglia, scarta e ricuce. Blak and Blu aveva provocato alcuni giudizi contrastanti tra i critici. Il disco si insediava autorevolmente nel solco della tradizione blues con significativi apporti soul e rhythm and blues. Ma a pesare sui commenti di certi puristi erano quei rimandi black à la page capaci di far travisare l’intera registrazione e di bollare Clark mero prigioniero nella morsa di un sound ruffiano. Un vero e proprio paradosso per un giovane bluesman che cercava di attualizzare il repertorio del genere raccogliendo giudizi esasperati: o lodi sperticate (per qualità di proposta, abilità tecnica e freschezza di stile) o biasimo (per eterogeneità, artificiosità, sovrapproduzione, pubblicazione tramite una major). Una situazione che non sembra aver pesato sul percorso dell’allora ventottenne, impegnato ad assecondare la propria attitudine dal vivo e in studio di registrazione.
Nell’alveo familiare delle strade di Austin, la sua città, Clark ha compendiato idee abbozzate in tour e le ha sigillate in The Story Of Sonny Boy Slim. L’album sfodera un’atmosfera intensa sin dalle prime battute. Partitura e liriche, pur nella loro relativa essenzialità, competono per la supremazia in un duello che si rivela molto personale. “Il tema di fondo di questo album sono la fede e la speranza nella realtà” conferma Clark “alla fine della giornata è ciò di cui abbiamo bisogno”. L’apertura affidata a The Healing conferma l’assunto. “I’m a hard fighting soldier and I’m on the battlefield” canta la voce fuori campo “I’ll keep bringing souls to Jesus by the service that I pray”. Il pezzo è introdotto dai versi di Hard Fightin’ Soldier, un traditional battista, un gospel che spiana la strada al manifesto di Clark, all’ammissione dogmatica della musica quale strumento catartico per tutte quelle aberrazioni che cingono d’assedio l’esistenza. Una canzone sospesa, di grande impatto, che assurge a metafora potente e salvifica. La solennità abbacinante del ritornello è quasi un mantra. Efficacemente posto in testa al tracklisting, il brano arretra solo grazie all’impatto di Grinder, testo recalcitrante ma indefinito, tra le cui battute aleggia il fantasma di Hendrix. La sacralità introduttiva è compromessa da feedback incisivi e lick ardenti alla maniera del mancino di Seattle.
Più evidente risulta il sentimento di sconforto in Hold On, redatto sull’onda emozionale della recente paternità. L’amarezza sfocia nella collera, nel disorientamento e nella frustrazione: lo squallore del razzismo, nonostante la presidenza di un afroamericano, deflagra con i fatti di Ferguson e Baltimora e risuscita un aspetto celato nella società statunitense di cui anche Clark è incredulo testimone.
Da Blak and Blu il nuovo The Story Of Sonny Boy Slim eredita uno spettro di varietà stilistiche che inclinano il mood. A spostare in ambito nettamente positivo l’“indice della felicità interna lorda” – sì, esiste per davvero – sono Shake, blues scaltro, veloce, senza tempo e BYOB (l’acronimo si riferisce al diritto di tappo?) intermezzo farsesco dall’alto tasso alcolico. La voce di Clark si rivela vincente, è una risorsa persuasiva al pari delle sue innate doti di chitarrista. In Star il texano sfodera lo stesso falsetto che gli è valso il Grammy Award per Please Come Home (Best Traditional R&B Performance) mentre Our Love e Cold Blooded sembrano celebrare la raffinatezza timbrica di Curtis Mayfield. Church, intrisa di spiritualismo – e per ciò legata a doppio filo con The Healing – è tutta voce, chitarra acustica, armonica e un tocco di percussioni. Esempio di scarna bellezza, lascia coincidere ulteriori brandelli di storia personale con quella artistica, dato l’ausilio delle due sorelle Clark, Shawn e Savannah, ai cori.
Gary Clark Jr. ha mosso i primi passi presso l’Antone’s – del leggendario promoter Clifford Antone – l’ombelico del mondo blues. Da adolescente, in quel locale, ha iniziato a fare proseliti ed ha trovato il prezioso aiuto di Jimmie Vaughan (fratello dell’indimenticato Stevie Ray) fino a scalare le vette del successo ed arrivare ad esibirsi durante il Crossroads Guitar Festival nel 2010. Da quel momento la carriera di Clark è stata un crescendo che lo ha portato a calcare il palco al fianco di numerose star (su tutte, gli Stones per il loro tour 50 & Counting). L’inesorabile esplosione sulla scena musicale non sembra aver disorientato il bluesman che, in proposito, ha schiettamente ammesso: “Realizzo i miei spettacoli e incido i miei dischi. Cerco di non rimanere invischiato nelle campagne pubblicitarie che accompagnano il mio nome. Sono sempre lo stesso: faccio quello che facevo prima”. Oltre alle qualità fin qui mostrate, sono il legame con le radici e l’innato desiderio di incrociarle con il soul, l’hip hop e ulteriori rivoli della musica contemporanea, che forse candidano davvero Gary Clark Jr. a rappresentare, insieme a pochi altri esponenti (l’immarcescibile Prince, il redivivo D’Angelo, e l’ammaliatore Kendrick Lamar), il titolo di campione mondiale della scena black. Il verdetto appartiene al futuro, è certo, ma al presente spetta The Story Of Sonny Boy Slim.
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- Fotografie di Frank Maddocks e Jon Shapley.
venerdì 11 settembre 2015
EZTV - Calling Out
Gli EZTV debuttano con "Calling Out", album pregno di potenziali hit segnate dalle ormai famigerate pene d’amor perduto. Buona la prima, dunque, ma per plasmare musica da ricordare occorre più originalità.
