Anche Bruce Springsteen ha i suoi spettri e con essi, ultimamente, ha deciso d’ingaggiare un duello all’ultimo sangue. E’ da più di trent’anni che sistematicamente accenna alla creazione di Phil Spector: quel “Wall of Sound”, sorta di ridotta sinfonia adattata al pop, che mai è riuscito ad integrare appieno nelle proprie incisioni. Almeno fino a “Working On A Dream”, decimo album in studio con la mitica E Street Band. Le pompose orchestrazioni disseminate ovunque, questa volta, dovrebbero esserci tutte. E questa più che una certezza è un augurio.
Molti brani di questo nuovo lavoro sono scaturiti dalle sessions tenute per l’immediato precursore, il modesto “Magic”. Analoghi negli arrangiamenti, fortemente legati ad atmosfere pop, i due album si differenziano per i racconti in gran parte espressi con toni distesi e leggeri: il musicista un tempo prigioniero del Rock (and Roll) di denuncia, qui pare posseduto dal fuggevole stato d’animo della felicità.
Vagoni carichi di imbarazzante positività, infatti, attraversano il suo nuovo album, gran parte dei componimenti sembrano ostaggio di un eccessivo buonismo: la caduta del guerrafondaio regime dei neocon negli U.S.A. deve aver ispirato a Springsteen (direttamente coinvolto nella campagna elettorale pro-Obama) uno sfrenato ottimismo. Ma è lo stesso musicista a raccontare attraverso il suo web site ufficiale la genesi dell’album. “Al termine delle registrazioni per “Magic”, scrive Bruce, “eccitato da ritrovate sonorità pop, ho continuato a scrivere. Quando il mio amico e produttore Brendan O’Brien ha ascoltato le nuove canzoni mi ha chiesto di continuare”.
Questa affermazione, dopo aver ascoltato l’album, pare una sorta di dichiarazione di difesa a proprio carico, come se, insoddisfatto del risultato, Springsteen cercasse una giustificazione all’incauta pubblicazione.
La storia di Springsteen è piena zeppa di episodi riguardanti la fecondità di certe sessioni di registrazione (che spesso hanno fruttato al compositore materiale sufficiente per due album) senza che questi sentisse l’urgenza di propinare outtakes al devoto pubblico.
Ci sarà dell’altro? Come non citare l’odierna norma imperante nel marketing che impone agli artisti una sovraesposizione mediatica? Come non menzionare l’innaturale prolificità che costringe gli autori a pubblicare album incompiuti e fuori dagli abituali standards qualitativi? Simili imposizioni non danno l’impressione di infastidire l’uomo ormai avvezzo a certe dinamiche di mercato (si pensi al Gratest Hits in commercio esclusivamente presso i Wal-Mart Stores e all’esibizione nell’intervallo del Super Bowl), ma sembrano arrecare grave danno all’opera dell’artista. Il nome di Springsteen è sempre stato legato ai leggendari tempi biblici necessari a comporre, suonare, produrre e mixare un disco. Pare che oggi Bruce sia, se non legato a quel ricco contratto che gl’impone di sfornare dischi a ripetizione (motivo in rete di narrazioni favolose), perlomeno assuefatto alla regola del meglio un album discreto oggi, che un album sudato e realizzato nei tempi giusti, domani.
Al di là dell’iperproduzione degli ultimi dieci anni va chiarito un fatto: “Working On A Dream” non scalfisce la reputazione del rocker del N.J. e non ridimensiona le vicende della sua passata discografia. Ma nemmeno conferma, tantomeno migliora, quanto di buono hanno sviluppato le sedute di registrazione per “The Rising”, primo di tre album in studio con la Band, dopo la reunion del ‘99.
Come se non bastasse, evidentemente concentrato a “lavorare ad un sogno”, Bruce si è distratto proprio nel momento della scelta per l’immagine di copertina. La grafica ha da subito provocato una moltitudine di pesanti critiche: la scandalosa elaborazione della foto di uno Springsteen sorridente ma ancora una volta con lo sguardo pervicacemente basso, si staglia su uno sfondo che riproduce per metà un cielo terso e per metà una stellata veduta notturna. C’è da domandarsi in preda a quale delirio Bruce, coadiuvato (o forse danneggiato) dal suo entourage, abbia scelto questa cover photo. Sarà sterile polemica quella sul discutibile involucro, ma anche l’occhio vuole la sua parte!
Il disco, 12 brani più una bonus track (“The Wrestler”), si apre con la storia di “Outlaw Pete”. Ambientata nella zona degli Appalachi (lì dove il bluegrass presente in “Tomorrow Never Knows” è di casa) le vicende del giovane e maledetto Pete (appunto, il fuorilegge) vengono narrate sul modello degli sconvolgenti e affascinanti testi tipici della poetica springsteeniana. Qui come in molti altri racconti adattati in strada, è l’impossibilità a mutare il corso degli eventi che argina una possibile redenzione. Il brano si trascina per ben 8 lunghi minuti senza la tanto attesa scossa elettrica. L’esperimento, non perfettamente riuscito, rischia di essere letto quale stantia retorica.
Riecheggia a tratti la somiglianza con quei metodi compositivi da tempo smarriti, presenti nei primi tre album.
Risulta positivo, tuttavia, l’incalzante intro di archi, come pure il lancinante ingresso a metà brano dell’armonica di nebraskiana memoria e il rintocco di campane sullo stile dei western musicati da Morricone. Da notare, infine, la somiglianza che presenta il brano in questione con “I was made for loving you” dei Kiss.
