Introverso e indifferente ai dettami del marketing, Alex Terlizzi appartiene a quel cosmo di musicisti pugliesi dal potenziale ancora tutto da esplorare. Le sue notevoli doti artistiche sono palesate dai suoi due album, pubblicati a sei anni l’uno dall’altro, in un ambito estraneo ai territori indie e distante dalle logiche del mainstream. Il maestro Terlizzi conta importanti duetti e ambite collaborazioni.
Continua su LSDmagazine.
giovedì 28 febbraio 2013
mercoledì 20 febbraio 2013
Push The Sky Away – Nick Cave & The Bad Seeds
Diciamolo subito: il nuovo album di Nick Cave non ha l’impatto dirompente di quelli che lo hanno preceduto. Non c’è traccia della ferocia di Let Love In, della straziante disperazione – amorosa o religiosa – di No More Shall We part e The Boatman’s Call e neanche dell’irriverente energia che caratterizzava la maggior parte degli episodi dell’ultimo Dig, Lazarus, Dig!!! Ma non per questo Push The Sky Away è un capitolo meno interessante nel lungo percorso artistico del poeta australiano.
Partiamo dai fatti. Intorno al 15° lavoro di Nick Cave e dei Bad Seeds ruotano una serie di eventi che con molta probabilità hanno influenzato la realizzazione dell’album. Anzitutto è il primo senza il polistrumentista Mick Harvey, compagno di avventura di Nick Cave fin dai tempi del liceo. Insieme fondarono i The Boys Next Door, ribattezzati dopo pochi anni i The Birthday Party, dalle cui ceneri nacquero successivamente i Bad Seeds. Ma se qualcosa è andato perduto, altre cose si sono invece consolidate. Parliamo dell’esperienza di Nick Cave come compositore di colonne sonore e come leader dei Grinderman, la garage band fondata nel 2006 con Warren Ellis, Martyn P. Casey e Jim Sclavunos (tutti e tre componenti dei Bad Seeds) con cui Nick Cave ha già inciso due dischi. In realtà lo stesso Cave ha affermato, nel corso di un concerto in Australia nel dicembre 2011, che l’esperienza dei Grinderman è già finita. Ma è difficile stabilire se fosse serio o scherzasse, anche considerato che l’annuncio si è concluso con la frase “Ci rivediamo tra 10 anni, quando saremo ancora più vecchi e brutti”.
È comunque da questi tre episodi che si definiscono i contorni di Push The Sky Away. Il 15° album di Nick Cave segna infatti un punto di rottura rispetto al passato. Affonda le radici nello stile più soffuso della colonna sonora. È introspettivo, apparentemente scarno (per fare rumore ci sono sempre i Grinderman). Ma attenzione. L’intimismo di Push The Sky Away è molto diverso da quello di album iperpersonali come No More Shall We Part o The Boatman’s Call. Questi ultimi, ma in generale tutti i lavori targati Cave, non potevano esistere senza un pubblico. Che si trattasse di preghiere rivolte a Dio, di dichiarazioni d’amore alla propria donna, di invettive e minacce, Nick Cave ha sempre puntato il dito verso qualcuno. Anche con un ostentato esibizionismo. Stavolta non è così. Push The Sky Away si contorce su se stesso. La sua forza è centripeta. Scorre con un moto circolare che, anche là dove accelera, non raccogliere mai tanta energia da schizzare oltre i confini del più profondo io. Il confine che Cave e soci hanno stabilito per il loro ultimo lavoro.
E così, la voce di Nick Cave parla a se stesso tra suoni stranianti. Tanto ripetitivi da poterci rimettere l’orologio. Regnano loop e delay. Come tarli che rodono la testa. Ad accomunare i brani è una costante tensione, a volte più tagliente, altre volte più riflessiva, ma sempre contenuta. A caratterizzarli è il richiamo ai vecchi canti di schiavi nelle piantagioni o i rumori monotoni e alienanti delle catene di montaggio delle fabbriche. Effetti utilizzati soprattutto in brani come We No Who U R, Finishing Jubilee Street e la straziata Higgs Boson Blues.