Emozionale sul piano testuale e vintage su quello sonoro, l’esordio discografico degli EZTV ricuce tessuti melodici recuperati dai sixties e parsimonia ritmica dagli eighties.
CallingOut potrebbe sembrare gracile, e per gran parte lo è, ma scrostata la sottile vernice di immediatezza che lo ricopre, si rivela più solido di quel che appare.
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Emozionale sul piano testuale e vintage su quello sonoro, l’esordio discografico degli EZTV ricuce tessuti melodici recuperati dai sixties e parsimonia ritmica dagli eighties.
CallingOut potrebbe sembrare gracile, e per gran parte lo è, ma scrostata la sottile vernice di immediatezza che lo ricopre, si rivela più solido di quel che appare.
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martedì 1 settembre 2015
The Lafontaines - Class
Gli scozzesi Kerr Okan (voce), Jamie Keenan (batteria), John Gerard (bass), Iain Findlay (chitarra) e Darren McCaughey (chitarra e tastiere) fondano il gruppo The Lafontaines nel 2010. Il giovane quintetto promuove un crossover che “ufficialmente” prende spunto dal rapping dello statunitense Notorius B.I.G. e dalle sonorità dei connazionali Biffy Clyro. Per certi versi, il duplice orientamento è attendibile: risulta evidente la fascinazione hip hop, meno quella rock. Più che altro è un godibile power pop a brillare, soprattutto durante gli spettacoli dal vivo. Il sound è certamente immediato, ma non rigorosamente radicale. Spesso ricorda episodi moderati del pluripremiato coacervo concepito dai Linkin Park.
Il primo lavoro discografico è l’EP All She Knows, del 2013, ma il vero e proprio debutto è Class (giugno 2015), un lavoro che calca la mano su temi personali e generazionali, e focalizza uno stile bardato con chitarre in overdrive e testi turbinosi. Quasi tutte le tracce del disco presentano suoni pieni ma non necessariamente aggressivi, che si traducono in una voluminosa massa. L’intensa attività live è imprescindibile per una band che vuole farsi una reputazione, per questo i The Lafontaines si esibiscono in numerosi piccoli club (anche negli States) prima di affrontare l’annuale edizione del “T in the Park”, il leggendario festival scozzese.
Il curioso nome della band è stato scelto per onorare il grande voice actor americano Don LaFontaine, scomparso nel 2008 poco prima di mettere in atto una collaborazione con i ragazzi di Glasgow.
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Il curioso nome della band è stato scelto per onorare il grande voice actor americano Don LaFontaine, scomparso nel 2008 poco prima di mettere in atto una collaborazione con i ragazzi di Glasgow.
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mercoledì 26 agosto 2015
Gardens & Villa - Music For Dogs
Tenui melodie e cori à gogo per Music For Dogs, terzo album in carriera del gruppo californiano Gardens & Villa. Poche sorprese, ma una ritrovata verve lirica tiene a galla l’intero lavoro.
Gardens & Villa si riaffacciano sul mercato discografico solo un anno e mezzo dopo la pubblicazione di Dunes. Il gruppo capeggiato da Chris Lynch e Adam Rasmussen ha impiegato poco ad elaborare il nuovo progetto discografico Music For Dogs. Complice la smania di far dimenticare il precedente lavoro – che stando alle ultime dichiarazioni, pare sia stato imposto dalla label – i due hanno elaborato le undici tracce in preda ad un rinnovato delirio creativo libero da vincoli.
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Gardens & Villa si riaffacciano sul mercato discografico solo un anno e mezzo dopo la pubblicazione di Dunes. Il gruppo capeggiato da Chris Lynch e Adam Rasmussen ha impiegato poco ad elaborare il nuovo progetto discografico Music For Dogs. Complice la smania di far dimenticare il precedente lavoro – che stando alle ultime dichiarazioni, pare sia stato imposto dalla label – i due hanno elaborato le undici tracce in preda ad un rinnovato delirio creativo libero da vincoli.
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martedì 23 giugno 2015
Alcoholic Faith Mission - Orbitor
Orbitor è il nuovo album del collettivo danese Alcoholic Faith Mission.
Quarantacinque minuti di musica elettronica attuale ma che potrebbe essere
stata incisa decenni fa.
La nostalgia assume sempre più i contorni di una moda e gli AFM ne seguono l’onda pur confezionando pregevoli brani.
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La nostalgia assume sempre più i contorni di una moda e gli AFM ne seguono l’onda pur confezionando pregevoli brani.
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giovedì 28 maggio 2015
Mounties - Thrash Rock Legacy
Non solo USA e UK. Dure a morire, le convenzioni circoscrivono in questi confini il meglio della musica indie in circolazione.
Sarà pur vero, ma le eccezioni non mancano.
I Mounties debuttano con Thrash Rock Legacy e sembrano poter dire la loro in proposito.
Il trio è costituito da nomi di spicco del panorama indipendente canadese. Hawksley Workman, nato Ryan Corrigan, ha prodotto il duo Tegane and Sara e la band Hey Rosetta!, Ryan Dahle (fratello di Kurt Dahle, ex batterista dei New Pornographers) ha contribuito alle fortune di Age of Electric e Limblifter, mentre Steve Bays è il cantante degli Hot Hot Heat.
Il rock energico, il suono di synth modaioli – eppure così rétro – e i cori orecchiabili delineano lo stile della band.
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I Mounties debuttano con Thrash Rock Legacy e sembrano poter dire la loro in proposito.
Il trio è costituito da nomi di spicco del panorama indipendente canadese. Hawksley Workman, nato Ryan Corrigan, ha prodotto il duo Tegane and Sara e la band Hey Rosetta!, Ryan Dahle (fratello di Kurt Dahle, ex batterista dei New Pornographers) ha contribuito alle fortune di Age of Electric e Limblifter, mentre Steve Bays è il cantante degli Hot Hot Heat.
