Ecco come Jakob Dylan racconta quant’è successo l’8 marzo 1997, nel backstage del Tradewinds Nightclub di Sea Bright mentre lui e i Wallflowers si apprestano a tornare in scena per gli encores, accompagnati dall’eroe locale: Bruce Springsteen.
Il fatto che il body builder del NJ ricordi non solo il titolo del brano ma anche il numero di traccia, conferma che ha amato - e molto - Bringing Down The Horse, splendido album della band californiana.
Il pezzo proposto da Bruce a Dylan Jr. è allegro, chitarroso e consente ad un’artista rock reduce da un lungo tour solitario ancora in corso (il The Ghost Of Tom Joad Tour terminerà di lì a poco dopo quasi 2 anni dal suo inizio) di liberare tutta la carica elettrica repressa in favore di scarne esibizioni acustiche.
Dalle cronache risulta che Springsteen ha interpretato al meglio il ruolo di se stesso senza alcuna riserva. Per l’indubbia voglia di far casino, probabilmente, ma anche per l’evidente pertinenza che colloca le composizioni di “Bringing Down The Horse” nello stesso ambito di certe musiche della E Street Band.
Jakob Dylan (voce e chitarra), Rami Jaffee (piano e organo), Michael Ward (chitarra), Greg Richling (basso) e Matt Chamberlain (batteria, ex Pearl Jam) prodotti da Mr. T-Bone Burnett, danno alla luce un disco fresco, genuino e incentrato su ottimi riff chitarristici, un possente drumming e, su tutto, partiture di organo, piano e tastiere che non si sentivano dai tempi di “The River”. Jaffee, infatti, è l’elemento di spicco del gruppo: eccellente musicista di piano, organo e tutto ciò che ha a che fare con una tastiera, affonda l’umore della band con suoni che rimandano a intime atmosfere o propone di scalare vette dai ritmi sostenuti.
Davvero lunga la sfilza di ospiti che apportano un contributo a questo album. Su tutti il chitarrista Mike Campbell (The Heartbreakers) e il singer Adam Duritz (Counting Crows) che aggiungono preziose sfumature alla maggiore opera pubblicata - ad oggi - dal gruppo.
Ma non dev’essere stato facile rompere il muro di scetticismo che ha assediato il lavoro dei Wallflowers. Quando all’interno del mondo musicale (e non solo) si fa strada un figlio d’arte, si frappone sempre una certa resistenza tra la consueta naturalezza nell’ascolto e il malsano sospetto che il percorso sia stato agevolato. Ma Jacob Dylan dimostra di non essere l’ultimo dei carneadi e s’immerge in quest’avventura ben supportato da un gruppo duttile e capace di accompagnarlo degnamente nell’impresa. Il brano d’apertura, “One Headlight”, spazza ogni dubbio. Il pezzo cova una malcelata mestizia sotto l’alternarsi di caldi accordi tenuti a bada da un incedere mid-tempo, finché il ritornello non celebra un cantato a piena voce. Da menzionare anche la struggente “6th Avenue Heartache” con Duritz al controcanto, “Bleeders” in cui l’organo comanda la melodia e “Laughing Out Loud” che entra in testa e lì rimane a riproporsi in loop tra i meandri della memoria. Ma è davvero difficile esaminare una ad una le undici tracce incluse in questo disco: ognuna racchiude in sé un elemento, un dettaglio, un’invenzione capace di renderla speciale.
Certo alcuni brani hanno “carattere” radiofonico, all’apparenza l’aspetto dei ragazzi è patinato ma, come si dice in questi casi … nessuno è perfetto.
Chissà se il futuro (magari non troppo lontano) presenterà altre opportunità a Springsteen e Dylan per suonare ancora insieme on stage. Si potrebbe ipotizzare un duetto a ruoli inversi, con Jakob nei panni dell’ospite di Bruce durante il “Working On A Dream Tour”, ancora in corso negli States. Ma è un’ipotesi azzardata. Un’idea originata dal desiderio e non dalla ragione, anche se i Wallflowers inizieranno una serie di concerti solo il prossimo 16 giugno, e anche se pare che la E Street Band stia provando “Like A Rolling Stone” di Dylan. Senior.
Non posso lasciare questa parata
da qualche parte qui davanti a me
(One Headlight)