Come sempre Nick Cave si lascia ispirare da storie umane. Racconta personaggi, apparentemente senza scrupoli, quasi sempre disperati, ma sempre e comunque reietti. Ma usa uno stile narrativo meno lineare di quello a cui ci ha abituati, prediligendo piuttosto l’uso di immagini e sensazioni.
Jubilee Street è la traccia che più risponde alla classica forma canzone, la più facile da approcciare, in fin dei conti la più gradevole, grazie anche al tratto sicuro del violino di Warren Ellis che ne dipinge i contorni.
Ma è con l’ultima traccia, quella che dà il titolo all’album, che Nick Cave lascia il segno più profondo. Le sue ultime parole sono come un testamento, racchiuso in un lento e straniante requiem accompagnato da un coro di voci bianche. E ci dicono che anche se “Some people/Say it's just rock'n roll/Oh but it gets you/Right down to your soul/You've got to just/Keep on pushing/Keep on pushing/Push the sky away”.
Lucia Conti*
La clip uncensored di Jubilee Street è qui
----------
* L’uscita di Push The Sky Away ha catalizzato l’attenzione dei media. Nick Cave è l’artista del momento. Ma prima ancora che musicista da copertina è cantautore profondo, indigesto e tenebroso, non impostore compiacente e presenzialista. La sua nuova pubblicazione non poteva essere trattata con approssimazione ma con perizia chirurgica. E per eseguire un tale delicato intervento, “el currandero” – per la prima volta – ha lasciato il posto al primario di chirurgia. Anzi alla primaria. Il pezzo è di Lucia Conti, giornalista professionista, “caveologa” integralista e “yorkeologa” praticante. Grazie Lu per aver scelto questo posto.
Partiamo dai fatti. Intorno al 15° lavoro di Nick Cave e dei Bad Seeds ruotano una serie di eventi che con molta probabilità hanno influenzato la realizzazione dell’album. Anzitutto è il primo senza il polistrumentista Mick Harvey, compagno di avventura di Nick Cave fin dai tempi del liceo. Insieme fondarono i The Boys Next Door, ribattezzati dopo pochi anni i The Birthday Party, dalle cui ceneri nacquero successivamente i Bad Seeds. Ma se qualcosa è andato perduto, altre cose si sono invece consolidate. Parliamo dell’esperienza di Nick Cave come compositore di colonne sonore e come leader dei Grinderman, la garage band fondata nel 2006 con Warren Ellis, Martyn P. Casey e Jim Sclavunos (tutti e tre componenti dei Bad Seeds) con cui Nick Cave ha già inciso due dischi. In realtà lo stesso Cave ha affermato, nel corso di un concerto in Australia nel dicembre 2011, che l’esperienza dei Grinderman è già finita. Ma è difficile stabilire se fosse serio o scherzasse, anche considerato che l’annuncio si è concluso con la frase “Ci rivediamo tra 10 anni, quando saremo ancora più vecchi e brutti”.
È comunque da questi tre episodi che si definiscono i contorni di Push The Sky Away. Il 15° album di Nick Cave segna infatti un punto di rottura rispetto al passato. Affonda le radici nello stile più soffuso della colonna sonora. È introspettivo, apparentemente scarno (per fare rumore ci sono sempre i Grinderman). Ma attenzione. L’intimismo di Push The Sky Away è molto diverso da quello di album iperpersonali come No More Shall We Part o The Boatman’s Call. Questi ultimi, ma in generale tutti i lavori targati Cave, non potevano esistere senza un pubblico. Che si trattasse di preghiere rivolte a Dio, di dichiarazioni d’amore alla propria donna, di invettive e minacce, Nick Cave ha sempre puntato il dito verso qualcuno. Anche con un ostentato esibizionismo. Stavolta non è così. Push The Sky Away si contorce su se stesso. La sua forza è centripeta. Scorre con un moto circolare che, anche là dove accelera, non raccogliere mai tanta energia da schizzare oltre i confini del più profondo io. Il confine che Cave e soci hanno stabilito per il loro ultimo lavoro.