Il rock energico, il suono di synth modaioli – eppure così rétro – e i cori orecchiabili delineano lo stile della band.
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mercoledì 27 maggio 2015
JPNSGRLS - Circulation
Le coordinate dei JPNSGRLS (Japanese Girls) sono nette, facilmente riscontrabili in ogni solco di Circulation. Tra semplicità espositiva e sonorità in quota garage pop sono posizionati i parametri del primo vero album dei canadesi.
Da poco pubblicato in Europa, con un ritardo di circa sei mesi rispetto all’uscita nel Nord America, Circulation è un disco che nell’insieme evoca la forza del punk anche se ...
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Da poco pubblicato in Europa, con un ritardo di circa sei mesi rispetto all’uscita nel Nord America, Circulation è un disco che nell’insieme evoca la forza del punk anche se ...
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lunedì 4 maggio 2015
Tom Brosseau - Perfect Abandon
Tom Brosseau pubblica Perfect Abandon, un disco di istantanee realizzato nel solco della tradizione folk a stelle e strisce. L’incisione è stata realizzata in presa diretta con la produzione di John Parish.
Il folk per Tom Brosseau è una faccenda molto seria. Perfect Abandon, ottavo disco in carriera per il chitarrista americano, rigenera il linguaggio crepuscolare dei cantastorie. Con uno stile diretto e davvero poco mediato, la voce di Brosseau nobilita dieci tracce che elaborano metafore e notazioni. Sono istantanee scattate con una Polaroid nell’epoca del digitale e, proprio per questo, amplificano un messaggio autentico, spontaneo, sdegnando la manipolazione che altera e non porta da nessuna parte. Perfect Abandon assimila un panorama di giustificazioni e afflizioni, gremito da figure in conflitto e in riappacificazione. Gli stimoli offerti dalla vita, insomma, rivivono tra consapevolezza, nichilismo, altruismo e gran parte dello spettro cromatico esibito dal quotidiano.
Il titolo del disco ricalca una caratterizzazione estrapolata tra le righe di una biografia. Il riferimento tange il modo di indossare il cappello da parte di J.L. “Joe” Frank, “uno dei più grandi promoter/manager di musica country a Nashville”, che usava poggiare il copricapo “con perfetto abbandono”. Al di là della fascinazione per la frase di un libro priva di una qualsiasi rappresentazione figurativa, e che per questo alimenta l’immaginazione, il titolo sembra il modo per delineare le caratteristiche di un album che conferma le doti del busker abile nel trascinare con ineccepibile rilassatezza. Voce bassa e confidenziale, una band che argina l’uso degli strumenti – David Butler alla batteria, Joe Carvell al contrabbasso, Ben Reynolds alla chitarra elettrica – e un unico microfono per catturare i suoni diffusi, live, sul palco del cinema Cube di Bristol, in Inghilterra. Inciso in presa diretta, il disco del menestrello biondo sembra un lavoro che fa di tutto per rasentare l’artigianato di nicchia, se non fosse per la produzione del celebre John Parish (PJ Harvey, Sparklehorse, Peggy Sue), occasionalmente impegnato all’organo.
Roll Along With Me, My Sweetest Friend e Goodbye, Empire Builder (con quella parte di armonica buttata lì con accurata involontarietà) fanno da ossatura a Perfect Abandon.
Tom Brosseau esibisce una vocalità accomodante, cesella la pronuncia di ogni parola alla stregua di un crooner consumato e raramente lascia che la sua Gibson acustica subisca il sopravvento della Fender Stratocaster di Reynolds.
Con una sei corde a tracolla e un testo da cantare molti folksinger hanno costruito onesti percorsi musicali. Tom Brosseau cerca di ritagliarsi un posticino tra chi offre lo splendore semplice ed efficace di un suono accessibile al primo ascolto: è una faccenda molto seria.
Il folk per Tom Brosseau è una faccenda molto seria. Perfect Abandon, ottavo disco in carriera per il chitarrista americano, rigenera il linguaggio crepuscolare dei cantastorie. Con uno stile diretto e davvero poco mediato, la voce di Brosseau nobilita dieci tracce che elaborano metafore e notazioni. Sono istantanee scattate con una Polaroid nell’epoca del digitale e, proprio per questo, amplificano un messaggio autentico, spontaneo, sdegnando la manipolazione che altera e non porta da nessuna parte. Perfect Abandon assimila un panorama di giustificazioni e afflizioni, gremito da figure in conflitto e in riappacificazione. Gli stimoli offerti dalla vita, insomma, rivivono tra consapevolezza, nichilismo, altruismo e gran parte dello spettro cromatico esibito dal quotidiano.
Il titolo del disco ricalca una caratterizzazione estrapolata tra le righe di una biografia. Il riferimento tange il modo di indossare il cappello da parte di J.L. “Joe” Frank, “uno dei più grandi promoter/manager di musica country a Nashville”, che usava poggiare il copricapo “con perfetto abbandono”. Al di là della fascinazione per la frase di un libro priva di una qualsiasi rappresentazione figurativa, e che per questo alimenta l’immaginazione, il titolo sembra il modo per delineare le caratteristiche di un album che conferma le doti del busker abile nel trascinare con ineccepibile rilassatezza. Voce bassa e confidenziale, una band che argina l’uso degli strumenti – David Butler alla batteria, Joe Carvell al contrabbasso, Ben Reynolds alla chitarra elettrica – e un unico microfono per catturare i suoni diffusi, live, sul palco del cinema Cube di Bristol, in Inghilterra. Inciso in presa diretta, il disco del menestrello biondo sembra un lavoro che fa di tutto per rasentare l’artigianato di nicchia, se non fosse per la produzione del celebre John Parish (PJ Harvey, Sparklehorse, Peggy Sue), occasionalmente impegnato all’organo.
