venerdì 31 luglio 2009

In the spirit of Crazy Horse

John Trudell and The Bad Dog
Gravina in Puglia, 26 luglio 2009

Carismatico cantore della tradizione dei nativi americani e figura mitica dell’AIM, John Trudell si esibisce ai piedi della Basilica Cattedrale di Gravina in Puglia in uno spettacolo difficile e spigoloso. Sempre in bilico tra liriche oscure e poesie riconcilianti il 63enne poeta, cantante ed attore, propone il suo ostile songbook. Anche la musica dei suoi Bad Dog non cerca preziosismi e risulta scarna, essenziale ma ben combinata al suggestivo canto delle tribù indiane.
L’esibizione è ben lungi dal galvanizzare l’esiguo pubblico presente e la lingua, stasera, è il più temibile nemico di Trudell che solo in parte riesce a trasmettere il senso delle sue composizioni.

Appare sul palco senza troppi convenevoli dopo una breve presentazione. Statico nel suo abito grigio scuro sgualcito e monotono con il suo canto che non presenta variazioni. Nascosto dietro un paio di occhiali scuri, al centro della scena, attende l’attacco del canto tribale del fidato Milton Shame Quiltman per il sottofondo di “Crazy Horse”. E canta, o meglio recita, un mantra che richiama a “giorni selvaggi e giorni di gloria che vivono”. Non è un pezzo autobiografico ma potrebbe esserlo. John Trudell ha vissuto davvero giorni selvaggi e di gloria. Dopo aver rischiato il tutto per tutto solo per individuare uno scorcio di quell’equità appannaggio delle classi dominanti americane, oggi, il saggio artista sembra aver placato i mari tempestosi dell’odio che covano nel profondo.
Ci sono uomini che fanno la storia e uomini che la subiscono. Trudell è un esempio di uomo a metà del guado: troppo pacifico per essere considerato un temibile rivoluzionario, troppo rivoluzionario per essere considerato un patriota americano.
Cittadino statutinitense di origine sioux, John riveste per anni il ruolo di leader dell’AIM - American Indian Movement (costituito nel ‘68 per dare impulso all’emancipazione dei nativi americani) sfidando apertamente il fascismo strisciante dell’amministrazione Nixon e l’indolenza dell’interregno di Ford. Vince preziose battaglie per il riconoscimento dei diritti civili dei nativi ma, per questo, perde la sua famiglia. Anzi perde molto di più: vede la sua idea di uguaglianza, infrangersi sulle coste rocciose dell’odio più estremo e vendicativo.
A 23 anni Trudell, porta a termine un clamoroso successo guidando la popolazione indiana in una celebre invasione non-violenta. Nel 1969, infatti, gli attivisti dell’AIM si recano in California per occupare l’isola di Alcatraz, sede della famigerata prigione dismessa sei anni prima: sono venuti a conoscenza di una vecchia legge che concede agli indiani diritto di priorità sulle terre in esubero abbandonate dal governo federale. L’azione è condotta pacificamente (anche da donne, bambini ed anziani) con l’intento di trasformare l’isola in un centro culturale indiano. L’occupazione dura solo due anni ma richiama l’attenzione sull’irrisolto problema di segregazione razziale che vede, tra l’altro, i nativi costretti a campare in riserve assegnate dallo Stato. L’insediamento sull’isola rappresenta, inoltre, una pur minima ricompensa di tutta quella terra sottratta con la violenza agli indiani.
La riconosciuta capacità di condottiero porta Trudell ad essere nominato portavoce dell’AIM per i dieci anni successivi. Nel 1979 un corteo di dimostranti indiani sosta davanti all’edificio dell’FBI di Washington per protestare sull’assurda piega che sta prendendo la spregevole vicenda giudiziaria del “caso Peltier”. Anch’egli sioux, Leonard Peltier è stato accusato - ingiustamente - del duplice omicidio di due agenti dell’ufficio investigativo federale. Trudell mostra tutto il suo odio nei confronti del simbolo che rimanda a quegli ideali di giustizia e libertà che sembrano non poter appartenere alla sua gente dando fuoco alla bandiera a stelle e strisce in segno di protesta. Viene bloccato, picchiato ed arrestato dalla polizia. Ciò che avviene subito dopo è davvero ambiguo. Trudell è stato appena fermato dagli agenti quando, nel lontano Nevada, una tragica fatalità ancora tutta da accertare, provoca il rogo che distrugge l’abitazione di famiglia causando la morte di sua moglie, dei suoi tre figli e di sua suocera. Questa tragedia, però, non annienta l’identità di Trudell. Le fiamme “uccidono” l’attivista rivoluzionario ma danno vita al poeta non-violento (“scrittore” come lui stesso afferma “per rimanere connesso a questa realtà”) e cantore disallineato. Lo stesso musicista antagonista che sul palco allestito a Gravina, mostra gl’inevitabili segni di una vita fratturata. Piegato dal peso delle rappresaglie di un paese che gli ha dato i natali ma che lo rinnega, ricerca una ragione di vita nella riproposizione di quei canti addolorati che nascono da uno stato di profonda prostrazione che non concede tregua. Dolenti versi che, nel tempo, hanno trovato in Jackson Browne un produttore e in Bob Dylan un estimatore.

