Modena, 14 giugno 2008 - Stadio Comunale A. Braglia
La E Street Band di Bruce Springsteen, per esempio, è propriamente detta “la Leggendaria”, i Clash “The Only Band That Mattered”, i Rage Against The Machine, invece, sono più semplicemente il gruppo cui “tutti i suoni sono prodotti con chitarra, basso, batteria e voci”.
Tale precisazione, d’obbligo, è presente nel booklet di ogni loro disco, ma è nella dimensione live che è possibile constatarne l’assoluta veridicità.
Fischi, tonfi, boati, scratchs e altri suoni normalmente prodotti da campionatori, vengono generati da Tom Morello, l’ultimo rivoluzionario della chitarra rock che, braccato da Tim Commerford (al basso) e Brad Wilk (alla batteria) si scaglia in fantasiose quanto grintose volate chitarristiche.
Morello divide l’avanguardia dello stage con l’altra figura carismatica del gruppo, Zack De La Rocha, il vocalist dal nome cazzuto (per dirlo alla maniera di Natalie Portman in “Léon”).
L’attesa per assistere al live act italiano, dura da ben otto interminabili anni
e, davvero poca fortuna hanno i due gruppi deputati ad aprire la serata.
Gli italiani Linea 77 si dannano sul palco ancora soleggiato, ma non riescono a sortire l’effetto che, al contrario, otterrebbero in una location più ridotta, magari indoor. Hanno comunque il loro seguito tra gli astanti e lasciano lo stage tra applausi composti.
Lo stadio Braglia di Modena, non è ancora tutto esaurito quando i giovanissimi inglesi Gallows, calcano la scena. L’inclemente platea li castiga, in primis con ingiurie a vario titolo e gesti di dissenso (per usare un paio di eufemismi), poi, per offrire un servizio completo, con sputi e lancio di oggetti. Terminano la performance a base di evanescente metal, orfani del loro emaciato e tatuato mezzo cantante, dopo che questi ha dissimulato una masturbazione (!). I ragazzetti, al pari dei Linea 77, s’impegnano ma l’antipatia tra noi e loro è immediata e reciproca. Bocciati senz’appello.
Il palco è un vero e proprio campo di battaglia, ora.
Lo stadio con i suoi 20.000 presenti, è sold out (o quasi) e l’attesa cresce.
E’ tutto pronto per il grande e sospirato ritorno.
La musica registrata, un “walk in” di tutto rispetto in cui spiccano la versione originale di “Fuck Tha Police” e la “Sabotage” dei precursori Beastie Boys, viene interrotta.
Nel buio più totale gli amplificatori mandano un opprimente suono di sirena, un’allarme, quello che si lancia per avvisare la popolazione di un imminente attacco aereo. L’effetto è suggestivo, mi angoscia anche se sono sicuro di assistere ad un artificio. I quattro musicisti entrano sul palco “scortati” in fila indiana da roadies/carcerieri. Indossano le stesse "tute arancioni" che vestono i prigionieri detenuti nella prigione statunitense della Baia di Guantanamo e, come loro, sono incappucciati. Il magniloquente metodo scelto per la protesta, rievoca quanto fatto 15 anni prima sul palco del festival itinerante di Lollapaloza. All’epoca rimasero (integralmente) nudi, immobili per un quarto d’ora con la bocca chiusa da nastro adesivo, innanzi ad un pubblico prima disorientato e poi infastidito. L’insolita protesta mirava a disapprovare i feroci criteri di censura americani adottati nei confronti delle liriche in musica.
Così abbigliati, vengono liberati dalle manette e “vestiti” dei loro strumenti. Suoneranno quindi, ad occhi chiusi, eseguendo in apertura una micidiale Bombtrack. La scelta di questo brano, sembra ricondurre ad un nuovo inizio; questo è, infatti, il primo pezzo del loro album d’esordio pubblicato nel 1992. L’esecuzione risulta semplicemente perfetta. Ineccepibile risulta pure il feeling che unisce i quattro musicisti. Siamo euforici per aver ritrovato dei compagni lontani da troppo tempo. E’ guerra, anzi “guerrilla”.
Sferrano l’attacco: sono tornati per dare battaglia all’ “Impero del Male” nei panni dei prigionieri di Guantanamo. Dopo l’esecuzione del brano, escono da quei “pesanti” panni, espiando (metaforicamente) tutti i supposti peccati di coloro che rappresentano. Nessuno – vado a memoria – nel vasto panorama rock ha accusato con tale forza le istituzioni americane. Ed Vedder dei Pearl Jam indossa la maschera di George W. Bush e lo schernisce in pubblico, individuando nella sua persona il terminale ultimo da accusare per quanto accaduto in questi ultimi otto dissennati anni quanto a politica estera. I Rage Against The Machine, al contrario, esaminano più a fondo lo scenario. Puntano l’indice verso l’intero sistema. I prigionieri che impersonano rappresentano delle esche. Esche che coprono l’amo gettato a mare da un perverso pescatore: il “Sistema”, appunto. Questi è la macchina contro cui riversare tutta la rabbia. Il Sistema delle multinazionali, quello delle lobby, quello della politica neoliberista che, con ambigue strategie indirizza l’opinione pubblica in proprio favore, per trarne ricchezza, potere e governo. Costi quel che costi, in termini umani ed economici. Stando a quanto ammonisce Zack, l’attuale presidente degli USA “è un criminale da giudicare in tribunale” anche se è una pedina sullo scacchiere e nulla più. Ah, ovvio, i pesci siamo noi, la gente. L’umanità che abbocca indulgente alla preda-cibo che, pare solo un pasto facile e sicuro ma che, nasconde ben altro.
