lunedì 20 ottobre 2008

My favorite listening spot

Lo stereo prende in pegno il CD appena acquistato e nel silenzio ovattato dell’abitacolo dell’automobile, i diffusori mandano le note di un’ipnotica musica.
Seduto dietro il volante, assorto in un’altra dimensione, lo sguardo è perso oltre il parabrezza e l’udito è teso a raccogliere il passaggio dalla tranquilla e breve “Master/ Slave” alla feroce “Once”.

Ritengo il primo ascolto di una nuova uscita discografica molto importante, non determinante ma importante.
Per farlo a dovere, in primis serve un posto adeguato, poi l’arco temporale necessario, i testi ben in vista e così via.
Ma non sono il solo seguace della filosofia e dei riti legati al primo ascolto.
Il tipo nell’auto cha ha appena iniziato l’ascolto dell’album d’esordio dei Pearl Jam, infatti, non sono io.

E’ Bruce. Quel Bruce! Bruce Springsteen.
Quello con la Telecaster scheggiata a tracolla e decine di invidiabili giubbotti di pelle nel guardaroba. Quello col culo inguainato da un jeans oggetto di uno scatto fotografico poi finito sulla copertina di un album entrato in circa 20.000.000 di case sparse per il globo. Proprio quello che nonostante una “bourgeois house in the Hollywood hills” ama godersi il primo ascolto dell’ultimo CD acquistato, standosene seduto in macchina piuttosto che sprofondato in poltrona in una, che so … stanza insonorizzata situata nella sua mega tenuta. Quello che preferisce usare l’autoradio più che un (probabile) impianto stereo inaccessibile ai comuni mortali.
Già, perché certe abitudini sono dure a morire e, come Springsteen stesso scrive, è “seduto in macchina di fronte a casa il mio luogo d’ascolto preferito”.
Questo emerge da quanto riportato per l’introduzione di “5x1: Pearl Jam Through The Eye Of Lance Mercer”, un libro fotografico che documenta la vita in tour, e più in generale on the road, dei Pearl Jam.

Insieme ad altre riflessioni di illustri colleghi (Pete Townshend, Michael Stipe e Ben Harper), Bruce si è preso la briga di scrivere per questo intrigante volume, le sensazioni provate durante il primo ascolto di “Ten” (album d’esordio del gruppo di Seattle).

Stando alla narrazione della vicenda, l’episodio risale all’epoca della pubblicazione di “Ten” negli USA, cioè sul finire dell’agosto 1991.
Il body builder del NJ è già padre di Evan (luglio 1990) ed è già sposato con Patti (giugno 1991) che attende la nascita di Jessica (data alla luce nel dicembre del 1991).
Ormai attorniato da una gestante, da un marmocchio e da pappe & pannolini più che da chitarre, a questo rocker sui quaranta, lontano dalla scena musicale da un bel po’, serve una botta di vita.
E per uno cresciuto ad hamburgers e chitarre, una botta di vita non può che arrivare da buona musica.
Detto, fatto.
E’ il passaggio radiofonico di “Alive” ad invogliarlo ad acquistare “Ten”.
Anche per lui l’album si rivela una bomba i cui detonatori sono individuabili nei possenti riff delle chitarre di Stone Gossard, compositore della musica di “Alive” (che Dio, anche solo per questo, lo benedica sempre!) e agli a solo dell’indiavolato Mike McCready (lead guitar).


Ma è l’apporto determinante della straordinaria timbrica vocale di Ed Vedder a rendere “Ten” un richiamo, un’adunata, il ruggito che squarcia l’immobilismo Rock di quel periodo e riporta il movimento in auge: l’album che svariati milioni di smaniosi appassionati del genere, aspettano da tempo.
Risolutivo è anche l’apporto del bassista Jeff Ament, cofondatore della band insieme a Gossard e quello di Dave Krusen alla batteria (che però abbandona il gruppo subito dopo le sessioni d’incisione).
Costretti a smentire l’odiosa pubblicità che li imputa quale band assemblata ad arte per sfruttare la reputazione di una Seattle ormai fucina di talenti musicali, questi ragazzi fanno di tutto per risultare ciò che sono: una sola entità con cinque anime e non, elementi all’interno di un gruppo.