Nonostante l’accesso gratuito, però, di estimatori nella piazza pugliese ce ne sono davvero pochi. Ed è un peccato non vedere alcun tipo di entusiasmo per un’esibizione che avrebbe meritato maggior fortuna. Spesso introdotti da un breve parlato, i pezzi richiamano a sentimenti tanto forti quanto rari: il privilegio della ragione intesa come facoltà di pensare e di vincere l’impulsività, il rispetto per madre terra e l’abbandono della rabbia come via alla completa tolleranza. Si invoca insomma una dimensione umana non ancora raggiunta dopo millenni di evoluzione. Ma l’oratore si accorge di quella temibile barriera che è per noi italiani la lingua inglese, ostacolo per la buona riuscita del concerto. Per nulla convinto, allora, dice (in inglese, ovvio!) che il significato delle parole saprà farsi strada attraverso le emozioni, ma così non è. Altri intralci si aggiungono a parole “straniere” che non sempre colgono nel segno: i freddi campionamenti di batteria che risuonano dal palco (purtroppo la band non contempla il batterista) e i lamenti etnici del pittoresco Quiltman allontanano non poca gente. Alcuni vanno fisicamente via, altri restano lì indifferenti a brani chiaramente lontani dalla melodiche canzonette conosciute dai più.

Sulle due ballate (scaricabili gratuitamente dal sito ufficiale dell'artista) How Does Tomorrow Dream e Madness And, tratte dal doppio album “Madness and the Moremes” e su poco altro, la musica trova finalmente il giusto ritmo per rapire la piena attenzione della platea. How Does Tomorrow Dream fonda la melodia sulla tastiera di Eric Eckstein, e il suo essere su quel “they’re killing the children” stentoreo e doloroso pronunciato a più riprese da John. Madness And, invece, è un mid tempo condotto dalla telecaster rossa di Mark Schatzkamer che ricorda il piacevole sound dei Byrds.
Al resto ci pensano l’aura carismatica e la sobrietà dell’artista. Almeno per quei pochi rimasti sino al termine.

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Postilla.

I destini di Trudell e Peltier molto spesso si sono indirettamente intrecciati. Sul "caso Peltier" ci sarebbe da scrivere moltissimo ma non è questa la sede adatta. Mi sembra giusto, però, fornire alcuni indirizzi che rimandano ad una corretta trattazione dei fatti.

Nel corso di 33 anni alla vicenda giudiziaria di Peltier si sono interessati enti no-profit, importanti personalità, premi Nobel, artisti e gente comune (Amensty International, Rage Against The Machine, Little Steven, Robert Redford, Desmond Tutu, Rigoberta Menchu e migliaia di altri sostenitori famosi e non).
Attualmente è ancora possibile sostenere il Comitato in difesa di Leonard Peltier ( l’LPDC - Leonard Peltier Defense Commitee ) con donazioni volontarie. Le offerte servono a sostenere le costose spese mediche a cui Leonard è sottoposto e le spese necessarie alla sua tutela legale.
Il “caso Peltier” è stato trattato in libri, film e canzoni. Sul web il sito più completo su Peltier è Free Peltier Now

- Da leggere.
Sull’argomento è stato pubblicato in Italia il libro autobiografico “La mia danza del sole - Scritti dalla prigione” di Leonard Peltier (Fazi Editore, 2005).