E così, la voce di Nick Cave parla a se stesso tra suoni stranianti. Tanto ripetitivi da poterci rimettere l’orologio. Regnano loop e delay. Come tarli che rodono la testa. Ad accomunare i brani è una costante tensione, a volte più tagliente, altre volte più riflessiva, ma sempre contenuta. A caratterizzarli è il richiamo ai vecchi canti di schiavi nelle piantagioni o i rumori monotoni e alienanti delle catene di montaggio delle fabbriche. Effetti utilizzati soprattutto in brani come We No Who U R, Finishing Jubilee Street e la straziata Higgs Boson Blues.
Come sempre Nick Cave si lascia ispirare da storie umane. Racconta personaggi, apparentemente senza scrupoli, quasi sempre disperati, ma sempre e comunque reietti. Ma usa uno stile narrativo meno lineare di quello a cui ci ha abituati, prediligendo piuttosto l’uso di immagini e sensazioni.
Jubilee Street è la traccia che più risponde alla classica forma canzone, la più facile da approcciare, in fin dei conti la più gradevole, grazie anche al tratto sicuro del violino di Warren Ellis che ne dipinge i contorni.
Ma è con l’ultima traccia, quella che dà il titolo all’album, che Nick Cave lascia il segno più profondo. Le sue ultime parole sono come un testamento, racchiuso in un lento e straniante requiem accompagnato da un coro di voci bianche. E ci dicono che anche se “Some people/Say it's just rock'n roll/Oh but it gets you/Right down to your soul/You've got to just/Keep on pushing/Keep on pushing/Push the sky away”.
Lucia Conti*
La clip uncensored di Jubilee Street è qui
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* L’uscita di Push The Sky Away ha catalizzato l’attenzione dei media. Nick Cave è l’artista del momento. Ma prima ancora che musicista da copertina è cantautore profondo, indigesto e tenebroso, non impostore compiacente e presenzialista. La sua nuova pubblicazione non poteva essere trattata con approssimazione ma con perizia chirurgica. E per eseguire un tale delicato intervento, “el currandero” – per la prima volta – ha lasciato il posto al primario di chirurgia. Anzi alla primaria. Il pezzo è di Lucia Conti, giornalista professionista, “caveologa” integralista e “yorkeologa” praticante. Grazie Lu per aver scelto questo posto.
lunedì 11 febbraio 2013
Let The Fury Have The Hour
All’epoca della Thatcher i Clash cantavano Let fury have the hour/ Anger can be power/ Do you know that you can use it? (Venga l'ora del furore/ La rabbia può essere forza/ Sai di poterla usare?). Più che un’invettiva scagliata da quattro pallidi inglesi, Clampdown conteneva parole esasperate. Persino dall’altra parte dell’Atlantico venivano adottate da chi viveva con disgusto gli anni del conservatorismo. Liriche fiammeggianti che non hanno smesso di ardere e che oggi ritornano nel titolo di un lungometraggio particolarmente interessante.
Gli ottantasette minuti di Let The Fury Have The Hour forniscono 50 diversi punti di vista sul valore assegnato, ai giorni nostri, alla controcultura. Da dove scaturisce, da dove trae linfa, dove attecchisce e che importanza può avere per propagarsi tra l’opinione pubblica. Queste le analisi approfondite dai protagonisti dell’anticonformismo militante, alcuni musicisti, altri rapper, scrittori, registi, skater, disegnatori che hanno contribuito a sviluppare la trama del film. Tutti cercano, fondamentalmente, di rispondere a due quesiti posti dal regista D’Ambrosio. Uno è preso a prestito dalla penna di Joe Strummer, che in White Riot si chiedeva Are you going backwards or are you going forwards?. Un interrogativo che qui viene mosso al plurale in un ben più coinvolgente “Andiamo indietro o avanti?”. L’altro – “In che mondo volete vivere?” – risulta strettamente personale, ma non meno epocale.