Roll Along With Me, My Sweetest Friend e Goodbye, Empire Builder (con quella parte di armonica buttata lì con accurata involontarietà) fanno da ossatura a Perfect Abandon.
Tom Brosseau esibisce una vocalità accomodante, cesella la pronuncia di ogni parola alla stregua di un crooner consumato e raramente lascia che la sua Gibson acustica subisca il sopravvento della Fender Stratocaster di Reynolds.
Con una sei corde a tracolla e un testo da cantare molti folksinger hanno costruito onesti percorsi musicali. Tom Brosseau cerca di ritagliarsi un posticino tra chi offre lo splendore semplice ed efficace di un suono accessibile al primo ascolto: è una faccenda molto seria.
mercoledì 22 aprile 2015
Tic Tac Toe, nuovo video di JJ Grey
Tic Tac Toe è il nuovo video di JJ Grey. Questa volta è senza i Mofro, nel buio, parzialmente scalfito da una luce tenue che rende la sua confessione vera.
Una chitarra acustica a tracolla, una non scenografia per set, una camera fissa che lo riprende a mezza figura e JJ Grey è pronto a rivelare l’ineludibile.
Tic Tac Toe si spoglia dell’elettricità che contraddistingue la versione finita sul recente Ol'Glory e diventa intimo spurgo della coscienza, in bilico tra pentimento e incapacità a cambiare. Provare emozioni che fluttuano, in un attimo, dall’esaltazione alla rovina, proprio come succede durante una mano di poker. Proprio “come tenere paradiso e inferno nel palmo della tua mano”.
JJ non vuole risultare persuasivo, canta con lo sguardo basso, il capo chino e gli occhi che non guardano mai l’obiettivo della camera, come se il pudore lo impedisse, come se stesse raccogliendo gli ultimi barlumi di una memoria tutt'altro che nobile.
Un non videoclip potente, che ci mostra un cantautore capace di ridare il giusto valore alla musica riducendo tutte le interferenze che possono inquinare espressività e impianto narrativo.
Una chitarra acustica a tracolla, una non scenografia per set, una camera fissa che lo riprende a mezza figura e JJ Grey è pronto a rivelare l’ineludibile.
Tic Tac Toe si spoglia dell’elettricità che contraddistingue la versione finita sul recente Ol'Glory e diventa intimo spurgo della coscienza, in bilico tra pentimento e incapacità a cambiare. Provare emozioni che fluttuano, in un attimo, dall’esaltazione alla rovina, proprio come succede durante una mano di poker. Proprio “come tenere paradiso e inferno nel palmo della tua mano”.
JJ non vuole risultare persuasivo, canta con lo sguardo basso, il capo chino e gli occhi che non guardano mai l’obiettivo della camera, come se il pudore lo impedisse, come se stesse raccogliendo gli ultimi barlumi di una memoria tutt'altro che nobile.
Un non videoclip potente, che ci mostra un cantautore capace di ridare il giusto valore alla musica riducendo tutte le interferenze che possono inquinare espressività e impianto narrativo.
domenica 19 aprile 2015
InVinoVeritas - ViaVai
Cinque anni dopo demoDé, gli InVinoVeritas pubblicano ViaVai. Più asciutto e incisivo del precedente, il nuovo disco cerca – come anticipa il titolo – di mettere a fuoco il tema del movimento. Il fil rouge che lega le tracce non sempre connette gli argomenti, ma il risultato complessivo è comunque piacevole.
Gli InVinoVeritas pubblicano il terzo album in tredici anni. In sala d’incisione, a quanto pare, ci finiscono solo quando è il momento di plasmare qualcosa che li coinvolge per davvero. O quando i cambi di formazione lo consentono.
Il gruppo ha scelto un nome programmatico per questa produzione: ViaVai.
E’ un disco che aspira a raccontare migrazioni fisiche e vagabondaggi trascendentali, che mira all’inequivocabile rappresentazione “di movimento” e che cerca di meditare “sul movimento”. La trama incarna visioni e opportunità, ambizioni e frustrazioni che accarezzano la superficie di quanto predefinito senza ghermirne il nucleo. Il filo conduttore è labile ma è magistralmente saldato in copertina dalla concretizzazione del titolo che propone – oltre all’acronimo del nome della band – quel febbrile movimento di persone che vanno e vengono.
Il viaggio allora risulta più focalizzato con la musica, che esplora, setaccia, riscopre. Gli InVinoVeritas tratteggiano una scena ampia mai arroccata, pronta semmai a spalancarsi per il frequente ricambio di componenti, per la stravaganza concettuale, per la rilevante fusione di stili. E’ una band che rimanda un brio compositivo sincretico, disposto a sperimentare, ad osare per mezzo di insolite soluzioni. Dal pop al rock, dal punk al cantautorato: la metamorfosi sonora del collettivo si basa su accenti ritmici sostanziali e su architetture melodiche funzionali. A completare la miscela, voci diverse si alternano per urlare la rabbia o sussurrare lo sdegno. La penna rastrella tribolazioni (Briciole), riscontri intimisti (einvctnvai) o angosce più che concrete (Clash in Via Padova).
Traspare una nitida autenticità, una passione onesta dagli undici brani contenuti in ViaVai. Pur non essendo perfetto, l'album esibisce quarantacinque minuti di musica matura e intensa. La già menzionata einvctnvai e Come Ridere svettano dal contesto in modo netto, rinnovando, grazie al fondamentale contributo vocale di Sara Squillante, lo splendore canoro che ha segnato il progresso della musica leggera italiana negli anni Sessanta.
