Con queste poche righe, infatti, intendo rendere tributo all’opera realizzata da coloro che hanno dedicato lunga parte del proprio cammino a qualcosa che oggi - nell’epoca del “tutto, subito e magari nel computer” - risulta incomprensibile.
Esistevano un bel po' di tempo fa delle pubblicazioni periodiche monotematiche, incentrate sul lavoro di un determinato artista o gruppo. Non si trovavano in edicola e avevano un singolare appellativo: “fanzine” (termine nato dalla commistione dei vocaboli inglesi “fan” e “magazine”). Quando affermo “un po’ di tempo fa”, intendo nell’era che precede l’avvento della rete, quando gestire una fanzine significava sacrificare tempo e soldi per un progetto destinato ad esclusivo uso e consumo di aficionados e che, nella migliore delle ipotesi, sarebbe rimasto di nicchia. Qui mi riferisco esclusivamente a quelle musicali (ne esistevano a bizzeffe e per ogni argomento).
Fino a dieci anni fa era l’unico strumento fruibile dai fans più puntigliosi per ampliare le conoscenze circa il passato del proprio idolo, ed era il solo mezzo di comunicazione per avere accesso alle ultime (più o meno) news.
Ovviamente non scarseggiavano le rogne per il curatore che doveva aggiornarsi continuamente tramite la raccolta di informazioni (possibilmente attendibili) sull'artista, doveva reperire interviste da tradurre (dai giornali esteri, quindi, in lingua estera se l'artista era straniero), doveva recensire gli albums, doveva ricercare foto nuove, e chissà di quanti altri oneri doveva farsi carico.
Era fondamentale, poi, impaginare il tutto in modo degno, stampare, autofinanziarsi (attraverso la raccolta di abbonamenti) e inviare per posta il giornale a tutti gl'iscritti. Occorre ricordare inoltre, che l’unico strumento di “marketing” - dettaglio non di poco conto - era il tam-tam tra i fans!
Un lavoraccio assolutamente “casalingo” ma genuino, perché fatto per pura passione a guadagno zero.
Oggi tutto questo non ha più alcun senso (o forse no?): le informazioni, le interviste, sono facilmente reperibili tramite internet per mezzo delle mailing lists, delle webzines, dei blogs, et simili (i “killers” delle fanzines).
Non è un caso se alcune riviste specializzate sono diventate (non a torto) storiche, e oggi, si trovano solo sul sito delle aste online “eBay” spesso a prezzi inaccessibili.
A stagliarsi tra tutte quelle esistenti negli ’80 e ’90, a detenere i contenuti di maggiore qualità, a presentarsi ai nostri occhi con un’impaginazione che all’epoca era assolutamente lussuosa e all’avanguardia e, soprattutto, ad allegare il mitico CD live, era solo l’insostituibile ed imperdibile "Follow That Dream".
Se eri fan di Springsteen DOVEVI averla! Oggi il suo creatore, Ermanno Labianca, oltre a scrivere libri, a collaborare con riviste musicali, ecc., tiene il suo blog da da queste parti.
Quelle che ho potuto acquistare all’epoca della pubblicazione, sono gelosamente custodite nel loro scrigno insieme ad un mucchio di ricordi di quel tempo e, garantisco, è una gioia maneggiarle, sfogliarle, rileggerle dopo anni.
Un po’ come i vecchi vinili. Come? I dischi a microsolco? Esistono ancora? Nell’epoca del digital download? Sì e … al diavolo, stanno prepotentemente tornando sul mercato!
Anzi come Ed Vedder urlava in tempi non sospetti “Spin the black circle!” (“la copertina di cartone/ Oh, che gioia ... solo tu [disco, ndr] sei degno di vanità”).
Sì! E’ così che ti senti a mettere sul giradischi un vinile o a prendere in mano un vecchio pezzo di carta spruzzato d’inchiostro. Vallo a spiegare a chi ha il pc pieno di “mp3” e “jpg”!
A titolo personale poi, non posso che spendere parole affettuose anche per un’altra fanzine.
Mi riferisco a “Madreperla”: ne sono stato regolarmente iscritto per tutta la sua “vita su carta” (1997-2004). Era egregiamente gestita da Valeria che oggi, principalmente, si occupa dell'organizzazione di eventi di una certa portata.
Proprio lei mi chiese di poter pubblicare nel 2002, una mia recensione su Rioct Act.
Quel disco mi ha lasciato interdetto. Perché? Beh, c'è scritto nell'articolo comparso sul n. 17 di Madreperla! Lo ripropongo qui sotto anche se ... va preso per quello che è: il primo tentativo di recensione, totalmente naïf (molto più degli altri qui presenti!) ed imperfetto. Ma proprio per questo ci tengo a replicarlo nella sua originaria versione.