Tra le testimonianze si distinguono quelle concesse da musicisti barricadieri come Billy Bragg, Chuck D (Public Enemy), Wayne Kramer (MC5), Ian MacKaye (Minor Threat) e Tom Morello; quella del regista indipendente John Sayles; quelle di strenue sostenitrici dei diritti civili quali Edwidge Danticat, Eve Ensler e Staceyann Chin; quelle di cattedratici del dissenso come Stephen Duncombe e Richard D. Wolff.
La pellicola è stata scritta e diretta dal “multitasking” Antonino D’Ambrosio, oggi quarantunenne, che ha vissuto (e forse subito) in prima persona l’edonismo reaganiano. Proprio questa sua diretta conoscenza del periodo, associata ad una passione incondizionata per la musica e la street art, caratterizza la materia trattata. D’Ambrosio ha visto innalzare steccati in una comunità abituata a condividere più che a dividere. Anche se per lui, il sogno americano si è palesato in tutto il suo splendore. Figlio di un muratore emigrato da Colli a Volturno (Molise), nasce e cresce in un quartiere operaio di Philadelphia. E’ lì che dopo l’elezione di Reagan respira l’esaltazione per “l’individualismo feroce” e “il consumismo sfrenato”. Negli anni ’80, buona parte dell’occidente sperimenta la progressiva rimozione del welfare state lungo l’asse politico Reagan-Thatcher, mentre nei sobborghi di grandi città risorge una rinnovata controcultura. D’Ambrosio percepisce nei linguaggi dell’arte di strada un metodo di contrasto pervasivo, una risposta creativa al potere, che tenta di contrastare l’ondata di egoismo dominante. Un intreccio tra ritmi ribelli del punk rock, raid anarchici dello skate, graffiti pirateschi e linguaggio di denuncia dell’hip-hop che guidano all’ispirazione e immunizzano al cinismo. Terminati gli studi postuniversitari con un master a New York come borsista (dove riceve ambiti riconoscimenti) D’Ambrosio scrive libri, gira diversi cortometraggi e fonda il sito non profit La Lutta NMC (www.lalutta.org) rimanendo ancorato alla cultura alternativa e indipendente. Il suo libro A Heartbeat and A Guitar: Johnny Cash and the Making of Bitter Tears (2009) riceve ottimi elogi da Jim Jarmush, Pete Seeger e Howard Zinn. Finché ai giorni nostri presenta Let Fury Have The Hour, sua prima opera cinematografica, ispirata ad un suo precedente scritto, in gran parte dedicato al musicista che più di tutti lo ha influenzato: Joe Strummer.
E’ la musica dunque, a fare da collante a immagini che si mescolano in un conglomerato di arti policrome. A far parte della colonna sonora sono, tra le altre, le deflagranti invenzioni di Rage Against The Machine, Public Enemy, Gogol Bordello, MC5, The Clash, Fugazi, Minor Threat, Manu Chao e Streetsweeper Social Club. Un manipolo di artisti che ha disintossicato, con la creatività, l’inquinamento delle politiche reazionarie di certa cultura americana (e non solo) figlia degli anni ’80.
Selezionato per l'edizione 2012 del Festival di Tribeca, il film si avvale anche dell’opera di Shepard Fairey, graphic designer noto per aver realizzato Hope, la quadricromia di Obama.
Gli ottantasette minuti di Let The Fury Have The Hour forniscono 50 diversi punti di vista sul valore assegnato, ai giorni nostri, alla controcultura. Da dove scaturisce, da dove trae linfa, dove attecchisce e che importanza può avere per propagarsi tra l’opinione pubblica. Queste le analisi approfondite dai protagonisti dell’anticonformismo militante, alcuni musicisti, altri rapper, scrittori, registi, skater, disegnatori che hanno contribuito a sviluppare la trama del film. Tutti cercano, fondamentalmente, di rispondere a due quesiti posti dal regista D’Ambrosio. Uno è preso a prestito dalla penna di Joe Strummer, che in White Riot si chiedeva Are you going backwards or are you going forwards?. Un interrogativo che qui viene mosso al plurale in un ben più coinvolgente “Andiamo indietro o avanti?”. L’altro – “In che mondo volete vivere?” – risulta strettamente personale, ma non meno epocale.