Gli InVinoVeritas pubblicano il terzo album in tredici anni. In sala d’incisione, a quanto pare, ci finiscono solo quando è il momento di plasmare qualcosa che li coinvolge per davvero. O quando i cambi di formazione lo consentono.
Il gruppo ha scelto un nome programmatico per questa produzione: ViaVai.
E’ un disco che aspira a raccontare migrazioni fisiche e vagabondaggi trascendentali, che mira all’inequivocabile rappresentazione “di movimento” e che cerca di meditare “sul movimento”. La trama incarna visioni e opportunità, ambizioni e frustrazioni che accarezzano la superficie di quanto predefinito senza ghermirne il nucleo. Il filo conduttore è labile ma è magistralmente saldato in copertina dalla concretizzazione del titolo che propone – oltre all’acronimo del nome della band – quel febbrile movimento di persone che vanno e vengono.
Il viaggio allora risulta più focalizzato con la musica, che esplora, setaccia, riscopre. Gli InVinoVeritas tratteggiano una scena ampia mai arroccata, pronta semmai a spalancarsi per il frequente ricambio di componenti, per la stravaganza concettuale, per la rilevante fusione di stili. E’ una band che rimanda un brio compositivo sincretico, disposto a sperimentare, ad osare per mezzo di insolite soluzioni. Dal pop al rock, dal punk al cantautorato: la metamorfosi sonora del collettivo si basa su accenti ritmici sostanziali e su architetture melodiche funzionali. A completare la miscela, voci diverse si alternano per urlare la rabbia o sussurrare lo sdegno. La penna rastrella tribolazioni (Briciole), riscontri intimisti (einvctnvai) o angosce più che concrete (Clash in Via Padova).
Traspare una nitida autenticità, una passione onesta dagli undici brani contenuti in ViaVai. Pur non essendo perfetto, l'album esibisce quarantacinque minuti di musica matura e intensa. La già menzionata einvctnvai e Come Ridere svettano dal contesto in modo netto, rinnovando, grazie al fondamentale contributo vocale di Sara Squillante, lo splendore canoro che ha segnato il progresso della musica leggera italiana negli anni Sessanta.
domenica 12 aprile 2015
Polar Bear - Same As You
I Polar Bear di Seb Rochford, tre volte nominato al Mercury Music Prize, pubblicano Same As You.
Foga e stasi strumentale si alternano in un cantico alla natura per interpretare un territorio selvaggio che profonde sentimenti autentici, positivi. Gli stessi che la band intende trasmettere con una fusione di stili jazz.
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Foga e stasi strumentale si alternano in un cantico alla natura per interpretare un territorio selvaggio che profonde sentimenti autentici, positivi. Gli stessi che la band intende trasmettere con una fusione di stili jazz.
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mercoledì 25 marzo 2015
Idlewild - Everything Ever Written
Everything Ever Written è l'ottavo album in due decenni per la band scozzese. Gli Idlewild esprimono sonorità identitarie e cercano nuovi percorsi.
Gli scozzesi Idlewild hanno potuto disporre di un biennio per sviluppare un processo creativo immune da stress e da dead line. Registrato tra cielo e mare, sull’isola di Mull, Everything Ever Written è la loro ottava pubblicazione in vent’anni di carriera. E, a tratti, il disco manifesta un mood quieto, frutto di una produzione avvenuta tra tempi dilatati e atmosfere rilassate.
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Gli scozzesi Idlewild hanno potuto disporre di un biennio per sviluppare un processo creativo immune da stress e da dead line. Registrato tra cielo e mare, sull’isola di Mull, Everything Ever Written è la loro ottava pubblicazione in vent’anni di carriera. E, a tratti, il disco manifesta un mood quieto, frutto di una produzione avvenuta tra tempi dilatati e atmosfere rilassate.
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mercoledì 18 marzo 2015
The Sidekicks - Runners In The Nerved World
Ex incendiari, The Sidekicks mostrano oggi una natura che oscilla tra post-punk molliccio e power pop inoffensivo. Titolo evocativo e copertina con caratteri interlocutori, Runners In The Nerved World esclude ogni possibile connessione con il riottoso avvio di carriera della band statuitense.
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martedì 17 marzo 2015
Trupa Trupa - Headache
Si chiamano Trupa Trupa vengono dalla Polonia e hanno appena pubblicato Headache.
Il disco conta undici brani cantati in inglese e musicati sulla scorta di un rock psichedelico che ricorda i Beatles più acidi e i Radiohead più avversi al mainstream.
E’ Snow a lasciare affiorare il “mal di testa”, col suo accordo che regge l’intonazione di un lamento stonato e una strofa che fluttua prima di cadere nella spirale avviluppante di un ritornello strutturale.
I primi punti fermi dell’intero progetto vengono fissati: essenzialità lirica che profonde suggestione e musica che altera la sua fluidità in favore di una deformazione viscosa. Tra sogno e realtà lo sguardo dei ragazzi è un percorso che sembra esplorare la dottrina escatologica. Sacrifice ne è la summa (I've just realised/ I won't sacrifice/ I don't even care). Blanda e ipnotica lascia galleggiare le parole su un tappeto sonoro piacevolissimo, in piena antitesi con l’escalation lugubre ricreata dalla successiva Getting Holder. Da qui sembra debuttare un'ideale seconda parte dell’album. La direzione intrapresa dai Trupa Trupa diventa musicalmente prolissa, reiterata da sonorità davvero insistite, mentre resta laconica la stesura dei testi. Una concisione che esalta un cantato sempre più cupo ed enfatizza un’armonia tesa che in più punti, ad esempio nella chilometrica title track, sfocia in puro noise. Unbelievable torna ai toni pastello e alle atmosfere più rarefatte, ma è un filo sottile, presto spezzato dal mood alienato ed entropico di Picture Yourself.