Il tour non promuove un nuovo album, quindi, si susseguono i passati successi senza soluzione di continuità e un uragano di suoni investe i nostri corpi, alla mercé delle note scagliate in tutte le direzioni dagli ampli.
Vorrei riposare 30 secondi, ma sono stato risucchiato nel girone dantesco del pogo: non è facile uscirne e non sono affatto sicuro di volerlo.
Così parte subito un’altra schitarrata, una rullata e, nella musica, ritrovo slancio e nuova linfa. Nel pit siamo tutti pervasi da una sana “rabbia”.
Sono molto vicino al palco e li guardo bene in faccia prima di tornare - volente o nolente - al pogo. De La Rocha non ha più i dreadlocks, ma una criniera leonina riccia. Si muove come fosse posseduto: salta, urla, rappa e a volte improvvisa rime in apnea. Sono lieto di constatare che la sua voce non ha perso smalto in questi anni.
Morello, cappellino con visiera calata sugl’occhi, usa sempre (tra le altre) la Stratocaster celeste customizzata, che riproduce in bella mostra il simbolo della falce e martello.
Ricopre con energia e disinvoltura il suo ruolo: osservandolo, pensare di poter suonare così, non risulta difficile. Lui scruta il pubblico, suona forte, manda occhiate d’intesa ai compagni e li conduce per mano fino in fondo.
Commerford, l’unico dei quattro con tratti somatici caucasici, resta a torso nudo sfoggiando un fisico statuario ricoperto di soli tattoos. Martella il suo basso e concede la sua voce su People Of The Sun per dare enfasi al ritornello.
Wilk sembra godere, rispetto al passato, di uno spazio più ampio per mostrare tutta la sua cattiveria. Tortura le pelli dei tamburi pestando secco e potente su tutti (proprio tutti) i brani e come da copione, percuote il campanaccio su Freedom confluendole un’aria vagamente indio.
Non sembrano invecchiati, ma più maturi, sicuramente più consapevoli del peso del loro passato e dell’importanza delle loro ambasciate per il futuro. Del resto nello scenario musicale, dalla pubblicazione di Rage Against The Machine (album ad alto valore scioccante per proposte musicali e copertina politically uncorrect), nessuno è stato capace di offrire novità di altrettanta levatura. Messaggio e musica meticcia, hanno generato un connubio ancora oggi difficilmente imitabile.
E non posso credere che questa reunion non abbia basi solide su cui poggiare. Il suono degli strumenti e la voce del singer s’incastrano perfettamente. Ritroviamo tutto così com’era. La qualità del gruppo è intatta ed è seconda solo al loro immutato impegno sociale. Già il messaggio. Per non creare equivoci - qualora ce ne fosse bisogno - illuminata solo da una luce rossa, sullo sfondo del palcoscenico viene lentamente issata un’enorme bandiera a fare da scenografia definitiva. Raffigura la stella rossa su fondo nero: il vessillo dell’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale). Sorge dopo i primi brani alle spalle di Wilk, a tutto stage, sulle note dell’inno dell’Internazionale Socialista (nella versione eseguita dall’ormai disciolto esercito dell’Armata Rossa). Un’immediata orgia di pugni punta verso il cielo di Modena. No, non si tratta del congresso di partito, ma tutti quei ragazzi (giovani e giovanissimi) in posa e con indosso la maglia del Che, ordinano un pensiero: nessuno è riuscito a spazzare via quasi 2 secoli di storia, non ancora. Non ci hanno cancellato dalla faccia della terra. La reunion dei RATM nasce anche da questo convincimento. Si fanno portavoce nella musica, di chi non ha più una rappresentanza politica adeguata. Il loro è un pubblico che trascende il mero apprezzamento musicale ed approda ad uno stadio ulteriore. Il legame è concettuale, oserei dire ideologico. Non c’è pietà per gl’internati di Guantanamo? Beh, non c’è ne un po’ neanche per la brutale amministrazione americana: “Le strade sono vostre” dice Zack, “bisogna combattere per riprenderle”. E lo afferma sputando ogni singola parola nel microfono, tanto che ogni sillaba pare un vaffanculo indirizzato al Sistema. Del resto, “Anger is a gift!”, urla in Freedom (dedicata originariamente a Leonard Peltier, consacrata oggi a tutti i martiri di ogni discriminazione, da Mumia Abu-Jamal in poi). Compresso come un trancio di tonno in scatola, mi risulta agevole ascoltare decine di voci, attorno a me, dalle diverse inflessioni. Per la prima volta, conto il più eterogeneo campionario di popolazione italiana (e non solo) tutto chiuso in un campo di calcio ad esultare per la stessa squadra. Vedo punk del sud, anarchici del centro, vicentini movimentisti di “No Dal Molin”, ragazzi dei centri sociali, una “afroitaliana”, diversi stranieri ed io, risalito lungo gli Appennini per 700 km. Siamo tutti pronti - finalmente - a parlare la stessa lingua. Siamo tutti pelle a pelle.