Anteprima lanciata gratuitamente in rete all’inizio dello scorso dicembre, “My Lucky Day”, offre le prime avvisaglie di raggiunta serenità: un raggio di limpido sole pronto ad indovinare il giusto pertugio che consente alla luce di squarciare le tenebre. Ecco palesarsi il sound distintivo di quella fantastica orchestra Rock che risponde al nome di E Street Band, capace di tessere trame che avviluppano con cura la voce di Bruce: il controcanto di Steve Van Zandt e il sax di Clarence Clemons, chiudono il cerchio, ponendo sulla musica l’inimitabile sigillo della E Street Band.
“Working On A Dream” è forse la summa di tutto il disco. Una pop song troppo sontuosa con espliciti richiami alla farraginosa produzione di “Magic” e che, con uno spensierato fischio nel mezzo e lo smisurato ottimismo, si rende irrimediabilmente antipatica.
Dopo “Lost in Supermarket” dei Clash, un’altra drogheria s’insinua tra i testi di un racconto in musica: “Queen Of Supermarket” spiazzante storia caratterizzata da quella universalità che ha reso note in ogni angolo del mondo le immagini dipinte da Springsteen.
In prestito dalla quotidianità che si compie nelle “strade secondarie”, la semplice architettura delle liriche riporta in versi il più articolato tra tutti i sentimenti. E’ l’amore solo intenzionale che l’io narrante sente nel proprio intimo per la cassiera di un supermarket. “Per un momento il suo sguardo incrocia il mio” canta Bruce “e mi sento risollevato”.
Ritmo marchiato a fuoco dal rovente sigillo della E Street Band quello di “What Love Can Do”, dove si torna ad esplicitare il tema dell’amore. Gran beat, belle chitarre, armonica e cori che conquistano al primo ascolto: nessun timore ad alzare il volume dei diffusori per udire un branding impresso solo in questo brano.
Atmosfere sixties nell’inno alla vita “This Life”. Smisurato moralismo e pop senza pretese per una canzone tutto sommato inutile.
Diretto discendente di lavori recenti (“Reason To Believe” nella versione live dell’ultimo tour e “A Night With The Jersey Devil”) “Good Eye” è un piacevole blues che nel basso pulsante di Tallent, ricorda la ruvida versione live di “Spare Parts”.
E’ una dissetante sorsata di acqua fresca, invece, quella bevuta grazie a “Tomorrow Never Knows”. Due minuti di bluegrass in cui lo stile slide della chitarra di Lofgren e il violino della Tyrrell primeggiano sugli altri strumenti. Felicissimo episodio in cui i musicisti recuperano acqua da altro fiume in piena, proprio quando del vecchio corso non è rimasto che un arido greto.
Ecco come Bruce e la Leggendaria potrebbero aprirsi ad altri generi. Il country, in parte esplorato dal solo Springsteen con la Session Band, potrebbe essere un buon viatico per esprimere - oggi - tutto il potenziale vantato dai musicisti della E Street.
“Life Itself” (altro brano debuttante in rete per volere dell’autore) è un episodio piuttosto debole e “Kingdom Of Days” e “Surprise, Surprise” sono i punti più bassi dell’opera.
Ma il riscatto è dietro l’angolo: “The Last Carnival”, dedicata al compianto Danny “Phantom” Federici, è una splendida ballata (“Sing a hymn over your bones”). La ferita, ancora aperta per una perdita così importante, duole e la sofferenza si racconta meglio con una voce vissuta, voce di un uomo non ancora uscito dal tunnel dei tormenti (“Where are you now handsome Billy?”). Tono greve, come ai tempi di “The Ghost Of Tom Joad”, per un sommesso canto che s’incastra alla perfezione tra la chitarra acustica lievemente pizzicata e la fisarmonica suonata da Jason Federici (il figlio di Danny). Difficile buttar giù il nodo che spontaneo stringe la gola quando, sul liberatorio finale, il dolore viene esorcizzato dal coro a cappella che intona un canto quasi tribale.
L'ormai nota “The Wrestler” è un’altra pugnalata inferta ad un cuore già sanguinante. Vincitrice del Golden Globe quale “Best Original Song - Motion Picture category”, la canzone concorrerà ai prossimi Oscar nella suddetta categoria. Commissionato per l’omonimo film da Mickey Rourke stesso a Springsteen, il brano è scarno, dolente e lascia senza fiato per la genuinità e la disillusione con cui il narratore racconta le vicissitudini della propria esistenza (“Have you ever seen a one-legged dog making his way down the street?/ If you've ever seen a one-legged dog then you've seen me”). La solita triste storia, insomma, dell’uomo che appena nato ha “preso il primo calcio nel toccare terra” e che, pare non aver subito abbastanza. A sublimare il brano ci pensa Roy Bittan con una struggente partitura di pianoforte.
Grazie a queste ultime due tracce (e a poco altro) Bruce salva un album alla deriva, cambiando le coordinate impostate per la rotta. Dal vacuo pop al cantautorato di qualità: è così che il veliero riparte con il vento in poppa verso il caldo sole nascente.
E adesso, il tour!
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3 commenti:
si ti ponzo poddighe.....
Hey Giapo,
when the built you brother, they broke the mold!
Anonimo,
w la Saldígna!
Non vogliamo spiegare il significato anche al resto d'Italia? ;-)
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