- Da vedere.
E’ possibile individuare molte analogie tra la reale vita di John Trudell e il ruolo che proprio lui interpretata in “Cuore di tuono - Thunderheart” (di Michael Apted, 1992). Il lungometraggio, inoltre, offre punti di contatto con il “caso Peltier”.
Anche Robert Redford ha prodotto e prestato la voce per un film-documentario sui fatti di Pine Ridge che hanno portato alla reclusione di Peltier. Il film si chiama “Incident at Oglala - The Leonard Peltier Story” ed è disponibile solo in lingua originale.

- Da sentire.
Una vasta corrente del movimento rock si è mobilitata a più riprese per auspicare una revisione del processo che ha condannato a due ergastoli un presunto colpevole. Il primo a portare alla ribalta il caso di Peltier è stato Little Steven con “Leonard Peltier” (brano incluso nell’album Revolution, 1989). A seguire, manco a dirlo, i Rage Against The Machine con “Freedom” (tratta dall’omonimo album Rage Against The Machine, 1992).

venerdì 24 luglio 2009

Born To Rome

Bruce Springsteen and The E Street Band
Roma, 19 luglio 2009 - Stadio Olimpico

Con uno show di tre ore Bruce Springsteen si esibisce per la prima volta in carriera allo stadio Olimpico di Roma aprendo la tre giorni italiana di questo suo ultimo tour. Rinnegati gli ultimi due album, Magic e Working On A Dream, vengono riproposti molti grandi classici che hanno reso celebre l’artista del New Jersey. Nel cuore della notte il generoso ed energico performer si ricongiunge al suo pubblico più devoto con una esibizione che supera il mero aspetto artistico per approdare anche ad una dimensione fisica.
Il palco a ridosso delle prime file annulla tutti gli ostacoli tra il musicista e il suo pubblico e il rapporto empatico si rinnova anche attraverso numerose strette di mano. Al suo fianco, poi, l’imprescindibile ausilio della E Street Band porta Bruce a difendere validamente il titolo di imbattuto campione mondiale di Rock’n’Roll.

Quando Born To Run debutta nel circuito musicale, Springsteen ha 26 anni, un paio di Converse scalcagnate ai piedi, un mucchio d’idee in testa e una travolgente passione nel cuore. Una passione capace di fargli conquistare – ben al di là di ogni più rosea aspettativa – lo status di indiscusso eroe del rock ’n’ roll. È con Born To Run, infatti, che il musicista mette a fuoco sogni e disillusioni di giovani vagabondi alla deriva ma ancora capaci di scorgere un barlume di speranza in un futuro favorevole. Se invece di essere un disco fosse un film (e a tratti pare davvero uno script cinematografico) la scena madre sarebbe individuabile in quella magistrale immagine della coppia che si lascia alle spalle la città per camminare verso il caldo abbraccio e il fulgore dei raggi del sole, metafora di un domani più rassicurante.
Una vita dopo Bruce Springsteen è un artista affermato, ha da tempo rottamato le vecchie Converse, la sua vena creativa si è un po’ inaridita ma dal suo animo sgorga ancora veemente quella passione che lo rende musicista di primo piano (si veda la sua odierna influenza su molteplici artisti), performer imbattibile (si assista anche solo ad un suo concerto a caso) e uomo sensibile al sociale (è noto il suo impegno in numerose cause benefiche).
Born To Run è ancora oggi una presenza fissa nei suoi show, Bruce è prossimo ai sessanta e se non fosse per la convinzione espressa nell’esecuzione del brano, potrebbe tranquillamente essere scambiato per un attempato riccone che blatera di eventi lontani anni luce dalla sua vita. Ma il rischio non sussiste: Born To Run non è più sua. O meglio oggi, forse, è più del suo pubblico che sua. Quando a Roma le luci illuminano tutti i 40.000 e passa presenti (molti dei quali giovanissimi) l’ennesima riproposizione di quello che è l’inno internazionale del rock ’n’ roll viene cantato all’unisono come fosse un’invocazione, una richiesta accorata di quel barlume di speranza individuata dai protagonisti del noto brano. E per almeno cinque minuti tutti sognano di essere vagabondi che camminano nel sole.
Il concerto romano, anzi l’intero tour, fa leva sul risveglio di emozioni che gli ultimi Magic (2007) e Working On A Dream (2009) non possono suscitare. Si punta tutto, allora, sulla proposta di inossidabili brani della produzione passata a scapito di queste due modeste pubblicazioni. La novità, insomma, è che non ci sono novità. Vengono propagandati solo tre pezzi recenti: Outlaw Pete, Working On A Dream e su richiesta Surprise Surprise (Magic, addirittura, non è affatto rappresentato). Bruce è costretto a sbugiardare se stesso mortificando l’avventata scelta di dare alle stampe due album praticamente brutti che non apportano linfa allo show.

