lunedì 19 gennaio 2009

Working on ... a dream of life

Ci sono fantasmi del passato che periodicamente ritornano e che andrebbero affrontati una volta per tutte.
Anche Bruce Springsteen ha i suoi spettri e con essi, ultimamente, ha deciso d’ingaggiare un duello all’ultimo sangue. E’ da più di trent’anni che sistematicamente accenna alla creazione di Phil Spector: quel “Wall of Sound”, sorta di ridotta sinfonia adattata al pop, che mai è riuscito ad integrare appieno nelle proprie incisioni. Almeno fino a “Working On A Dream”, decimo album in studio con la mitica E Street Band. Le pompose orchestrazioni disseminate ovunque, questa volta, dovrebbero esserci tutte. E questa più che una certezza è un augurio.

Molti brani di questo nuovo lavoro sono scaturiti dalle sessions tenute per l’immediato precursore, il modesto “Magic”. Analoghi negli arrangiamenti, fortemente legati ad atmosfere pop, i due album si differenziano per i racconti in gran parte espressi con toni distesi e leggeri: il musicista un tempo prigioniero del Rock (and Roll) di denuncia, qui pare posseduto dal fuggevole stato d’animo della felicità.
Vagoni carichi di imbarazzante positività, infatti, attraversano il suo nuovo album, gran parte dei componimenti sembrano ostaggio di un eccessivo buonismo: la caduta del guerrafondaio regime dei neocon negli U.S.A. deve aver ispirato a Springsteen (direttamente coinvolto nella campagna elettorale pro-Obama) uno sfrenato ottimismo. Ma è lo stesso musicista a raccontare attraverso il suo web site ufficiale la genesi dell’album. “Al termine delle registrazioni per “Magic”, scrive Bruce, “eccitato da ritrovate sonorità pop, ho continuato a scrivere. Quando il mio amico e produttore Brendan O’Brien ha ascoltato le nuove canzoni mi ha chiesto di continuare”.
Questa affermazione, dopo aver ascoltato l’album, pare una sorta di dichiarazione di difesa a proprio carico, come se, insoddisfatto del risultato, Springsteen cercasse una giustificazione all’incauta pubblicazione.
La storia di Springsteen è piena zeppa di episodi riguardanti la fecondità di certe sessioni di registrazione (che spesso hanno fruttato al compositore materiale sufficiente per due album) senza che questi sentisse l’urgenza di propinare outtakes al devoto pubblico.

Ci sarà dell’altro? Come non citare l’odierna norma imperante nel marketing che impone agli artisti una sovraesposizione mediatica? Come non menzionare l’innaturale prolificità che costringe gli autori a pubblicare album incompiuti e fuori dagli abituali standards qualitativi? Simili imposizioni non danno l’impressione di infastidire l’uomo ormai avvezzo a certe dinamiche di mercato (si pensi al Gratest Hits in commercio esclusivamente presso i Wal-Mart Stores e all’esibizione nell’intervallo del Super Bowl), ma sembrano arrecare grave danno all’opera dell’artista. Il nome di Springsteen è sempre stato legato ai leggendari tempi biblici necessari a comporre, suonare, produrre e mixare un disco. Pare che oggi Bruce sia, se non legato a quel ricco contratto che gl’impone di sfornare dischi a ripetizione (motivo in rete di narrazioni favolose), perlomeno assuefatto alla regola del meglio un album discreto oggi, che un album sudato e realizzato nei tempi giusti, domani.

Al di là dell’iperproduzione degli ultimi dieci anni va chiarito un fatto: “Working On A Dream” non scalfisce la reputazione del rocker del N.J. e non ridimensiona le vicende della sua passata discografia. Ma nemmeno conferma, tantomeno migliora, quanto di buono hanno sviluppato le sedute di registrazione per “The Rising”, primo di tre album in studio con la Band, dopo la reunion del ‘99.

Come se non bastasse, evidentemente concentrato a “lavorare ad un sogno”, Bruce si è distratto proprio nel momento della scelta per l’immagine di copertina. La grafica ha da subito provocato una moltitudine di pesanti critiche: la scandalosa elaborazione della foto di uno Springsteen sorridente ma ancora una volta con lo sguardo pervicacemente basso, si staglia su uno sfondo che riproduce per metà un cielo terso e per metà una stellata veduta notturna. C’è da domandarsi in preda a quale delirio Bruce, coadiuvato (o forse danneggiato) dal suo entourage, abbia scelto questa cover photo. Sarà sterile polemica quella sul discutibile involucro, ma anche l’occhio vuole la sua parte!