Lo dimostrano con una capacità non comune a tutti i gruppi. Springsteen, evidentemente affascinato, dice: “avevano l’abilità di pestare duro e di suonare “morbido” (swing) allo stesso tempo. La musica si sentiva tranquilla e potente con un mucchio di connessioni tra gli strumenti. Queste sono le qualità che inducono a sostenere che sei davanti ad una vera band”.
Anche per Bruce si tratta, quindi, di una “vera band” e non di cinque ragazzi messi sotto contratto e obbligati a lavorare tra le stesse quattro mura. Il libro di Mercer, non a caso, tende a mettere in risalto il forte vincolo tra i compagni sin da quel “5x1” scelto come titolo (avete presente la nota massima, “tutti per uno”?). Ma più di mille parole e di mille libri, è proprio la copertina di “Ten” a chiarire questo spirito di fratellanza con semplicità disarmante: basta osservarla un attimo.

Ma Bruce, mi chiedo, ascoltando questi componimenti, avrà colto tratti in comune con i suoi lavori?
Probabile. Io ci trovo una certa forza in comune. Scorgo lo stesso dannato “sacro fuoco”. La forma-canzone dei (primi) Pearl Jam e diametralmente opposta a quella del musicista del New Jersey, ma a mio avviso spicca la medesima voglia di emergere attraverso un innato stile, una naturale attitudine alla musica Rock.
“Alive”, primo singolo estratto dall’album, è uno degli episodi più epici dell’intero lavoro e della carriera dei cinque e, come racconta Vedder all’ex giornalista, oggi regista cinematografico Cameron Crow, “è fondamentalmente un inno alla vita”. Uhm, anche “Born To Run” (album e omonimo brano), si è da più fonti precisato, è epico ed è un inno alla vita!
Sempre a detta di Vedder, l’ode alla vita è presente - ma, aggiungo io, non facilmente individuabile - nelle 11 composizioni del disco; difficile da riscontrare perché le atmosfere musicali e le liriche enfatizzano una diffusa insoddisfazione della condizione esistenziale. Lo scenario entro cui si muovono i protagonisti, è quello di una nazione post Regan di cui tutto sappiamo e che fa da sfondo alle dolenti storie di ragazzi segnati da un’amara adolescenza, di figlie vessate in ogni modo, di ragazzini incompresi e costretti a chiudere in una plateale ribellione la loro esistenza …
Un paio di rapidi esempi (a rischio linciaggio per il sottoscritto) saranno utili a far comprendere cosa sto blaterando.
Il testo di “Black” (il cui titolo lascia presagire un inquietante scenario) potrebbe essere figlio di quel pensiero pessimista reso noto in letteratura dal nostrano Leopardi. “Tutto l’amore andato a male ha tinto di nero il mio mondo” e poi, “So che un giorno avrai una vita bellissima/ So che sarai una stella/ So che sarai nel cielo di qualcun altro/ Ma perché non può essere il mio?”. Tanto deprimente, quanto bella. Davvero! Una di quelle canzoni che vuoi sentire quando sei triste, sai che nulla potrà tirarti su e decidi - badile in spalla - di andare a scavare un bel buco grosso nel terreno per trovarci l’eterno riposo.
E “Jeremy”? Beh, questa è più che altro la cronaca di una tragedia annunciata (il testo è ispirato ad un fatto realmente accaduto). Potrebbe essere accostata - con opportuni “distinguo” - ai “Dolori del giovane Werther” di Goethe: in tutti e due i casi il protagonista si toglie la vita, più come atto di estrema protesta che come gesto di resa.
E dov’è allora, l’inno alla vita in tutto ciò? Nel percorso quotidiano, siamo tutti più o meno preparati se non a riprendere la corsa, a riacciuffare la nostra faticosa marcia dopo una caduta. Tra mille improperi siamo pronti a risollevarci e a recuperare il passo: siamo pronti, insomma, a rimanere vivi.
E’ quanto asserisce il protagonista di “Alive”: malgrado tutto, sono ancora vivo. Dopo le violenze, fisiche e psicologiche cui sono stato costretto, sono qui, e canto la mia vita.
Ci trovo una certa corrispondenza con il “non mollare” che chiude con un leggendario verso la “This Hard Land” di Springsteen, dove Frank che crede di non farcela, deve tenere duro e nonostante tutto, deve rimanere vivo.