Il servizio d’ordine, intanto, svolge la sua incombenza in maniera decente (anche questa è una novità). In una calca del genere, infatti, potrebbe “capitare” di beccare qualcuno alticcio o che il pogo ammacchi qualcuno o che semplicemente manchi l’aria. Con sincero apprezzamento, ho potuto osservare il valido lavoro della security: attento ma discreto, mai troppo indifferente, mai troppo invadente. Ne testo il valido supporto durante Sleep Now In The Fire, in cui il pogo si fa pesante. Per un attimo un De La Rocha divertente, fa il verso a se stesso. Veste, infatti, la faccia da imbonitore e riprende l’ipocrita sorriso esibito nell’omonimo video a suo tempo diretto da Michael Moore (lo stesso regista che dirigerà “Bowling a Columbine”, “Fahrenheit 9/11” e “Sicko”). Il pezzo è una vera frustata rock. Sublime.
La band dimostra spiccate qualità “reinterpretative” quando esegue un’arrabbiata (guarda caso) cover di Renegades Of Funk. Vero è che sono noti per le liriche taglienti, ma i ragazzi ci danno dentro anche per farci ballare. Ripropongono il pezzo di Africa Bambaataa in maniera identica alla versione incisa per Renegades, album d’inizio millenio, l’ultimo – ad oggi – registrato in sala d’incisione.
Su Wake Up, Know Your Enemy e l’inno Killing in the Name, musicisti e pubblico replicano quel feedback di energia ed emozioni, tipico di ogni concerto che si rispetti. Per la tappa italiana di questo reunion tour dei Rage, si è reiterato quel rito celebrativo in nome del più sincero spirito Rock’n’Roll che - nonostante le profuse certificazioni di morte - dal periodo hippy ad oggi, non ha ancora trovato la sua naturale scadenza.
La setlist, complice l’eccitazione provocata dall’avvenimento, non sono in grado di elencarla correttamente. Hanno suonato i loro pezzi migliori, quelli più efficaci. Oltre quelli già citati, Bulls On Parade e People Of The Sun (tratte da “Evil Empire”), Know Your Enemy, Bullet In The Head e Wake Up (tratte da “Rage Against The Machine”), Calm Like A Bomb e Born Of Broken Man (da “The Battle Of Los Angeles”). Nessun pezzo inedito e, pare, ancora nessun nuovo album in lavorazione.
Menzione speciale merita l’esecuzione della splendida Testify che nell’introduzione, con il suo incedere di chitarra dall’eco metallico, ha proiettato l’intera platea dentro un’officina metallurgica. Le sue liriche sono immagini a tinte forti che inchiodano i media al servizio del Sistema (anziché dell’informazione) ricordando con perfida lucidità che: Who controls the past now controls the future (Chi controlla il passato, adesso, controlla il futuro) Who controls the present now controls the past (Chi controlla il presente, adesso, controlla il passato) Who controls the past now controls the future (Chi controlla il passato, adesso, controlla il futuro). E chiedendosi (retoricamente): Who controls the present now? (Chi controlla il presente, adesso?).
Quel capolavoro di Guerrilla Radio, inizia come se fosse una marcia militare, esplode in un vortice di suoni overdrive e si assesta su di un ritmo sincopato che accompagna il tipico rapping di De La Rocha:
Deve cominciare in qualche luogo.
Deve cominciare un momento.
Quale miglior posto?
Quale miglior momento?
e termina con un amabile anatema, “All hell can't stop us now”, mentre impazza un ritmo in piena tempesta.
L’esecuzione si conclude al termine di 90 infuocati minuti: difficile credere che si potesse fare di più. Quantità e qualità, del resto, non sempre convivono.
Sulla mitica Killing In the Name, tutti, all’unisono, ci sostituiamo al cantante nell’urlare (con quanto fiato è rimasto nei polmoni) una promessa che sa di minaccia: Fuck you, I won't do what you tell me!
Devastante. E memorabile.
(Resoconto fotografico qui)
7 ottobre by http://7ottobre.blogspot.com/ is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.
Nessun commento:
Posta un commento