Il disco, 12 brani più una bonus track (“The Wrestler”), si apre con la storia di “Outlaw Pete”. Ambientata nella zona degli Appalachi (lì dove il bluegrass presente in “Tomorrow Never Knows” è di casa) le vicende del giovane e maledetto Pete (appunto, il fuorilegge) vengono narrate sul modello degli sconvolgenti e affascinanti testi tipici della poetica springsteeniana. Qui come in molti altri racconti adattati in strada, è l’impossibilità a mutare il corso degli eventi che argina una possibile redenzione. Il brano si trascina per ben 8 lunghi minuti senza la tanto attesa scossa elettrica. L’esperimento, non perfettamente riuscito, rischia di essere letto quale stantia retorica.
Riecheggia a tratti la somiglianza con quei metodi compositivi da tempo smarriti, presenti nei primi tre album.
Risulta positivo, tuttavia, l’incalzante intro di archi, come pure il lancinante ingresso a metà brano dell’armonica di nebraskiana memoria e il rintocco di campane sullo stile dei western musicati da Morricone. Da notare, infine, la somiglianza che presenta il brano in questione con “I was made for loving you” dei Kiss.

Anteprima lanciata gratuitamente in rete all’inizio dello scorso dicembre, “My Lucky Day”, offre le prime avvisaglie di raggiunta serenità: un raggio di limpido sole pronto ad indovinare il giusto pertugio che consente alla luce di squarciare le tenebre. Ecco palesarsi il sound distintivo di quella fantastica orchestra Rock che risponde al nome di E Street Band, capace di tessere trame che avviluppano con cura la voce di Bruce: il controcanto di Steve Van Zandt e il sax di Clarence Clemons, chiudono il cerchio, ponendo sulla musica l’inimitabile sigillo della E Street Band.

“Working On A Dream” è forse la summa di tutto il disco. Una pop song troppo sontuosa con espliciti richiami alla farraginosa produzione di “Magic” e che, con uno spensierato fischio nel mezzo e lo smisurato ottimismo, si rende irrimediabilmente antipatica.

Dopo “Lost in Supermarket” dei Clash, un’altra drogheria s’insinua tra i testi di un racconto in musica: “Queen Of Supermarket” spiazzante storia caratterizzata da quella universalità che ha reso note in ogni angolo del mondo le immagini dipinte da Springsteen.
In prestito dalla quotidianità che si compie nelle “strade secondarie”, la semplice architettura delle liriche riporta in versi il più articolato tra tutti i sentimenti. E’ l’amore solo intenzionale che l’io narrante sente nel proprio intimo per la cassiera di un supermarket. “Per un momento il suo sguardo incrocia il mio” canta Bruce “e mi sento risollevato”.

Ritmo marchiato a fuoco dal rovente sigillo della E Street Band quello di “What Love Can Do”, dove si torna ad esplicitare il tema dell’amore. Gran beat, belle chitarre, armonica e cori che conquistano al primo ascolto: nessun timore ad alzare il volume dei diffusori per udire un branding impresso solo in questo brano.

Atmosfere sixties nell’inno alla vita “This Life”. Smisurato moralismo e pop senza pretese per una canzone tutto sommato inutile.

Diretto discendente di lavori recenti (“Reason To Believe” nella versione live dell’ultimo tour e “A Night With The Jersey Devil”) “Good Eye” è un piacevole blues che nel basso pulsante di Tallent, ricorda la ruvida versione live di “Spare Parts”.

E’ una dissetante sorsata di acqua fresca, invece, quella bevuta grazie a “Tomorrow Never Knows”. Due minuti di bluegrass in cui lo stile slide della chitarra di Lofgren e il violino della Tyrrell primeggiano sugli altri strumenti. Felicissimo episodio in cui i musicisti recuperano acqua da altro fiume in piena, proprio quando del vecchio corso non è rimasto che un arido greto.
Ecco come Bruce e la Leggendaria potrebbero aprirsi ad altri generi. Il country, in parte esplorato dal solo Springsteen con la Session Band, potrebbe essere un buon viatico per esprimere - oggi - tutto il potenziale vantato dai musicisti della E Street.

