Ispirato al film “Il mago di Oz”, il video di Heart-Shaped Box dei Nirvana mette insieme sacro e profano in una indimenticabile serie di scene che rivelano gli incubi di un Cobain ormai sull’orlo del baratro. Ecco un tributo, nella ricorrenza del tragico epilogo, al gruppo Rock che insieme a pochi altri ha segnato radicalmente la scena musicale degli ultimi vent’anni.
Atteso da milioni di fans “In Utero” dei Nirvana esce finalmente nel settembre del 1993, a due anni esatti dall’ahimè best seller “Nevermind” (circa 35 milioni di album venduti, ad oggi).
“Heart-Shaped Box” è il primo singolo estratto dall’album che chiude la trilogia discografica, nata con “Bleach”, e la vita del gruppo.
Per le riprese del video, i ragazzi di Aberdeen, decidono di affidarsi al regista con il quale hanno già girato, tra gli altri, “Come As You Are”. Ma il lavoro del fidato Kevin Kerslake, che pure ha abbozzato qualcosa, non soddisfa i componenti della band.
In una situazione di stallo ecco dunque sopraggiunger il Deus ex machina Anton Corbijn.
Fotografo di acclamate rockstar (U2, Depeche Mode), regista di cortometraggi (“Enjoy The Silence”) e lungometraggi (il recente “Control”), l’olandese allora trentottenne, riceve l’incarico per dirigere le riprese del videoclip nell’agosto del 1993. In una recente intervista ha onestamente ammesso di aver riprodotto in toto l’idea di base concepita da Kurt, “ragazzo gentile ed educato”, e di aver aggiunto solo pochi particolare (i corvi posticci e i primi piani “fuori fuoco” di Cobain).
Nel fotogramma iniziale una ripresa dall’alto cristallizza la scena che apre e chiude il video.
Sull’incedere solenne che parte in sottofondo, un vecchio giace infermo sul letto di un ospedale.
Preoccupati o forse solo rassegnati, Kurt Cobain, Krist Novoselic e Dave Grohl, siedono al capezzale in attesa che gli eventi compiano il loro inevitabile corso. Una tenda semichiusa sulla finestra lascia aperto un varco, permettendo ad un raggio di sole di concludere la sua traiettoria proprio sul volto di Kurt: una sorta di “occhio di bue” che indica il vero protagonista della storia.
Ricco di contraddizioni il video, da questo momento in poi, mostra una serie di immagini tormentose e cupe proprio come il suono prodotto dalla combinazione tra un’inconsueta Univox Hi-Flyer (chitarra) e un Echo Flanger (un effetto per chitarra).
Proprio sul mesto incipit (“She eyes me like a pisces when I am weak”) il moribondo del fotogramma iniziale ora cammina, praticamente nudo, in un campo di fiori: qui come già nelle “Tre età della donna” di Gustav Klimt, l’inevitabile declino della vecchiaia è rappresentato da allentate forme di un corpo ormai fiacco e scheletrico, mostrato senza pudore.
Ma il fastidio è misto ad una insana ilarità suscitata dalla visione dall’essenziale vestiario, del tutto fuori luogo, che irride l’ottuagenario attore del cortometraggio: ad un subligaculum non si abbina altro che il cappello di Santa Claus.
La vita di Cobain è stata un calvario soprattutto in un periodo che agli occhi dei più è sembrato di massimo splendore, come se il conflitto che ognuno si porta dentro potesse essere pacificato con uno spropositato conto in banca e una copertina su Rolling Stone! Forse a questo pensiero sembra portare la metafora del vecchio che cammina in un campo di papaveri e che spontaneamente si arrampica su una croce per immolarsi. Crocifisso, sopporta le angherie di corvi neri che si beffano della sua sofferenza mentre attorno c’è un desolante vuoto.
Flash di una bimba in abito talare bianco ma che, intriso di fango che pare inchiostro, diventerà ben presto nero: salta verso l’alto nel tentativo di prendere feti impiccati ad un albero ormai secco. Immagine che si alterna alla figura femminile solo più grassa, ripresa sulla copertina di “In Utero”, che cammina verso gli embrioni umani senza muovere un passo. Nessuna delle due riesce nel proprio intento.
Il vecchio, intanto, appare ancora in croce con una mitra a sostituire il copricapo di Babbo Natale, mentre la costante presenza dei corvi concretizza un infausto presagio. Un simbolismo questo, che per metà evoca una poesia di Edgar Allan Poe, e per metà attinge al racconto mitologico del supplizio inflitto dall’aquila a Prometeo.
Tra immagini della band che suona e primissimi piani degli occhi imploranti di Cobain, che urla di aspettare perché “ho una nuova malattia”, il racconto si avvita sull’eterno dilemma: cos’è la scatola a forma di cuore? Un riferimento a Courtney Love? Al suo sesso? O forse è un luogo metafisico ove poter custodire i ricordi più cari e relegare i desideri più reconditi?
Difficile interpretare l’enigmatico testo confluito in queste astruse immagini. Un videoclip che contiene diapositive dal messaggio cifrato, come alcuni sogni, confusi ma paurosamente nitidi, tanto da sembrare ricordi di vita vissuta.
