Una manciata di lettere designano nome del gruppo e titolo del disco: RNDM, Acts.
Un parsimonioso formalismo estetico che contrasta con il florido risultato di una proposta dalle diverse anime. I RNDM nascono per volere di Jeff Ament, stacanovista del rock e membro fondatore dei Pearl Jam. Joseph Arthur e Richard Stuverud completano un gruppo che esalta le sfaccettature del rock made in Usa, professando credo punk e dottrina funk. Dietro la consolle, a garantire un suono rocciosamente liquido, Brett Eliason (figura di spicco nel suo campo).
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sabato 29 dicembre 2012
mercoledì 26 dicembre 2012
Underdog - Keep Calm
“Un uomo è i vizi che si paga, non è il suo lavoro, non è la sua carriera, non è la macchina, non i soldi”. Si può condividere o meno, ma è così che Diego Pandiscia, cantante e bassista degli Underdog, presenta dal vivo Empty stomach (pancia vuota). Il brano è racchiuso nell’ultimo Keep Calm, sorta di contenitore di ansie e referente di tribolazioni patite da chi deve arrabattarsi per andare avanti.
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domenica 23 dicembre 2012
Alberto Milani - Stories by the Bridge
Esporsi come “semplici strumentisti” è difficile ma non impossibile se la dote supporta talento ed espressività.
Alberto Milani detiene passione e tecnica che, attraverso la sua chitarra elettrica, lascia trasparire certificando virtuosismo compositivo ed esecutivo. Tra lick, scale e assolo funamboleschi il trentenne friulano propone Stories by the Bridge, raccolta di brani fusion che si stagliano in quella terra di mezzo fertile di improvvisazioni jazz, di asperità rock e di sporadiche tentazioni blues.
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venerdì 21 dicembre 2012
Renzo Rubino e il suo "pop" tra "bignè" e "milioni di scintille"
Renzo Rubino compone musica, suona il piano, non vuole chitarre tra i piedi e canta con enfasi i suoi testi pletorici su sentimenti, quotidianità e irresistibili dolciumi. La vena ironica (e autoironica) è forte, l’identità cantautorale è netta. L’imperante assenza di logica tra certe dinamiche del nostro tempo infervora l’immaginario di Rubino che sugli incagli personali erige, con le parole, monumenti stralunati, problematici, dal taglio caustico. Farfavole è il primo vero disco inciso dal giovane pugliese, sette brani per rimarcare nobili sentimenti e piccole trasgressioni alimentari. Poco più di venti minuti per sgrovigliare nodi emozionali inclusi quelli che ispirano voluttà o che mettono a nudo l’indole cedevole dell’uomo bramoso al cospetto di un Bignè (brano vincitore al festival Musicultura 2011). Canzoni come Balla e Canta, e Pornokiller mostrano abilità allusive ed evocative difficili da ritrovare in giovani compositori italiani. Valori ancora più amplificati dalla matura scelta di chiudere Farfavole con la dotta citazione di Milioni di Scintille – rifacimento di un brano scritto da Modugno – con il prezioso cameo del trombettista Fabrizio Bosso.
In questi giorni, nell’archivio musicale di Rubino, ha trovato spazio anche il nuovo singolo Pop. Accompagnato da un video che ne comprova le doti di primo attore, il brano cerca di risolvere un quesito tanto annoso quanto retorico: “di che diavolo parlano i discografici quando chiedono agli artisti di essere POP”? Intanto, al lavoro per il nuovo album che vedrà la luce nel prossimo anno, il martinese si appresta a partecipare alla prossima edizione di Sanremo Giovani con il pezzo intitolato Il postino, già disponibile sul sito web della Rai.
martedì 18 dicembre 2012
Sound City
Anche la musica ha i suoi santuari. Templi in cui raccogliere le idee, trovare la concentrazione, ricreare quel sound che ronza in testa, scovare la nota giusta che fa vibrare il cuore. Luoghi in cui provare a trasformare una suggestione personale in un balsamo universale.
A Los Angeles, ad esempio, ci sono i Sound City Studios: un'istituzione, il laboratorio dove Neil Young ha inciso After The Gold Rush e i Nirvana Nevermind.
Proprio all'ex batterista di questi ultimi, Dave Grohl, è venuto in mente di girare, nelle inedite vesti di regista, un documentario sui leggendari studi siti nel distretto losangelino di Van Nuys.
Il film si chiama proprio Sound City e porta in dote una nutrita serie di testimonianze. Ad aprire l'archivio delle memorie si sono prestati primi attori del rock come Tom Petty, John Fogerty, Lars Ulrich, Josh Homme, Rick Rubin e lo stesso Grohl (solo per citarne alcuni). Storie, curiosità, aneddoti e l'accento posto sul dualismo vissuto oggi in sala d’incisione tra la sconfinata offerta tecnologia del digitale e quel "calore" vintage e romantico che solo l’analogico pare forgiare. Questo, in sintesi, il soggetto del lungometraggio. Ma l'atteso progetto non si esaurisce qui. Il raduno in una location così prestigiosa ha invogliato il cast a realizzare brani inediti inclusi nella compilation Sound City: Real To Reel, complemento sonoro alle immagini. Dave, collante di queste super band, suona in tutti i pezzi. Il disco annovera anche quella Cut Me Some Slack da lui eseguita insieme a Paul McCartney, Krist Novoselic e Pat Smear il 12 dicembre scorso al Madison Square Garden, durante il concerto per la raccolta fondi in favore delle vittime dell'uragano Sandy. La pellicola verrà presentata al Sundance Film Festival il 17 gennaio prossimo, ma è già pre-ordinabile tramite iTunes.