“Life Itself” (altro brano debuttante in rete per volere dell’autore) è un episodio piuttosto debole e “Kingdom Of Days” e “Surprise, Surprise” sono i punti più bassi dell’opera.

Ma il riscatto è dietro l’angolo: “The Last Carnival”, dedicata al compianto Danny “Phantom” Federici, è una splendida ballata (“Sing a hymn over your bones”). La ferita, ancora aperta per una perdita così importante, duole e la sofferenza si racconta meglio con una voce vissuta, voce di un uomo non ancora uscito dal tunnel dei tormenti (“Where are you now handsome Billy?”). Tono greve, come ai tempi di “The Ghost Of Tom Joad”, per un sommesso canto che s’incastra alla perfezione tra la chitarra acustica lievemente pizzicata e la fisarmonica suonata da Jason Federici (il figlio di Danny). Difficile buttar giù il nodo che spontaneo stringe la gola quando, sul liberatorio finale, il dolore viene esorcizzato dal coro a cappella che intona un canto quasi tribale.

L'ormai nota “The Wrestler” è un’altra pugnalata inferta ad un cuore già sanguinante. Vincitrice del Golden Globe quale “Best Original Song - Motion Picture category”, la canzone concorrerà ai prossimi Oscar nella suddetta categoria. Commissionato per l’omonimo film da Mickey Rourke stesso a Springsteen, il brano è scarno, dolente e lascia senza fiato per la genuinità e la disillusione con cui il narratore racconta le vicissitudini della propria esistenza (“Have you ever seen a one-legged dog making his way down the street?/ If you've ever seen a one-legged dog then you've seen me”). La solita triste storia, insomma, dell’uomo che appena nato ha “preso il primo calcio nel toccare terra” e che, pare non aver subito abbastanza. A sublimare il brano ci pensa Roy Bittan con una struggente partitura di pianoforte.

Grazie a queste ultime due tracce (e a poco altro) Bruce salva un album alla deriva, cambiando le coordinate impostate per la rotta. Dal vacuo pop al cantautorato di qualità: è così che il veliero riparte con il vento in poppa verso il caldo sole nascente.

E adesso, il tour!

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sabato 10 gennaio 2009

Santa Claus has come to town (part two)

Combinazione di generi se ne trova anche in "Now I Got Worry" (1996), della Jon Spencer Blues Explosion, ove la locuzione assume il suo precipuo significato.
Quest'album è un gran calcio in culo! Si parte per l'orbita (occhio, ci si arriva con la pedata) e non si rimette piede (o natica) sulla terra, se non quando il dischetto è fuori dal lettore. L’iniziale "Skunk" comincia e termina con un urlaccio (non sparare il volume dei diffusori se, insediati nei paraggi, ci sono malati di cuore), "Identify" furoreggia per un minuto e "Wail" è il perfetto brano "brutto, sporco e cattivo". Il disco, pur viaggiando su dinamiche Blues, è assolutamente non convenzionale: sono individuabili chiari riferimenti all'Hip Hop ("Fuck Shit Up"), al Blues più tradizionale ("Booketship" e "Can't Stop"), al Rock funkeggiante degli Stones ("Dynamite Lover") e addirittura alla dance (!) presente con un brevissimo inserto nel mezzo di "Eyeballin".
Cantato con estremo vigore da Jon Spencer (voce e chitarra) e suonato con ruvida potenza da Judah Bauer (l'altra chitarra) e Russel Simins (batteria), questo capolavoro si presenta in uno spartano cartonato (no testi, no booklet) con cover photo di un poco ispirato Danny Clinch (fotografo tra gli altri di Pearl Jam e Springsteen).
Album spacca tutto, da avere ad ogni costo.
Attenzione: Babbo Natale mi ha detto che è difficile da reperire nei “vecchi” negozi di dischi (per chi ancora se ne serve).