Headache è una piacevole scoperta che svela una band capace di emergere lontano dai soliti lidi fortunati. Uscito in CD il 7 marzo, il concept sarà disponibile anche su cassetta (un supporto che quasi incredibilmente si ripropone) dal 28.
Difficili da pronunciare e da memorizzare, ma meritevoli di menzione, i nomi dei quattro componenti la band: Grzegorz Kwiatkowski (chitarra e voce), Wojciech Juchniewicz (basso, chitarra e voce), Rafal Wojczal (tastiere e chitarra) e Tomek Pawluczuk (batteria).
E’ Snow a lasciare affiorare il “mal di testa”, col suo accordo che regge l’intonazione di un lamento stonato e una strofa che fluttua prima di cadere nella spirale avviluppante di un ritornello strutturale.
I primi punti fermi dell’intero progetto vengono fissati: essenzialità lirica che profonde suggestione e musica che altera la sua fluidità in favore di una deformazione viscosa. Tra sogno e realtà lo sguardo dei ragazzi è un percorso che sembra esplorare la dottrina escatologica. Sacrifice ne è la summa (I've just realised/ I won't sacrifice/ I don't even care). Blanda e ipnotica lascia galleggiare le parole su un tappeto sonoro piacevolissimo, in piena antitesi con l’escalation lugubre ricreata dalla successiva Getting Holder. Da qui sembra debuttare un'ideale seconda parte dell’album. La direzione intrapresa dai Trupa Trupa diventa musicalmente prolissa, reiterata da sonorità davvero insistite, mentre resta laconica la stesura dei testi. Una concisione che esalta un cantato sempre più cupo ed enfatizza un’armonia tesa che in più punti, ad esempio nella chilometrica title track, sfocia in puro noise. Unbelievable torna ai toni pastello e alle atmosfere più rarefatte, ma è un filo sottile, presto spezzato dal mood alienato ed entropico di Picture Yourself.
Headache è una piacevole scoperta che svela una band capace di emergere lontano dai soliti lidi fortunati. Uscito in CD il 7 marzo, il concept sarà disponibile anche su cassetta (un supporto che quasi incredibilmente si ripropone) dal 28.
Difficili da pronunciare e da memorizzare, ma meritevoli di menzione, i nomi dei quattro componenti la band: Grzegorz Kwiatkowski (chitarra e voce), Wojciech Juchniewicz (basso, chitarra e voce), Rafal Wojczal (tastiere e chitarra) e Tomek Pawluczuk (batteria).
venerdì 6 marzo 2015
Clarence Clarity - No Now
Clarence Clarity debutta con il suo primo vero album il 3 marzo.
No Now riprende idee parzialmente comparse nell'EP Save Thyself (2013), ne sviluppa la trama e ne approfondisce la prosodia. Il numero ipertrofico di brani realizzati, ben venti, attecchisce nel terreno fertile dell'electropop. L'eccesso di idee elaborate sperimenta una “non” forma-canzone, ampliando i limiti di una proposta strabocchevole. Il disco non nasconde riferimenti di stile, più che citazioni, richiamando periodi ed evitando accostamenti a personaggi, evidenziando interesse per i suoni che hanno reso celebri i sintetizzatori nella prima metà degli anni '80. In questo, No Now contiene rievocazioni – quasi dei flashback sonori – che si innestano nella contemporaneità di un progetto parcellizzato nel suo fluire. Barricato dietro un nickname che ne preserva la vita privata, il britannico sembra favorire una certa preferenza per la comunicazione musicale in favore di ogni altro tipo di ostentazione. Il musicista e produttore lascia trapelare scarse informazioni sul proprio conto, preferendo erigere quell’impenetrabile varco che argina pruderie extra-professionali. O forse, è solo una ritrosia di facciata che cela una strategia per incrementare curiosità. US5WNYHWQP3R
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No Now riprende idee parzialmente comparse nell'EP Save Thyself (2013), ne sviluppa la trama e ne approfondisce la prosodia. Il numero ipertrofico di brani realizzati, ben venti, attecchisce nel terreno fertile dell'electropop. L'eccesso di idee elaborate sperimenta una “non” forma-canzone, ampliando i limiti di una proposta strabocchevole. Il disco non nasconde riferimenti di stile, più che citazioni, richiamando periodi ed evitando accostamenti a personaggi, evidenziando interesse per i suoni che hanno reso celebri i sintetizzatori nella prima metà degli anni '80. In questo, No Now contiene rievocazioni – quasi dei flashback sonori – che si innestano nella contemporaneità di un progetto parcellizzato nel suo fluire. Barricato dietro un nickname che ne preserva la vita privata, il britannico sembra favorire una certa preferenza per la comunicazione musicale in favore di ogni altro tipo di ostentazione. Il musicista e produttore lascia trapelare scarse informazioni sul proprio conto, preferendo erigere quell’impenetrabile varco che argina pruderie extra-professionali. O forse, è solo una ritrosia di facciata che cela una strategia per incrementare curiosità. US5WNYHWQP3R
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giovedì 26 febbraio 2015
JJ Grey & Mofro - Ol'Glory
Fortemente influenzato dalla roots music, il colletivo Mofro nasce in Florida all’alba degli anni ‘00 per dare voce al proletariato blue-collar con un suono amalgama di soul, blues, rock, folk, funk, gospel e gritty R&B. Dopo due album, il gruppo cambia nome in JJ Grey (band leader e principale autore) & Mofro: lo stile non muta, il traguardo è lo stesso.