I momenti migliori di questo primo concerto italiano sono quelli che recuperano i cavalli di battaglia. Mezzo prezzo del biglietto viene consumato dalla durissima Badlands (che infonde energia a tutti i fans più accaniti, in coda da giorni) ,perfetto esempio di battesimo del fuoco, una No Surrender che ripropone sui megaschermi immagini amarcord della leggendaria E Street Band (con l’organista Federici ancora in vita), una Seeds da brivido, sporca e ringhiata proprio come ai bei tempi, e una felicissima You Can't Sit Down (“from Ciccio to Ciccio, my old friend!”).
Altri componimenti storici quali Johnny 99 e Atlantic City risuonano a cavallo della mezzanotte. Mostrano chiaramente la capacità di una band in grado di dialogare col blues così come di esprimere al meglio quel country rock tanto caro allo Springsteen memore della lezione dei Creedence.
Raise Your Hand, un R&B del passato, lascia il mattatore libero di scorrazzare su e giù per il palco e fa il paio con Hungry Heart la cui apertura, come di consueto, viene affidata alle ugole di un divertito pubblico. Affettuoso, invece, si rivela il gesto di provare a far cantare il refrain di Waitin’ On A Sunny Day, ad un bimbo che proprio non ci riesce. Bello il ripescaggio di Pink Cadillac, testo allusivo e struttura honky tonk per un brano ripreso anche dal “Killer” Jerry Lee Lewis.
Ormai parte integrante dello show, il momento del jukebox ha un ruolo centrale. Tra la selva di cartelli che vengono letteralmente lanciati su Springsteen da ogni angolo del pit (lo spazio sotto il palco riservato ai primi mille arrivati) vengono estratte I’m On Fire, regalata ad una incredula ragazza prossima al matrimonio, e una Surprise Surprise che da un lato rende glorioso il compleanno di una conterranea del Boss presente tra il pubblico, dall’altro getta nello sconforto i “seguaci” di vecchia data (non a torto!). Prove It All Night, qui un po’ scolastica, è sempre meravigliosa e regala al pubblico un assolo di Nils Lofgren complesso e vivace.
La band è indiscutibilmente in palla e Max Weinberg brilla di luce propria dietro la batteria, mentre un rinato Steve Van Zandt sembra vestire, come un tempo, i panni della vera spalla di Bruce a causa della prolungata assenza di Patti Scialfa (moglie e più o meno musicista/corista della band).
Sul finire del main set risuona American Skin, inaspettata e dolorosa come un pugno improvviso allo stomaco molle e indifeso. Viene eseguita per la seconda volta in questo tour. Springsteen ha passato i guai per averla fatta esordire nel glorioso tour del ricongiungimento artistico con la E Street Band.

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mercoledì 8 luglio 2009

4th Of July, Alberobello (Patti)

Patti Smith Acoustic Trio
Alberobello, 4 luglio 2009 - Piazza Indipendenza


In un incantevole scenario architettonico e naturale, Patti Smith regala per un’ora e mezza un’intensa ed appassionata rivisitazione in chiave acustica dei suoi brani. Al chiaro di luna, racconti di vita, morte e resurrezione si vestono di musica e compenetrano sotto pelle come un antidoto salvifico, tra ballate spettrali e rock ’n’ roll impareggiabili. L’artista veste i congeniali panni di sacerdotessa e protagonista assoluta, Lenny Kaye quelli di guitar man e amico fraterno, e Jesse Smith di musicista esordiente e figlia. Il pubblico, invece, ricopre il ruolo di testimone ed esterrefatto comprimario di una serata storica. Assieme alle registrazioni di altri tre concerti, quella pugliese verrà pubblicata in un disco live. Una volta di più, Alberobello è patrimonio mondiale dell’umanità.