"Relish" pubblicato nel 1995, invece, è un album relativamente facile da inquadrare.
Blues e Rock dipingono la stessa tela in un’alternanza di colori caldi che ben tratteggiano uno scenario adeguato alle appassionate pennellate di Joan.
E’ un percorso altalenante, quello intrapreso dalla Osborne, che origina un quesito ancora irrisolto: cantante sfortunata o sopravvalutata? Per mia buona sorte non ho il compito di pronunciare l’ardua sentenza. Il dato di fatto è che la statunitense, con questo grande album vende - meritatamente - oltre 2 milioni di dischi e poi, con i lavori seguenti, smantella quanto edificato.
Ottimi sessionists in studio, grande produzione e un hit invidiabile (il singolone "One Of Us" ripreso anche da Prince o come cacchio si fa chiamare ora), fanno balzare in classifica e agli onori della cronaca musicale la cantante dai boccoli caramello.
Di straordinaria bellezza le malinconiche "St. Teresa" e "Pensacola"; di grande impatto il Blues di "Dracula Moon", su cui la graffiante voce di Joan finalmente si produce in tutta la sua potenza; vivace e con incursione di sax "Right Hand Man"; bello il “quasi Rock” di "Ladder" con tappeto sonoro di organo a fare da contraltare alla voce della Osborne; sbilenca e cantata alla maniera delle bad girls (del resto il titolo non lascia adito a fraintendimenti) "Let's Just Get Naked". Ancora Blues a profusione in "Help Me" con tanto di spazzole a lisciare le pelli, slide a pettinare le corde e muto soffio trasformato in vibrato dall’armonica. In evidenza la magnetica voce della volitiva Joan in "Crazy Baby" prima che la dolcissima chitarra della ballad "Lumina" chiuda il disco.
Ah, quasi dimenticavo, la versione di "Man In The Long Black Coat" (da "Oh Mercy" di tal Bob Dylan) è da antologia.
Manco a dirlo, anche qui, non c'è traccia dei testi nel libretto interno.

Per una sorta di legge della compensazione, invece, sono ben due i corposi libretti, ricchi di note, di foto e di tutti i testi dei brani inclusi nella prima antologia realizzata per “The Only Band That Mattered”, che si trovano in "Clash On Broadway" (questa è la stampa del 2000, rimasterizzata a cura della Epic/Legacy).
Pubblicato quando la guerrilla dei Clash è un’esperienza ormai dichiaratamente chiusa, questo coacervo di policarbonato, carta e informazioni digitali, è un pezzo di storia bello da sentire e da vedere.
I Clash mi offrono la possibilità di affermare che qualche colletto bianco del marketing dotato di buon gusto, esiste. Non posso non crederlo avendo appreso che questa raccolta nasce grazie alla pubblicità ideata per un paio di jeans. Ecco quindi risuonare il mitico riff di “Should I Stay Or Should I Go” sulle immagini del martellante spot televisivo che la Levi’s ha commissionato ad un’agenzia pubblicitaria che sa il fatto suo. Che abominio: il gruppo Rock più dichiaratamente di sinistra "usato" per fare marchette in combutta con una multinazionale! Il singolo, a 10 anni dall’esordio, ritorna dunque prepotentemente ed inaspettatamente in classifica (1991). Il rinnovato successo del riff di Jones convince la casa discografica a inventarsi un modo per vendere il brano ritornato popolare. Includerlo insieme a sessantadue brani di “combat Rock”, tra cavalli di battaglia, demo e alcuni inediti, può essere la soluzione. La notizia (pessima) è che tra questi manca “Know Your Rights”.
Attualmente questi 3 dischi si alternano nel mio lettore CD con il "Live at Shea Stadium" da poco edito: ma questa è un'altra storia ...

Grazie Babbo Natale, davvero!
E sappi che non devi sentirti obbligato a passare a trovarmi solo una volta l'anno!

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mercoledì 7 gennaio 2009

Santa Claus has come to town (part one)

L'ultimo Natale è stato prodigo di pregevoli regali.
Il mio Babbo Natale, ha messo ben 5 CD sotto l'albero.
Due dei Joy Division, uno della Blues Explosion, uno di Joan Osborne e un cofanetto antologico dei Clash.

Sull'onda emozionale provocata dalla visione di "Control", pellicola in bianco e nero (non per tutti!) di Anton Corbijn, ho palesato l'intenzione di acquistare i 2 album della band inglese.
Babbo Natale, che ha l'udito sopraffino e la memoria lunga, ha fatto prima di me.
Così, senza uscire soldi (altri) per dischi (ennesimi), "Unknown Pleasure" e "Closer" hanno ingrossato le fila della mia discoteca.