Con un successo crescente – alimentato da centinaia di concerti in giro per i continenti – il blend si rinnova ad ogni uscita fino a Ol’Glory, nona pubblicazione. I dischi sembrano avere un fine utilitaristico, un mezzo per lasciar presagire le torride jam concertistiche che esaltano la duttilità del gruppo. Un tocco di originalità e tanti riferimenti a un sound che tange Jerry Reed, Otis Redding e altri maestri del Memphis soul.
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Clic qui per Ol'Glory album teaser.
Con un successo crescente – alimentato da centinaia di concerti in giro per i continenti – il blend si rinnova ad ogni uscita fino a Ol’Glory, nona pubblicazione. I dischi sembrano avere un fine utilitaristico, un mezzo per lasciar presagire le torride jam concertistiche che esaltano la duttilità del gruppo. Un tocco di originalità e tanti riferimenti a un sound che tange Jerry Reed, Otis Redding e altri maestri del Memphis soul.
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martedì 24 febbraio 2015
A long way down to the roots – Michele Giuliani plays Duke Ellington
Nel marasma di scialbe pubblicazioni reclamizzate in pompa magna, con toni enfatici e sparate sensazionali, conforta apprendere che qualcuno risponde solo ad urgenze scevre dai meccanismi del sistema, asservite unicamente alla spontaneità del momento.
Con una pubblicità che neanche può essere definita tale, Michele Giuliani promuove la sua idea di musica. Con poche righe autografe annuncia l’uscita di un nuovo album, affidando i suoi tormenti a un messaggio email capace di far coesistere timidezza ed ira per il letale mix di nefandezze e mercificazione che ha quasi annientato la sensibilità all’arte.
Pianista eclettico, Giuliani è autore che varca spesso i confini del jazz e della world per tornare alle radici del tutto, ad un’essenzialità schietta. A long way down to the roots – Michele Giuliani plays Duke Ellington impiatta il nòcciolo e getta la polpa. Radicalizza lo scontro tra spessore artistico e futilità presentando un monologo per pianoforte che indaga l’origine del legame tra alcune composizioni di Duke Ellington e i suoni dell’Africa. Una fascinazione che il maestro americano riporta in varie partiture, African Flower su tutte.
A long way down to the roots è proposta autentica che Giuliani offre con un sentito, ma tutt’altro che deferente, tributo all’eccellenza jazz. Reso integralmente disponibili in rete, “il disco” espone dieci reinterpretazioni intrecciate dall’improvvisazione e guidate da ipnotiche suggestioni. Un viaggio immaginifico e libero, in ogni senso, che riporta in auge raffinatezza e profondità artistica. Affidare queste cover allo streaming gratuito non arricchisce, ma buttare sangue per la musica ripaga moralmente e contribuisce a svelare la qualità. Proprietà umana e professionale che a Michele Giuliani non manca.
Con una pubblicità che neanche può essere definita tale, Michele Giuliani promuove la sua idea di musica. Con poche righe autografe annuncia l’uscita di un nuovo album, affidando i suoi tormenti a un messaggio email capace di far coesistere timidezza ed ira per il letale mix di nefandezze e mercificazione che ha quasi annientato la sensibilità all’arte.
Pianista eclettico, Giuliani è autore che varca spesso i confini del jazz e della world per tornare alle radici del tutto, ad un’essenzialità schietta. A long way down to the roots – Michele Giuliani plays Duke Ellington impiatta il nòcciolo e getta la polpa. Radicalizza lo scontro tra spessore artistico e futilità presentando un monologo per pianoforte che indaga l’origine del legame tra alcune composizioni di Duke Ellington e i suoni dell’Africa. Una fascinazione che il maestro americano riporta in varie partiture, African Flower su tutte.
A long way down to the roots è proposta autentica che Giuliani offre con un sentito, ma tutt’altro che deferente, tributo all’eccellenza jazz. Reso integralmente disponibili in rete, “il disco” espone dieci reinterpretazioni intrecciate dall’improvvisazione e guidate da ipnotiche suggestioni. Un viaggio immaginifico e libero, in ogni senso, che riporta in auge raffinatezza e profondità artistica. Affidare queste cover allo streaming gratuito non arricchisce, ma buttare sangue per la musica ripaga moralmente e contribuisce a svelare la qualità. Proprietà umana e professionale che a Michele Giuliani non manca.
lunedì 23 febbraio 2015
Mettercela tutta, sempre
Mettercela tutta. Combinare date e macinare chilometri, calcare palchi e suonare in tutti gli angoli del Paese come fosse la prima volta, con l’urgenza di un nuovo inizio che spinge per manifestarsi, e non l’ultima, che si porta dietro una carico di malinconia e uno scarico di responsabilità da lavoro archiviato.
I Leitmotiv sono fuori da un pezzo, e da un pezzo si dannano l’anima ad ogni concerto. Non hanno timore di assumere rischi là dove conta, on stage. La tappa del 20 febbraio, all’Officina San Domenico di Andria, ha confermato le peculiare spettacolarità delle loro esibizioni e ha trasmesso una buona dose di certezze. Il tour in supporto del nuovo I Vagabondi, quarto album dei pugliesi, prosegue un’evoluzione artistica e un percorso indipendente impostato circa dieci anni fa.
