Sarà disponibile dal 25 marzo il tribute album “Bob Dylan in The 80’s”, uno spaccato della carriera di Bob Dylan riletto con il chiaro intento di riscoprire le perle nascoste in dischi scarsamente considerati dalla critica e poco amati dal pubblico. Una sorta di “best of” circoscritto da rigidi limiti temporali e ricreato sui gusti personali di Jesse Lauter e Sean O'Brien, produttori che hanno partorito un progetto inevitabilmente lacunoso, ma particolarmente audace.
Gli '80 sono anni che un immaginario stereotipato descrive di plastica, preda di molesti synth e pettinature raccapriccianti. Secondo questo archetipo, anche la musica di quel frangente veniva concepita e spacciata come mero fenomeno di consumo. Certi “veri artisti”, irriducibili fedayìn dell’arte musicale tutta passione, si prestavano con malsana disinvoltura al riprovevole traffico di talento e immagine. Ma è stato davvero così?
Quel lasso di tempo che ci ha lasciato “solo” 25 anni fa, è stato realmente regressivo e nettamente inferiore al precedente e poi al successivo? E’ stato un ciclo in balia della volgarità e della grossolanità tout court? Eppure oggi se ne riscontra la riproposizione caldeggiata tanto dagli stakeholder dell’industria dell’intrattenimento e della moda, quanto dai fautori della retromania.
Sorta di teorici della negazione, i produttori Lauter e O'Brien hanno indagato la discografia realizzata da uno dei “veri artisti” che ha attraversato quel periodo – uscendone malconcio ma vivo –, per rivalutarne il meglio e rifiutare una limitante generalizzazione. Il vero artista è il Bob Dylan a metà del guado di un’esistenza che l’ha già incoronato menestrello, giudicato rottamatore a Newport, reso nomade per la Rolling Thunder Revue, ma che non l’ha ancora umiliato quale attore per gli spot di Victoria's Secret.
Dylan apriva gli ’80 con Saved e Shot of Love, inconsistenti album in odor di conversione religiosa (più presunta che reale), riconquistava valore con Infidels e chiudeva il decennio con il risorgimento creativo di Oh Mercy. Periodo controverso, dunque?
A giudicare i 17 ripescaggi effettuati dal duo di produttori, il crack sembrerebbe parziale. Con il senno di poi Dylan parrebbe certamente più dimesso rispetto agli eccelsi standard dei due decenni precedenti, ma pur sempre traghettatore di illuminato cantautorato.
Vittime di una spietata dogmaticità che ha bocciato secondo la logica del “fare di ogni erba un fascio”, alcune tra le registrazioni finite in quei dischi (parte del materiale, però, è estratto anche da Under The Red Sky del ’90 e dallo strepitoso side-project Traveling Wilburys) risplendono oggi in cover capaci di suffragarne il valore senza tempo. I “Jokermen” in azione sono musicisti mainstream oppure almost famous: l’insospettabile Slash, lo starnazzante Craig Finn (The Hold Steady), il barbuto Bonnie “Prince” Billy, il comico in ascesa Reggie Watts, il prezzemolino lagnoso Glen Hansard, il talentuoso Neal Casal e gli autentici Built To Spill (la “loro” Jokerman è in free download).
Bob Dylan in the 80’s non è perfetto, e forse non aspira ad esserlo, ma tra la marea di tributi indirizzati al repertorio del folksinger svetta per originalità della proposta e per fresco sviluppo reinterpretativo. Tra questi resta inspiegabilmente escluso un capolavoro come Man In The Long Black Coat (da Oh Mercy) ma spicca la presenza di When The Night Comes Falling From The Sky, la cui take originaria è stata incisa con Steven Van Zandt e Roy Bittain – della E Street Band – per Empire Burlesque, scartata e infine inclusa nel terzo volume delle Bootleg Series.
Aspetto che aggiunge valore all’album è dato dal carattere benefico: una parte dei proventi sarà devoluta alla Pencils of Promise, organizzazione non-profit impegnata a fornire istruzione in aree sottosviluppate dell’Asia, Africa e America Latina.
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