Riot Act, Pearl Jam (2002) - Anche l'occhio vuole la sua parte e, come ormai succede da Vitalogy ('94), i sapienti Pearl Jam pubblicano l'ultimo lavoro in una confezione cartonata ben curata, contenente foto in studio di registrazione, disegni e l'elaborazione dei testi scritti di pugno o con la vecchia macchina di Ed.
La cover foto riproduce una scultura, tutt'altro che allegra, appositamente commissionata dai ragazzi ad un'artista amica di Seattle, tale Kelly Gilliam. La scultura è metaforicamente riferita ad una vecchia legge, in parte simile ad una approvata di recente negli States, molto restrittiva, ma il tutto è molto contorto: meglio lasciar perdere, in questo caso, e pensare alla musica.
Dedicato agli scomparsi John Entwistle (bassista negli Who) Dee Dee Ramone (bassista nei Ramones) e a Ray Brown (?), l'album, risulta al primo ascolto ... "diverso". Per i miei gusti è a tratti troppo soft ed "elettronico" (non per gli strumenti, ma per gli effetti delle chitarre, vedi You Are) e, a volte - qui rischio la pelle - banale nei riff strumentali e nei testi - aiuto! - .
Insomma sembrerebbe un po' troppo commerciale, visto che mancano le schitarrate dei bei tempi, penso ad Alive, Rearviewmirror, Last Exit, Hail hail, Brain of J, e ad i testi taglienti di Jeremy, Daughter e Immortality, giusto per citare qualche capolavoro. In Riot Act mancano la verve di Mike e la genialità di Stone, Jeff è meno originale del solito e per piacere, fate stare seduto e zitto Matt a fare i compiti per casa. Dopo un più maturo ascolto, però, risulta chiaro come il gruppo stia seguendo un percorso iniziato da molto tempo.
C'è un filo conduttore che lega tutti gli album realizzati da Ten a Riot Act, sia pure con mille dettagli differenti.
Tra queste due incisioni sono trascorsi circa dieci anni, non una eternità, ma ne è passata di acqua sotto i ponti (nascita e morte di un movimento - il "Grunge" - mai esistito, il dramma di Cobain, la tragedia di Roskilde e molto altro) e i ragazzi, nel mezzo, sono stati assurti (o forse immolati) a nuovi dèi del rock. Le incisioni, quindi, vengono effettuate in diversi periodi storici e mutati contesti culturali, varia il substrato dove germina il seme che diventa l'LP sul nostro giradischi, vinile che lascia sgorgare dai solchi esperienze intraprese dai ragazzi in altre band (penso alla recente sortita di McCready con i Wallflowers, non proprio sullo stesso ramo dei P.J. nell'albero genealogico del rock), progetti paralleli che accrescono la cultura dei singoli musicisti (più di tutti ne ha fruito Vedder, sin dall'esordio grande come cantante, diventato in seguito bravo come musicista). E' sempre il sentimento, però, a condurre i nostri, lungo la rotta.
Insomma i ragazzi sono cresciuti e ci hanno raccontato la loro crescita: e, la crescita porta inevitabilmente dinnanzi a mille direzioni diverse e, scegliere, rimanendo "fedeli alla linea", essere coerenti (mi riferisco solo ed esclusivamente alla direzione musicale e non ideologica del gruppo) non è sempre facile, anche perchè si correrebbe il rischio di ripetersi all'infinito, vivendo sui fasti del passato. I Pearl Jam si sono rinnovati in un primo tempo con No Code ('96), e poi credo che anche Binaural abbia solcato nuovi mari (ma è stato un quasi naufragio). Voltare pagina è coraggioso ed apprezzabile. Ciò che però non mi va' a genio è la totale mancanza di epicità, così tipica nei primi tre album. Mi manca e da troppo ormai, il pezzo alla Pearl Jam, quello col marchio di fabbrica, che metti sù fino a consumare il vinile, il cd o il nastro. Quello che ti fa alzare di una tacca e un'altra un po' il livello del volume, e ti fa' rischiare lo sfratto per disturbo alla quiete pubblica. Un tempo mi arrabbiavo nel sapere che State of Love and Trust era uno scarto (!) di Ten e che God id è entrato in un misero mini-cd, senza godere di altro successo. Oggi i Pearl Jam mettono su disco composizioni che un tempo sarebbero state outtakes. Le musiche, ora, hanno un taglio diverso poichè nel line up, c'è un nuovo elemento. Nello specifico, Kenneth "Boom" Gaspar dietro le tastiere, dà più corpo al sound, ma questo, è molto spesso un limite più che un vantaggio, poichè non ritengo si sia amalgamato granchè col gruppo. Il suono delle tastiere non è stato inserito a dovere nel contesto musicale, insomma, non s'incastra ad arte con chitarre e sezione ritmica. Per esempio in Love Boat Captain, scritta pensando all'incubo di Roskilde ("Lost nine friends we'll never know ... 2 years ago today") l'organo, quando parte in primo piano, respinge l'ascoltatore, e costringe Ed ad un cantato disomogeneo. In modo parziale, anche I Am Mine è succube del nuovo arrivato.