I Leitmotiv dimostrano di aver trovato la formula ideale per uno show che si rinnova di volta in volta. Giorgio Consoli conferma doti carismatiche e non comuni, da affabulatore punk, mentre Giuseppe Soloperto, Dino Semeraro e Natti Lomartire ghermiscono il suono più adatto al mood dei testi. E’ questa una delle certezze dei Leitmotiv: quella di aver cercato e trovato la vibrazione identitaria, quella di aver fatto proprio un linguaggio sonoro che si distingue dagli altri. Un’armatura musicale dalla struttura dinamica che, dapprima ha sostenuto un pun multilingue dall’orientamento cosmopolita, dopo ha agevolato una preferenza per testi italiani, più adatti a trasporre lucide tesi e sinceri interrogativi sulla nostra realtà. Questo è il corredo che la band di Sava cesella continuamente per frapporre un distanza tangibile con le altre proposte musicali in circolazione. Un loro live è una messinscena che porta davvero pezzi di vita sul proscenio. Il gruppo sa blandire con I diciottenni, emozioni legate ai ricordi e ritmo docile, e pestare con Ad occhi chiusi, toni nervosi per uno spaccato sociale. Sa dispiegare, meglio di chiunque, gli umori biografici con I Vagabondi e sbeffeggiare sottilmente con Testa di paglia. Sa pungolare con La Flute Magique, brano opportunamente ripescato dal catalogo, e osare con il medley Puerto Nuevo/ Girls and Boys (Blur).
Assistere a un loro concerto non è mero svago, è un’esperienza. Equipaggiamento essenziale, scarpe comode e lo sguardo avanti per dare il meglio. Mettercela tutta. Sempre. Questo è il leitmotiv. Questi sono i Leitmotiv.
I Leitmotiv dimostrano di aver trovato la formula ideale per uno show che si rinnova di volta in volta. Giorgio Consoli conferma doti carismatiche e non comuni, da affabulatore punk, mentre Giuseppe Soloperto, Dino Semeraro e Natti Lomartire ghermiscono il suono più adatto al mood dei testi. E’ questa una delle certezze dei Leitmotiv: quella di aver cercato e trovato la vibrazione identitaria, quella di aver fatto proprio un linguaggio sonoro che si distingue dagli altri. Un’armatura musicale dalla struttura dinamica che, dapprima ha sostenuto un pun multilingue dall’orientamento cosmopolita, dopo ha agevolato una preferenza per testi italiani, più adatti a trasporre lucide tesi e sinceri interrogativi sulla nostra realtà. Questo è il corredo che la band di Sava cesella continuamente per frapporre un distanza tangibile con le altre proposte musicali in circolazione. Un loro live è una messinscena che porta davvero pezzi di vita sul proscenio. Il gruppo sa blandire con I diciottenni, emozioni legate ai ricordi e ritmo docile, e pestare con Ad occhi chiusi, toni nervosi per uno spaccato sociale. Sa dispiegare, meglio di chiunque, gli umori biografici con I Vagabondi e sbeffeggiare sottilmente con Testa di paglia. Sa pungolare con La Flute Magique, brano opportunamente ripescato dal catalogo, e osare con il medley Puerto Nuevo/ Girls and Boys (Blur).
Assistere a un loro concerto non è mero svago, è un’esperienza. Equipaggiamento essenziale, scarpe comode e lo sguardo avanti per dare il meglio. Mettercela tutta. Sempre. Questo è il leitmotiv. Questi sono i Leitmotiv.
mercoledì 28 gennaio 2015
Melissa Etheridge - This Is M.E.
In quasi tre decenni di carriera Melissa Etheridge* si è guadagnata i favori di un vasto pubblico e prestigiosi riconoscimenti (Grammy Award, Academy Award e addirittura una stella sulla Hollywood Walk of Fame). Successi che ne hanno certificato il meritato valore artistico e che, forse, hanno provveduto a mitigare il contraccolpo pregiudizievole di quell’opinione pubblica acerba destinataria, nel 1993, di un coming out imprevisto. Forse proprio questi due elementi – un seguito fedele e una sincerità che scuote ogni sorda potenza – hanno spinto Hetheridge a plasmare This Is M.E., un album personale che inquadra la sfera sentimentale.
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* Melissa Etheridge ha raccolto consensi di pubblico e critica in una carriera che ha spinto sull’acceleratore del cantautorato al servizio del pop/rock. Tanta sostanza, soprattutto tra i solchi dei primi dischi, e un look da dura consumata. Personalità da vendere – con tanto di pubblica ammissione di omosessualità – e ostinazione le valgono il titolo di paladina del movimento LGBT e autorevole testimonial per la lotta contro il cancro (che l’ha colpita dieci anni fa).
Ha tratti identitari che ne nutrono l’ego. La sua voce potente si fa largo tra rivali che non hanno la stessa ruvida espressività, la chitarra a tracolla e poi stivali, jeans, giacche di pelle: tutto rimanda all’iconografia resa celebre da Bruce Springsteen, non per altro, suo eroe dichiarato. E’ un pregio che diventa quasi condanna: l’etichetta non se la toglie più di dosso, ma questo non le impedisce di scalciare ancora oggi, a 54 anni, neanche fosse una debuttante in cerca di un posto al sole.
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* Melissa Etheridge ha raccolto consensi di pubblico e critica in una carriera che ha spinto sull’acceleratore del cantautorato al servizio del pop/rock. Tanta sostanza, soprattutto tra i solchi dei primi dischi, e un look da dura consumata. Personalità da vendere – con tanto di pubblica ammissione di omosessualità – e ostinazione le valgono il titolo di paladina del movimento LGBT e autorevole testimonial per la lotta contro il cancro (che l’ha colpita dieci anni fa).
Ha tratti identitari che ne nutrono l’ego. La sua voce potente si fa largo tra rivali che non hanno la stessa ruvida espressività, la chitarra a tracolla e poi stivali, jeans, giacche di pelle: tutto rimanda all’iconografia resa celebre da Bruce Springsteen, non per altro, suo eroe dichiarato. E’ un pregio che diventa quasi condanna: l’etichetta non se la toglie più di dosso, ma questo non le impedisce di scalciare ancora oggi, a 54 anni, neanche fosse una debuttante in cerca di un posto al sole.
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