Gli Hackney sono tre fratelli afroamericani di Detroit che mettono in piedi una band dal nome allegro come un necrologio. Iniziano a proporre black music rimanendo entro i recinti di una persistente ghettizzazione sociale e musicale, per poi scavalcare il muro di cinta che conduce in avanscoperta, verso l’innovazione sonora. Il successo nemmeno li sfiora e i tre suppongono di trovarsi in un vicolo cieco. Tornano sui propri passi, tentando di ricalcare a ritroso le orme di un percorso che, intanto, è stato presidiato da altri. La band a conduzione famigliare conosce i primi veri dissidi e implode su se stessa, salvo poi riemergere dall’oscurità – trent'anni dopo – grazie all’interesse che alcune incisioni inedite destano nell’ambiente musicale.
Fin qui la biografia dei Death non presenta risvolti originali e non giustifica la sollecitazione di grandi interessi. A renderla coinvolgente è un inconsueto particolare. Bobby (voce e basso), David (chitarra) e Dannis (batteria) sono musicisti neri impegnati a proporre qualcosa di assimilabile al punk dei bianchi già nel 1971. La ricomparsa di queste polverose registrazioni, recentemente, ha attirato l'attenzione di "musicofili" e vecchi fan. Tra questi anche uno tra i più illustri concittadini dei Death, un allibito Jack White che stenta ad archiviare quelle musiche in un lasso temporale così spostato indietro rispetto alla cronografia accertata.
Il pionierismo degli Hackney si deve alla suggestionante visione di un feroce set di Alice Cooper: è la sua musica che fa scoccare la scintilla, è la sua enfasi scenica ad invogliare il combo a farsi inconsapevole (nonché ante litteram) power trio. L’urgenza è quella di abbandonare il R&B in favore di suoni acidi e ritmi in piena accelerazione. Con il senno di poi, non sarebbe improprio affermare che nell’evoluzionismo rock i Death congiungono gli MC5 ai Ramones, gli Stooges ai Sex Pistols. Bestialità? Fandonie? Magari qualcuna. Si accenna addirittura al benservito dato dal trio al produttore Clive Davis, una divinità nello star system discografico americano, fortemente interessato al gruppo ma colpevolmente intenzionato ad abolire quel nome così impopolare per favorirne uno più commerciale. Per farsi un’idea di questa storia – oltre ad ascoltare i dischi riproposti sin dal 2009 dalla Drag City Records – sarebbe opportuno approfondire vicende ormai lontane con la visione di A band called Death, film che espone i fatti, interpella i protagonisti (tranne il chitarrista David, scomparso nel 2000) e cerca di fare chiarezza sulla vita della band venuta dal passato. Il punto è che il lungometraggio diretto da Jeff Howlett e Mark Covino difficilmente varcherà i confini statunitensi per approdare nelle nostre sale. L’alternativa? Acquistare il documentario direttamente dal web site della Drafthouse films che, tra l’altro, offre la possibilità di scaricare gratuitamente un demo d’epoca intitolato Politicians In My Eyes.
A BAND CALLED DEATH [Trailer] from Drafthouse Films on Vimeo.