In tal senso una grossa mano l'avrebbe potuta dare proprio quel Brendan O'Brien, relegato al mixaggio, e che, sarebbe stato più prezioso anche in qualità di produttore, soprattutto dopo
l'esperienza vissuta con Bruce Springsteen (ha prodotto The Rising, in assoluto il miglior album del 2002, e non temo smentita) che ha una band dove convivono tre chitarre, ben due tastiere (generalmente proprio l'organo Hammond B3 ed il pianoforte) ed un sax insieme al resto della band, la precisa e martellante sezione ritmica della E Street. Nella vecchia veste, avrebbe sicuramente apportato know how alla band: peccato, sarà per il prossimo disco (Riot Act è prodotto da un professionista di tutto rispetto, Adam Casper, che ultimamente ha lavorato anche per Foo Fighters e Qeens of the Stone Age con ottimi risultati).
Va' cosiderato, inoltre, un dato statistico di non poco conto: dopo alcune stagioni insieme, molte rock band "muoiono" (in ordine sparso mi vengono in mente Soundgarden, Alice in Chains, Clash) oppure l'edonismo del frontman o contrasti vari (stando alle notizie riportate dalla stampa specializzata) portano allo scioglimento del gruppo (andando un po' indietro, cito i Beatles, poi i Police e, ahimè solo "ieri" i Rage Against The Machine, ...).
Ed, Stone, Mike e Jeff, sono ancora lì (mi sarebbe piaciuto poter ancora annoverare tra questi nomi Dave Abruzzese, a mio avviso il drummer che più di tutti sembrava nato per il Pearl Jam sound): questa è la loro forza.
Suppongo che dopo ore di registrazione in sala e svariati tour, si crei un'intesa eccezionale, suppongo che dopo tanti anni insieme, si parta in quarta per la preparazione del nuovo album, suppongo si diventi una famiglia (e non sempre è un bene perchè si perde un po' di furore), oppure mentono alla grande e ci fanno credere che è tutto rose, fiori e chitarre (bisogna pensarle tutte quando si "alza" una grossa mole di denaro: tutti chi più chi meno, ne sappiamo qualcosa).
Forse proprio per "rinnovare un po' l'ambiente" e dare nuovo impulso alle composizioni hanno invitato il capelluto tastierista.
Fortunatamente è la vena polemica ancora a trasparire dai solchi del disco, oggi come ieri. Sono ancora lì a puntare il dito: un tempo contro coppie che non hanno preso la patente da genitore, pronti ad ingabbiare i "ratti", denunciare i "dissidenti", contro lo showbiz (No video, thanks!), contro chi vieta il diritto all'aborto, contro le molestie alle donne, contro i maltrattamenti nei confronti degli animali, contro chi detiene un monopolio, Tiketmaster e Microsoft (a tal proposito che farebbero a Berlusconi, se fossero italiani?), pronti a sposare la causa tibetana e a sostenere le vittime di quel dannato 11 settembre. Bravi, davvero, anche e soprattutto nello schernire apertamente il presidente degli U.S.A. (per quel poco che ho capito, un burattino nelle mani delle lobbi americane) e a dirgli, in più di un brano, come la pensano sulle sue gratuite idee bellicose. Help help, per esempio, mi ha favorevolmente colpito. Musicalmente non funziona molto, ma contiene forse i versi più belli ed attuali di tutto l'album. Ed canta nel testo scritto da Jeff: "The man they call my enemy, I've seen his eyes/ He looks just like me, a mirror/ The more you read, we've been deceived/ Everyday it becomes clearer" ed ancora "Not my enemy ... no, not my enemy/ Don't speak for me". Sono versi che sposano le mie idee.
Credo che Riot Act pur non convincendo, sia un buon album, assolutamente da non ritenersi il migliore della produzione Pearl Jam (nella mia personalissima classifica non arriva sul podio), ma di sicuro da collocare tra i migliori del 2002.
In conclusione, sintetizzerei con un voto il lavoro del gruppo, ma lo tengo per me, perchè odio i professori ed io non voglio giudicare come solo loro fanno: dando i numeri!
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Epilogo. Intanto ho scoperto chi è Ray Brown: è un musicista jazz, virtuoso del contrabbasso. Anche lui ha lasciato questo mondo nel 2002. Era sposato con la "First Lady Of Song" Ella Fitzgerald (1917-1996). Alla notizia del terzo bassista morto in un anno, suppongo che Jeff Ament abbia fatto scongiuri come non mai!
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