Un intricato mosaico tra figure angeliche e demoniache, pregno di oscure premonizioni, da cui sarebbe stato auspicabile, proprio come per alcuni sogni, rifuggire.
Atteso da milioni di fans “In Utero” dei Nirvana esce finalmente nel settembre del 1993, a due anni esatti dall’ahimè best seller “Nevermind” (circa 35 milioni di album venduti, ad oggi).
“Heart-Shaped Box” è il primo singolo estratto dall’album che chiude la trilogia discografica, nata con “Bleach”, e la vita del gruppo.
Per le riprese del video, i ragazzi di Aberdeen, decidono di affidarsi al regista con il quale hanno già girato, tra gli altri, “Come As You Are”. Ma il lavoro del fidato Kevin Kerslake, che pure ha abbozzato qualcosa, non soddisfa i componenti della band.
In una situazione di stallo ecco dunque sopraggiunger il Deus ex machina Anton Corbijn.
Fotografo di acclamate rockstar (U2, Depeche Mode), regista di cortometraggi (“Enjoy The Silence”) e lungometraggi (il recente “Control”), l’olandese allora trentottenne, riceve l’incarico per dirigere le riprese del videoclip nell’agosto del 1993. In una recente intervista ha onestamente ammesso di aver riprodotto in toto l’idea di base concepita da Kurt, “ragazzo gentile ed educato”, e di aver aggiunto solo pochi particolare (i corvi posticci e i primi piani “fuori fuoco” di Cobain).
Nel fotogramma iniziale una ripresa dall’alto cristallizza la scena che apre e chiude il video.
Sull’incedere solenne che parte in sottofondo, un vecchio giace infermo sul letto di un ospedale.
Preoccupati o forse solo rassegnati, Kurt Cobain, Krist Novoselic e Dave Grohl, siedono al capezzale in attesa che gli eventi compiano il loro inevitabile corso. Una tenda semichiusa sulla finestra lascia aperto un varco, permettendo ad un raggio di sole di concludere la sua traiettoria proprio sul volto di Kurt: una sorta di “occhio di bue” che indica il vero protagonista della storia.
Ricco di contraddizioni il video, da questo momento in poi, mostra una serie di immagini tormentose e cupe proprio come il suono prodotto dalla combinazione tra un’inconsueta Univox Hi-Flyer (chitarra) e un Echo Flanger (un effetto per chitarra).
Proprio sul mesto incipit (“She eyes me like a pisces when I am weak”) il moribondo del fotogramma iniziale ora cammina, praticamente nudo, in un campo di fiori: qui come già nelle “Tre età della donna” di Gustav Klimt, l’inevitabile declino della vecchiaia è rappresentato da allentate forme di un corpo ormai fiacco e scheletrico, mostrato senza pudore.
Ma il fastidio è misto ad una insana ilarità suscitata dalla visione dall’essenziale vestiario, del tutto fuori luogo, che irride l’ottuagenario attore del cortometraggio: ad un subligaculum non si abbina altro che il cappello di Santa Claus.
La vita di Cobain è stata un calvario soprattutto in un periodo che agli occhi dei più è sembrato di massimo splendore, come se il conflitto che ognuno si porta dentro potesse essere pacificato con uno spropositato conto in banca e una copertina su Rolling Stone! Forse a questo pensiero sembra portare la metafora del vecchio che cammina in un campo di papaveri e che spontaneamente si arrampica su una croce per immolarsi. Crocifisso, sopporta le angherie di corvi neri che si beffano della sua sofferenza mentre attorno c’è un desolante vuoto.
Flash di una bimba in abito talare bianco ma che, intriso di fango che pare inchiostro, diventerà ben presto nero: salta verso l’alto nel tentativo di prendere feti impiccati ad un albero ormai secco. Immagine che si alterna alla figura femminile solo più grassa, ripresa sulla copertina di “In Utero”, che cammina verso gli embrioni umani senza muovere un passo. Nessuna delle due riesce nel proprio intento.
Il vecchio, intanto, appare ancora in croce con una mitra a sostituire il copricapo di Babbo Natale, mentre la costante presenza dei corvi concretizza un infausto presagio. Un simbolismo questo, che per metà evoca una poesia di Edgar Allan Poe, e per metà attinge al racconto mitologico del supplizio inflitto dall’aquila a Prometeo.
Tra immagini della band che suona e primissimi piani degli occhi imploranti di Cobain, che urla di aspettare perché “ho una nuova malattia”, il racconto si avvita sull’eterno dilemma: cos’è la scatola a forma di cuore? Un riferimento a Courtney Love? Al suo sesso? O forse è un luogo metafisico ove poter custodire i ricordi più cari e relegare i desideri più reconditi?
Difficile interpretare l’enigmatico testo confluito in queste astruse immagini. Un videoclip che contiene diapositive dal messaggio cifrato, come alcuni sogni, confusi ma paurosamente nitidi, tanto da sembrare ricordi di vita vissuta.
Un intricato mosaico tra figure angeliche e demoniache, pregno di oscure premonizioni, da cui sarebbe stato auspicabile, proprio come per alcuni sogni, rifuggire.
Kurt Cobain (20 feb. 1967 - 5 apr. 1994)
Queste righe trovano spazio anche su Revolving Doors
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