Tra le testimonianze si distinguono quelle concesse da musicisti barricadieri come Billy Bragg, Chuck D (Public Enemy), Wayne Kramer (MC5), Ian MacKaye (Minor Threat) e Tom Morello; quella del regista indipendente John Sayles; quelle di strenue sostenitrici dei diritti civili quali Edwidge Danticat, Eve Ensler e Staceyann Chin; quelle di cattedratici del dissenso come Stephen Duncombe e Richard D. Wolff.
La pellicola è stata scritta e diretta dal “multitasking” Antonino D’Ambrosio, oggi quarantunenne, che ha vissuto (e forse subito) in prima persona l’edonismo reaganiano. Proprio questa sua diretta conoscenza del periodo, associata ad una passione incondizionata per la musica e la street art, caratterizza la materia trattata. D’Ambrosio ha visto innalzare steccati in una comunità abituata a condividere più che a dividere. Anche se per lui, il sogno americano si è palesato in tutto il suo splendore. Figlio di un muratore emigrato da Colli a Volturno (Molise), nasce e cresce in un quartiere operaio di Philadelphia. E’ lì che dopo l’elezione di Reagan respira l’esaltazione per “l’individualismo feroce” e “il consumismo sfrenato”. Negli anni ’80, buona parte dell’occidente sperimenta la progressiva rimozione del welfare state lungo l’asse politico Reagan-Thatcher, mentre nei sobborghi di grandi città risorge una rinnovata controcultura. D’Ambrosio percepisce nei linguaggi dell’arte di strada un metodo di contrasto pervasivo, una risposta creativa al potere, che tenta di contrastare l’ondata di egoismo dominante. Un intreccio tra ritmi ribelli del punk rock, raid anarchici dello skate, graffiti pirateschi e linguaggio di denuncia dell’hip-hop che guidano all’ispirazione e immunizzano al cinismo. Terminati gli studi postuniversitari con un master a New York come borsista (dove riceve ambiti riconoscimenti) D’Ambrosio scrive libri, gira diversi cortometraggi e fonda il sito non profit La Lutta NMC (www.lalutta.org) rimanendo ancorato alla cultura alternativa e indipendente. Il suo libro A Heartbeat and A Guitar: Johnny Cash and the Making of Bitter Tears (2009) riceve ottimi elogi da Jim Jarmush, Pete Seeger e Howard Zinn. Finché ai giorni nostri presenta Let Fury Have The Hour, sua prima opera cinematografica, ispirata ad un suo precedente scritto, in gran parte dedicato al musicista che più di tutti lo ha influenzato: Joe Strummer.
E’ la musica dunque, a fare da collante a immagini che si mescolano in un conglomerato di arti policrome. A far parte della colonna sonora sono, tra le altre, le deflagranti invenzioni di Rage Against The Machine, Public Enemy, Gogol Bordello, MC5, The Clash, Fugazi, Minor Threat, Manu Chao e Streetsweeper Social Club. Un manipolo di artisti che ha disintossicato, con la creatività, l’inquinamento delle politiche reazionarie di certa cultura americana (e non solo) figlia degli anni ’80.