I due CD nella versione "Collector's Edition" del 2007, sono rimasterizzati e uniti ad altrettanti live.
A prima vista il pakaging sembra davvero gradevole (inspiegabile, però, l'assenza dei testi nei booklet), finché non si presenta la necessità di rimettere la confezione che ospita i CD all'interno di una rigida plastica trasparente che riveste il box cartonato: un incubo!

In "Unknow Pleasure" (1979) colpisce - d’acchito - la somiglianza della timbrica di Ian Curtis (cantante e autore dei testi) con quella di sua maestà "re Lucertola" Jim Morrison.
Un album difficilmente qualificabile anche se universalmente riconosciuto come appartenente alla corrente "post-punk".
Più facile, invece, individuare a più riprese, standard stilistici recuperati successivamente dall'altra parte dell'Oceano: semi di Rock germogliati dieci anni più tardi (all'inizio dei '90) nelle grigie e fertili lande irrigate dal piovoso cielo di Seattle.
Un album bello, acerbo (a tratti naïf) e molto cupo, capace di fare scuola e proselitismo. Posologia: assumere a piccole dosi - lontano da sostanze psicotrope - avendo certezza di incontrare un nutrito gruppo di amici subito dopo. Controindicazioni: acuti stati depressivi.
La Collector's Edition include questo secondo disco live che, secondo me, è il pezzo forte della ristampa.
Il concerto, registrato a Manchester nel luglio del '79, è una bomba: il suo audio rimanda ad una visione di pubblico e musicisti stipati in un claustrofobico e fumoso pub, dove l'essenza “garage” e “punk” del gruppo emerge alla grande. Qui il suono del sintetizzatore è meno presente (e meno invadente) rispetto alla registrazione da studio. Solo il brano "Insight", al contrario, ne è pregno tanto da risultare inascoltabile. Per il resto, il suono della chitarra è ben più evidente che nelle incisioni in studio e la batteria ha un suono meno "sintetico".
Ian Curtis veste più i panni di se stesso e meno quelli di Morrison, tanto da essere semplicemente perfetto nel condurre la band in un selvaggio live act.
"Dead Souls" (quella ripresa anni dopo dall'emulo Trent Reznor) è bellissima, "Interzone" devastante.

La Collector's Edition di "Closer", disco originariamente pubblicato subito dopo il suicidio di Ian Curtis (15 luglio 1956 - 18 maggio 1980), si presenta con gli stessi pregi e soprattutto gli stessi difetti dell'edizione da collezione di "Unknown Pleasure" (confermo: l'imballaggio è delizioso, ma renderlo facilmente apribile e richiudibile?).
Vada per i testi “dark”, ma la musica fredda ed essenziale risulta troppo condizionata dal suono datato dei synth (ben presente lungo le 9 tracce), tanto che il suo ascolto risulta arduo.
Ma l'impasto sonoro istituito dalla band, piacerà a tutta la schiera di epigoni della cosiddetta "New Wave", fautrice di accaniti seguaci che si faranno strada nel decennio appena cominciato: gruppi che daranno impulso alla nuova scena musicale inglese e che, in buona parte, saccheggeranno idee e svilupperanno intuizioni nate da questo album (l’iniziale produzione dei Depeche Mode e dei Cure deve molto a questo disco). Lode, dunque, ai pionieri del genere.
Il bonus disc allegato è un importante documento che ha il chiaro intento di fornire all'ascoltatore un'altra testimonianza delle capacità espressive dei Joy Division durante la serie di concerti tenuti all'apice della creatività. Il risultato è, però, parzialmente fallace: per qualità sonora, infatti, l'accluso live del febbraio 1980 è equiparabile ad un bootleg, tanto da rendere distratto l’ascolto. In compenso brani come "Twenty Four Hours", "These Days" e "Love Will Tear Us Apart", sono proposti in versioni avvincenti che superano l'handicap di un suono imperfetto, e ben rendono l'idea tipica della musica contaminata da vari generi, proposta a suo tempo dall'avveniristico gruppo.
Nota di merito alla scelta (a quanto dichiarato dai membri della band, non indotta dai noti motivi contingenti) di ritrarre in copertina una splendida - seppur funerea - scultura di Demetrio Pernio. Dedicata ad una nobile famiglia vissuta circa 8 secoli fa (gli Appiani, signori feudali), la struggente opera è sita nel Cimitero monumentale di Staglieno presso Genova (ove si trovano anche le ceneri di Fabrizio De André).

To be continued ...


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