La sera del 22 novembre 1981, in un angusto club di Chicago, il diavolo organizza una festa con musicisti adepti al suo culto per godersi una jam-session irripetibile.
Non è andata esattamente così, ma quando il cartellone presenta nomi così profondamente legati al blues da divenirne sinonimi, il mito mefistofelico e la realtà si intrecciano spesso e volentieri in un susseguirsi di leggende.
Sul palco del Checkerboard Lounge, quella sera di trentuno anni fa, ci sono un sacco di big, ma non c’è uno stinco di santo nemmeno per sbaglio. Muddy Waters e la sua band suonano con alcuni Stones durante un concerto fino ad oggi rimasto appannaggio dei pochi spettatori presenti nel locale, e dei fan che per anni hanno recuperato immagini non ufficiali.
L’esibizione rivela musicisti dal background dissimile ma radunati dall’incondizionato amore per il blues. Ci sono neri cresciuti a espedienti e umiliazioni tra baracche del sud est bagnato dal Mississippi e bianchi plasmati a vanità e competitività nella “swinging London”. Già sulle prime, l’aria si satura di sventure un tempo cantate da Blind Boy Fuller e da fumose credenze voodoo. Riecheggia l’anima errabonda di Robert Johnson – “la cui morte aveva a che fare con la magia nera” (come riporta Greil Marcus in Mystery Train) – che somma il peso delle proprie sventure a quelle di Muddy Waters presente in carne, ossa e voce penetrante. Una voce che canta le avversità dei neri svezzati dalla strada e che bofonchia le sfide affrontate per resistere al razzismo strisciante di un’America dalle tendenze retrive. Muddy suona e suda, suda la fatica di uomini piegati dalla stanchezza nelle piantagioni di cotone, rivendica la sua vittoria su un’esistenza indigente recisa con la firma per la Chess Records e intona fascinosi canti carichi di sensualità. A questi esempi di sfortuna e tenacia si uniscono paladini “brutti, sporchi e cattivi” fautori di un opportuno intruglio tra estrema concretezza, profonda passione e spartana tecnica che si riassume nella massima di Keith Richards: “Five strings, two fingers and one asshole”. L’esibizione sta tutta nel doppio DVD dai fotogrammi restaurati che esce il 10 luglio, con tanto di suono mixato e masterizzato da Bob Clairmountain.
Live At The Checkerboard Lounge cattura la carica di un supergruppo capeggiato da Muddy Waters e ferma l’essenza del Chicago Blues in tutta la sua umile sorgente innovatrice. Fornisce l’occasione per vedere il ritorno alle origini di star viziate al cospetto di talentuosi pionieri: Mick Jagger, Keith Richards e Ronnie Wood (non ancora preda di artrosi e grinze come cartapecora) per una sera scardinano la routine dei fenomeni da sold-out mettendo da parte il proprio modello compositivo in favore del genere che li ha irretiti anni prima. E’ il miglior modo per offrire una dedica al loro mito, a un Muddy Waters gongolante e ancora capace di esprimere al meglio la sua singolare tecnica chitarristica.
La temperatura nel locale sale quando i Rolling Stones fanno il loro ingresso (a concerto già avviato) e raggiunge l’acme mentre questi si stringono sopra un palchetto così a ridosso dei tavoli che Richards e Wood devono proprio salirci sopra per raggiungerlo. Tutto sembra molto “friendly”. L’atmosfera è decisamente intima, Muddy Waters è a casa sua (in ogni senso, visto che è il proprietario del bar) e l’alchimia, ben assestata dall’alcol ingollato da Richards e Wood, libera i musicisti da vincolanti pose filmiche da carrozzone rock e da atteggiamenti forzatamente seduttivi che i clamori del colossale tour americano in atto impongono. Si genera una combinazione luciferina tipica della mitologia blues.
Se ci fosse qualcosa di vero su queste storie si potrebbe pensare ad influssi ultraterreni capaci di animare le mani di un Keith Richards rigoroso con l’uso della Rosewood Telecaster, e poteri abili nell’indirizzare un Ronnie Wood che detta legge con il bottleneck. Una forza in grado di infliggere spasmi tarantolati a Lefty Dizz e di suggerire serpentine virtuose a Buddy Guy. Qualche oscura entità promotrice dell’estro di Junior Wells e George “Mojo” Buford, che alternano decine di bending alle armoniche lamentose. La setlist conta quindici blues – tra cui i superclassici Baby Please Don’t Go, Hoochie Coochie Man e Mannish Boy – che decollano su scale pentatoniche e precipitano lungo una gradinata per l’inferno.
Un concerto intimo e memorabile. Un Muddy Waters al crepuscolo della sua esistenza – morirà solo un anno e mezzo dopo – che finalmente incassa parte del credito vantato nei confronti degli Stones e lascia il testimone a Buddy Guy, il più illustre erede del Chicago Blues.
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