Selezionato per l'edizione 2012 del Festival di Tribeca, il film si avvale anche dell’opera di Shepard Fairey, graphic designer noto per aver realizzato Hope, la quadricromia di Obama.
mercoledì 6 febbraio 2013
Micah Gaugh Trio - The Blue Fairy Mermaid Princess
La raccolta intitolata The Blue Fairy Mermaid Princess ripercorre un momento della carriera di Micah Gaugh fino ad oggi inedito. Un compendio di 42 minuti che ben rappresenta le 14 colossali ore di registrazioni trascurate per anni in archivio. Una frattura nel percorso artistico del musicista che va dal 1994 al 1997. Una lacuna colmata con la riproposizione di jam dal vivo e sessioni in studio riemerse grazie alla laboriosa opera di recupero svolta da Julien Fernandez – regista dell’ardita impresa nonché autore dell’artwork – che ha setacciato le incisione del triennio in questione. Un periodo che impegna Gaugh (voce, piano, sassofono), Kevin Shea (batteria) e Daniel Bodwell (contrabbasso) a misurarsi con un flusso emorragico di creatività originato dal free jazz, ma dai contorni indistinti, qualcosa che ha a che fare con il meta jazz.
Anche se parziale, la definizione allo stile è di superficie, è formale e non potrebbe essere diversamente: entrare nel merito significherebbe articolare un parere didascalico e a tratti impossibile. Il contenuto del disco è così disinvolto, affrancato da caratteri di genere, che a tratti risulta sovversivo. Gaugh non canta, non sempre, piuttosto emette vocalizzi gutturali alternati a falsetti che lamentano versi introspettivi e sentimentali in un (quasi) grammelot che si districa tra tempi rubati ad una ritmica volutamente irresoluta. E’ musica d’avanguardia, è sperimentazione che non troverà spazio tra le contemporary hit radio come tra le stazioni tematiche, perché è musica dettata dal momento, è ispirazione frenetica e visionaria trascinata da quell’interazione (quasi telepatica) che è l’improvvisazione.
Più che ambiziosa, The Blue Fairy Mermaid Princess è operazione coraggiosa che combatte la prigione degli stereotipi. Un’iniziativa rivolta a chi preferisce rifiutare il rassicurante invito del pregiudizio, nell’interesse dell’eccezione alla norma.
L’album, accreditato a Micah Gaugh Trio, uscirà per Africantape il prossimo 4 marzo.
Anche se parziale, la definizione allo stile è di superficie, è formale e non potrebbe essere diversamente: entrare nel merito significherebbe articolare un parere didascalico e a tratti impossibile. Il contenuto del disco è così disinvolto, affrancato da caratteri di genere, che a tratti risulta sovversivo. Gaugh non canta, non sempre, piuttosto emette vocalizzi gutturali alternati a falsetti che lamentano versi introspettivi e sentimentali in un (quasi) grammelot che si districa tra tempi rubati ad una ritmica volutamente irresoluta. E’ musica d’avanguardia, è sperimentazione che non troverà spazio tra le contemporary hit radio come tra le stazioni tematiche, perché è musica dettata dal momento, è ispirazione frenetica e visionaria trascinata da quell’interazione (quasi telepatica) che è l’improvvisazione.
Più che ambiziosa, The Blue Fairy Mermaid Princess è operazione coraggiosa che combatte la prigione degli stereotipi. Un’iniziativa rivolta a chi preferisce rifiutare il rassicurante invito del pregiudizio, nell’interesse dell’eccezione alla norma.
L’album, accreditato a Micah Gaugh Trio, uscirà per Africantape il prossimo 4 marzo.
domenica 3 febbraio 2013
Un Tuareg soprannominato Bombino
Davvero curiosa la vicenda di Omara Moctar, chitarrista e cantante nato in Niger trentatré anni fa.
Membro di una tribù Tuareg, lascia il paese per sfuggire al regime coloniale e all’imposizione della sharia. Ma a drammatiche partenze fanno sempre seguito fiduciosi ritorni, nella speranza di trovare la situazione cambiata in meglio. Tra la siccità endemica e il conflitto che non si esaurisce, Omara si ritrova per le mani una chitarra che è àncora di salvezza in un mare di sconforto. Sembra solo un arnese capace di distoglierlo dalle atrocità e invece si rivela la chiave per il suo futuro. Appresi i primi rudimenti, studia con un celebre chitarrista locale, Haja Bebe, mentore che lo inserisce nella propria band e gli affibbia il soprannome “Bombino”, storpiatura – chissà perché – del nostro bambino. La sua musica è sì apprezzata, ma solo da una ristretta cerchia. Omara, invece, è destinato a ben altri successi: il suo debutto sembra essere costellato da incontri fortunati in tempi nefasti e in luoghi lontani dai consueti centri dello showbiz.