Lì chiuso in macchina, nel suo luogo d’ascolto preferito, Bruce, dev’essersi sentito proprio coinvolto da quei testi carichi di tensione, di rabbia, di solitudine (storie drammatiche e personali in molti casi, autobiografia del giovane Vedder). Nell’arrembante "Even Flow", nella dolce “Oceans”, così come nella rabbiosa “Porch”. Cosa darei per conoscere a fondo quello che ha pensato nell’ascoltare “Once” e “Release”, ovvero Alfa e Omega di questo album epocale. La prima, una tempesta in piena regola, una cavalcata hard rock con la chitarra di Mike McCready sugli scudi; agli antipodi, invece, “Release” a chiudere il capitolo con una melodia dal tessuto sonoro dal grande impatto emotivo: qui insieme a tre accordi (Re – Sol – Do!) la solenne voce di Vedder è in grado di far sanguinare anche i sassi. Con la sensibilità del musicista deve aver individuato talune influenze che la “band heavy metal che piace alla gente che non ama l’heavy metal” esprime in quell’opera prima.
Come già asserito da Springsteen, infatti, il segreto che rende la band, una grande band, è presto palesato: “Ability to play hard and swing at the same time”.
Le parole scritte nero su bianco dal “Capo” offrono un altro interessante spunto di riflessione. Nella musica di questo gruppo, convivono le due anime del rock: quella scura e violenta, e, quella solare e dolce. Perché in certi brani, è bene far suonare le chitarre tanto da rompere i timpani, ed in altre, è opportuno che il suono delle corde carezzi l’udito. L’importante è capire “il quando” e “il come” dosare questi elementi. A questo punto, paragonare le doti ed (in parte) il sound dei Pearl Jam a quelli di Who e Led Zeppelin, è quanto di più straordinario e tremendamente sincero si possa fare. E lui, Bruce, ha l’onestà di farlo, menzionando due bands inglesi che hanno fatto scuola, spodestando l’egemonia nel circuito Rock dei gruppi americani (anche sul loro suolo, nell’èra della cosiddetta “British invasion”). Bands che, appunto, sapevano quando picchiare duro e quando darci dentro con la melodia. Che meraviglia: un grandissimo del Rock che paragona altri grandi del Rock ai capofila di un genere!

Quella frase finale, poi, “sono uscito dall’auto sentendo che avevo del lavoro da svolgere”, per me, è illuminante sull’effetto prodotto su Springsteen dal primo ascolto di “Ten”.
Pare l’ammissione del maestro che questa volta, complice l’occasione fornita dall’allievo, si rimbocca le maniche e si accinge a compiere il proprio “dovere”.
Grande!

La chiudo qui.
“Ten” è finito sulla stessa ipnotica musica “Master/ Slave” di apertura. L’autoradio restituisce il CD e Bruce esce dal suo “punto d’ascolto preferito” con la testa piena zeppa di spunti pronti ad essere concretizzati nella piccola sala d’incisione allestita nella sua villa, ma … “Bruuuuuuce!”, Patti lo chiama perché richiede aiuto per non meglio precisate commissioni domestiche. Ecco come l’ispirazione fornita dal disco dei ‘Jam, svanirà e non sortirà più alcun effetto.
Dài scherzo!

Pubblicato anche su "badlands.it"


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3 commenti:

Francesco Santoro ha detto...

Siamo in recessione: è vietato assumere! :-)
Dylan? Uhmm ... non so, vediamo.
Grazie per la visita e soprattutto per il graditissimo commento.
Spero torni a visitare il mio blog.

Antonio Izzo ha detto...

Girovagando sul web sono incappato su questo blog, e ho letto il tuo post. Che dire, è di quanto più sincero e appasianato che sono riuscito a leggere negli ultimi tempi. Hai praticamente scritto ciò che penso e immagino anche io, essendo fan di Springsteen e dei Pearl Jam!! E mi viene la pelle d'oca ad immaginare Bruce (per me il re del Rock incontrastato) seduto ad ascoltare quel gran CD che è Ten.
Bellissimo.

Francesco Santoro ha detto...

Ciao A.I., benvenuto!
Grazie a te per il gratificante commento.
Adesso che conosci la strada, torna pure quando vuoi. :-)