Sono le 22 esatte quando Patti Smith entra in scena per aprire questa terza edizione della manifestazione Primitivo Festival - la provincia dei suoni, che coniuga arte e turismo e che mira a richiamare presenze nei luoghi incantevoli della provincia barese con l’avvento di artisti internazionali.
Con il suo gentile incedere l’immancabile Lenny Kaye, longilineo e ormai quasi canuto, compare al fianco della musicista e poetessa americana. Lei, sorridente nei suoi blue jeans infilati in stivali texani e con la chitarra a tracolla, esordisce con un timido ma preciso “Buonasera”.
Con serenità mista a rassegnazione, una nenia dolce e malinconica, apre il concerto. Si tratta di un nuovo componimento offerto alla memoria dello scomparso Michael Jackson. Un pre-set onirico, quasi astratto dal contesto passionale nel quale si svilupperà lo spettacolo.
Patti Smith mito ribelle degli anni ’70, è al centro di un palco spoglio che contempla solo un fondale nero con la riproposizione del logo del festival ospitante ed essenziali fasci di luce ad illuminare la scena. La sua figura, tutt’altro che curata, catalizza lo sguardo della muraglia umana che le si para di fronte e che è stipata in ogni anfratto dell’anfiteatro. Dopo Radio Baghdad, eseguita solo dalla Smith e da Kaye, Jesse Smith fresca dei suoi 22 anni (presentata semplicemente come “my daughter”) fa il suo ingresso sul palco.

Parte l’accompagnamento al piano per Grateful, poi l’aria s’impregna delle dolenti atmosfere di Birdland: i tasti suonano una melodia solenne, la chitarra insegue note altissime e la voce rincorre l’interminabile testo e all’ennesimo “where we are not human, we’re not human”, Patti lascia partire un primo spurgo di saliva. My Blakean Year mostra una Smith capace di tenere sempre alta l’attenzione del pubblico (abilità rara quando lo show è acustico), ma per non rischiare troppo, Redondo Beach vira verso l’allegro motivo affidato all’organo di Jesse e alla chitarra aggiunta di Mike Campbell, suo compagno di vita, che si aggrega al trio. Testo lugubre per un ritmo reggae che si addice al battimani ritmato del pubblico.
Nell’ipnotica Ghost Dance c’è gloria anche per Lenny, che canta qualche verso smussando il ritornello con la sua vocalità dolce, perfetto contraltare ai toni spigolosi della sacerdotessa “maudit”. Lei spesso canta in trance, spesso cerca il non limite del cielo aperto, spesso accompagna i versi con gesti sinuosi, sbraita e scalcia come un mulo, sembra una debuttante eppure calca i palcoscenici che contano da oltre trent’anni (era il 1975 quando ancora giovane appariva su Horses nel bianco e nero a cura dell’amico fraterno Mapplethorpe). Calcoli anagrafici a parte, l’inesorabile luminosità del palco rende evidente un dato di fatto: Patti Smith è vecchia. E la sua vecchiaia viene ostentata senza indugi. Quello che futilmente pare un limite nell’odierno showbiz, è al contrario, il suo punto di forza. È un’artista, non una diva. La sua immagine è di una brutale essenzialità e riflette senza alcun gioco di prestigio l’immagine di una donna di 62 anni. La mostra come dovrebbe essere, senza temere l’evidente ricrescita di capelli perennemente in disordine, senza trucco su occhi contornati da rughe, senza artifici posati sul o nel viso ormai vinto dal tempo e assalito dalla peluria, e senza timore d’inforcare occhiali (tondi e fuori moda) per correggere la vista. Al contrario di molte sue colleghe – e ahimè molti colleghi – è perentorio il divieto di utilizzo di espedienti volti ad ingannare. Ecco, dunque, l’antidiva per eccellenza mostrare il suo naturale declino fisico in tutta sincerità. Uno stile che, con le dovute differenze, richiama quello dell’attrice Anna Magnani, capace di rimproverare una truccatrice che prima di un ciak intendeva coprire quelle che a lei sembravano rughe, ma che in realtà erano racconti di vita. Così pure per la Smith: ogni piega una sofferenza, ogni solco del viso scavato da lacrime amare per la perdita di marito, parenti e compagni di viaggio.