Nel 2009, in viaggio nei pressi di Agadez (Sahara) il regista Ron Wyman si ritrova ad ascoltare alcuni nastri incisi da Bombino e ne rimane colpito. Si mette sulle sue tracce e lo trova mentre consuma un autoinflitto esilio in Burkina Faso, per sfuggire ad una guerra civile che non cessa e che coinvolge mortalmente due componenti della band. Bombino finisce in alcune riprese che Wyman gira per un documentario sul popolo nomade dei Tuareg e lo incoraggia a registrare con mezzi più professionali, anzi, gli produce il disco che debutta sulla sena internazionale con vasta eco. Un disco che si chiama proprio Agadez, che lacrima i tormenti dell’Africa, che ne ostenta la ruvidità ancestrale ma che poi sfocia nella spirale tensiva del blues urbano di Hendrix.
Nei mesi scorsi Bombino, con i suoi musicisti, ne ha inciso il seguito. Per farlo è andato molto lontano dalla sua terra, a Nashville, in un esilio che questa volta risulta dorato.
Prodotto da Dan Auerbach dei Black Keys, l’album è emblematicamente intitolato Nomad.
Esce il 2 aprile e più in là (il 6 dicembre) Bombino avrà modo di esibirne uno scorcio anche alla prestigiosa Carnegie Hall di New York.
Ancora una volta la musica conferma di non temere sciagure e confini.
Membro di una tribù Tuareg, lascia il paese per sfuggire al regime coloniale e all’imposizione della sharia. Ma a drammatiche partenze fanno sempre seguito fiduciosi ritorni, nella speranza di trovare la situazione cambiata in meglio. Tra la siccità endemica e il conflitto che non si esaurisce, Omara si ritrova per le mani una chitarra che è àncora di salvezza in un mare di sconforto. Sembra solo un arnese capace di distoglierlo dalle atrocità e invece si rivela la chiave per il suo futuro. Appresi i primi rudimenti, studia con un celebre chitarrista locale, Haja Bebe, mentore che lo inserisce nella propria band e gli affibbia il soprannome “Bombino”, storpiatura – chissà perché – del nostro bambino. La sua musica è sì apprezzata, ma solo da una ristretta cerchia. Omara, invece, è destinato a ben altri successi: il suo debutto sembra essere costellato da incontri fortunati in tempi nefasti e in luoghi lontani dai consueti centri dello showbiz.
Nel 2009, in viaggio nei pressi di Agadez (Sahara) il regista Ron Wyman si ritrova ad ascoltare alcuni nastri incisi da Bombino e ne rimane colpito. Si mette sulle sue tracce e lo trova mentre consuma un autoinflitto esilio in Burkina Faso, per sfuggire ad una guerra civile che non cessa e che coinvolge mortalmente due componenti della band. Bombino finisce in alcune riprese che Wyman gira per un documentario sul popolo nomade dei Tuareg e lo incoraggia a registrare con mezzi più professionali, anzi, gli produce il disco che debutta sulla sena internazionale con vasta eco. Un disco che si chiama proprio Agadez, che lacrima i tormenti dell’Africa, che ne ostenta la ruvidità ancestrale ma che poi sfocia nella spirale tensiva del blues urbano di Hendrix.
Nei mesi scorsi Bombino, con i suoi musicisti, ne ha inciso il seguito. Per farlo è andato molto lontano dalla sua terra, a Nashville, in un esilio che questa volta risulta dorato.
Prodotto da Dan Auerbach dei Black Keys, l’album è emblematicamente intitolato Nomad.
Esce il 2 aprile e più in là (il 6 dicembre) Bombino avrà modo di esibirne uno scorcio anche alla prestigiosa Carnegie Hall di New York.
Ancora una volta la musica conferma di non temere sciagure e confini.
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