Ma per eroi ed eroine attraversare la tempesta è un obbligo da affrontare con dedizione alla causa. Il fardello di tramandare la stirpe di poeti, maledetti e audaci che va da Rimbaud a Ginsberg, risolleva lo spirito di una donna affranta ma non sconfitta. Una che con slancio ha ripreso un percorso interrotto prima volontariamente (per costruirsi una famiglia) e poi forzosamente (quando la famiglia faticosamente costruita ha perso un cardine con la morte, nel 1994, del marito Fred “Sonic” Smith, già chitarrista degli MC5). Un percorso senza via d’uscita che la veicola nuovamente nel vortice dell’arte. Quel vortice che l’ha condotta in questo piccolo e splendido borgo della provincia barese, dove, per la conclusione dello show, raccoglie ovazioni e gratitudine che ricambia con una passeggiata in platea su Dancing Barefoot. Non è più giovane ma è ancora destinata a cantare l’amore (Because The Night, e questa la sanno pure i trulli), la speranza (People Have The Power) la delusione (la splendida Pissing In A River), il desiderio (Gloria). Recita di anime in pezzi marcite nella disperazione e di ferite rabberciate in qualche modo (proprio in Dancing Barefoot). Per la sua stirpe ogni tempesta muta in arcobaleno, ogni dolore muta in sofisma, in una sorta di congiungimento al nirvana.La sua vecchiaia non ha placato la sua irrequietezza, perché ancora sputa come il codice del movimento punk prescrive e perché, insofferente, punta i pugni ad un cielo che pare voler tirare giù e inchiodare al terreno per annullare un limite invalicabile, con l’intento di disarcionare ipotetici dèi dal loro potere e imporgli un solo giorno di sofferenze su questa terra. La sua autentica aura da bohémien è comprovata da un evento accaduto nel pomeriggio, dopo il soundcheck. Si concede un piccolo giro turistico con l’intento di visitare una minuscola chiesa. Incuriosita dal gruppetto di gente ferma sul sagrato, una giovane famiglia di passaggio si ferma e l’attende. Lei li nota e quasi timidamente chiede il permesso di immortalarli con una foto (“un ricordo da conservare”) che scatta con la sua mitica Polaroid. Esempio sbalorditivo della sua curiosità per persone in cui s’imbatte e per luoghi che l’accolgono. Così come è sorprendente l’improvvisato augurio cantato sul palco (con tanto di “Happy Birthday” intonato in coro da tutto il pubblico) a Stefano, suo locale assistente che è nato il 4 luglio. “Negli U.S.A. il 4 di luglio è il Giorno dell’Indipendenza – dice – e proprio adesso stanno sparando i fuochi d’artificio. È la data designata a celebrare la libertà”, e parte una coinvolgente People Have The Power. Ed è festa, perché nessuno più resta seduto: tutti si riversano sotto il palco richiamati da un’enorme forza invisibile. Ma il lato scapigliato del carattere della Smith non penalizza in alcun modo la professionalità. Lo show, infatti, dev’essere perfetto non solo perché finirà su disco, ma perché il rispetto per il pubblico è sacro. Ed allora, subito dopo Grateful, richiama l’attenzione con un ibrido “Scusè” e chiede al tecnico del suono (che chiama Michele, per nome!) di dare più volume al piano (“Jesse need more piano”) e più spessore alla voce (“and I need a little more vocal”) cosicché la platea possa godere appieno della performance. E conclude con un goffo “Grassie, grassie”. Con la dolce Wing dedicata alla figlia Jesse e a “tutti i bambini in cui è riposta la speranza per un futuro migliore” e l’ardente Gloria (ecco le immagini), si conclude un rito catartico, più che un concerto. Già Signora Smith, non è solo negli States adesso che i botti pirotecnici stanno illuminando la notte. Per una serie di coincidenze, infatti, viene in mente una grande canzone di Springsteen [4th Of July, Asbury Park (Sandy)], che adeguatamente corretta nel nome della protagonista e del luogo sarebbe una perfetta sintesi della serata: “Patti, i fuochi d’artificio scintillano su Alberobello in questo 4 di luglio”.
La "Godmother of Punk", a 62 anni, è poetica, avvincente e più giovane che mai.

Report per Revolving Doors.