Il film si chiama proprio Sound City e porta in dote una nutrita serie di testimonianze. Ad aprire l'archivio delle memorie si sono prestati primi attori del rock come Tom Petty, John Fogerty, Lars Ulrich, Josh Homme, Rick Rubin e lo stesso Grohl (solo per citarne alcuni). Storie, curiosità, aneddoti e l'accento posto sul dualismo vissuto oggi in sala d’incisione tra la sconfinata offerta tecnologia del digitale e quel "calore" vintage e romantico che solo l’analogico pare forgiare. Questo, in sintesi, il soggetto del lungometraggio. Ma l'atteso progetto non si esaurisce qui. Il raduno in una location così prestigiosa ha invogliato il cast a realizzare brani inediti inclusi nella compilation Sound City: Real To Reel, complemento sonoro alle immagini. Dave, collante di queste super band, suona in tutti i pezzi. Il disco annovera anche quella Cut Me Some Slack da lui eseguita insieme a Paul McCartney, Krist Novoselic e Pat Smear il 12 dicembre scorso al Madison Square Garden, durante il concerto per la raccolta fondi in favore delle vittime dell'uragano Sandy. La pellicola verrà presentata al Sundance Film Festival il 17 gennaio prossimo, ma è già pre-ordinabile tramite iTunes.
martedì 4 dicembre 2012
Medimex 2012
I workshop di Nicola Piovani e di Guido Harari, gli showcase, le rivelazioni dell’impresario di Springsteen sul prossimo tour italiano, i concerti del redivivo Edda e del sorprendente Luca Sapio. Sono solo alcuni degli eventi presentati al Medimex (Mediterranean Music Expo), la fiera della musica che si conferma punto d’incontro privilegiato per chi vuole trasformare le opportunità artistiche in lavoro.
Si è chiusa la ricca tre giorni del MEDIMEX, Fiera delle Musiche del Mediterraneo, promossa da Puglia Sounds il programma della Regione Puglia per lo sviluppo del sistema musicale. Anche per questa seconda edizione la città di Bari ha messo a disposizione gli imponenti 8000 mq di spazio espositivo per accogliere, dal 30 novembre al 2 dicembre, interessanti incontri, eventi esclusivi ed energici concerti. Tra gli showcase della prima serata quello dei Nobraino ha colpito per impatto sonoro e vitalità sprigionata nell’arco di soli quaranta minuti. Il pubblico avrebbe desiderato godersi più a lungo il dinamismo bruciante del gruppo, ma la serafica ammissione di Lorenzo Kruger (“il vostro parere non conta un cazzo e se è per questo nemmeno il nostro”) ha lasciato intendere che non ci sarebbe stata alcuna possibilità di sforare sul programma. Singolare anche lo show successivo. Enzo Avitabile coinvolge con una performance che canalizza fiati e percussioni (straordinario l’impatto della backing band dei Bottari) dentro la sua world music dal mood partenopeo. Unico rimpianto della serata, l’esordio in tarda serata per Frankie Chavez, bluesman portoghese, costretto ad esibirsi dopo la mezzanotte.
Tra i numerosi workshop merita una menzione particolare quella denominata “La bottega dell’autore”, incentrata su figure di rilievo della nostra musica. Ambasciatori nel mondo dell’arte italiana, Nicola Piovani e Guido Harari sono campioni del pentagramma e dell’immagine del nostro tempo. Nicola Piovani si definisce fautore del libero pensiero (“che non va tanto di moda, oggi”) e lo conferma donando nuova linfa al latinismo Amicus Plato, sed magis amica veritas, una sentenza in cui crede fermamente e che designa la rotta artistica di un percorso polimorfo. La notorietà ricevuta con i suoi lavori per il cinema focalizza il racconto. Gli aneddoti sui grandi registi con i quali ha collaborato sono molti e sono pregnanti. C’è una storia da raccontare per ogni partitura scritta, per ogni colonna sonora realizzata. Piovani passa in rassegna il rapporto con Bellocchio, la verbosa laboriosità preda dei fratelli Taviani, l’alacrità di Fellini, la genialità di Benigni e la maniacalità di Moretti. C’è spazio anche per la confessione che conferma il suo approccio diversificato all’arte musicale. In anteprima, Piovani rivela di aver messo mano ad un lavoro tutto suo, un album di 12 canzoni che verrà pubblicato dalla Sony. Tra serenate, macchiette e temi popolari il maestro annuncia di aver “già scritto 11 brani strumentali da un minuto e mezzo” con alcuni testi autografi, altri firmati da Noa, Benigni, Cerami e, a quanto pare, uno che riprende parole di Pirandello. Canzoni legate da un accordo: lo stesso che provvede a spegnere il pezzo è lo stesso che lo riaccende. Nell’album troverà spazio anche “una specie di esercizio di stile”, una canzone spagnola posticcia e fintamente tradotta in italiano in cui si cerca di riprodurre il sentimento di certe vecchie melodie. Non emerge durante l’incontro ma, con lo scambio di battute che avviene dopo, il compositore afferma che De Gregori sarà ospite di questo suo primo progetto “pop”, in una sorta di scambio di partecipazioni. I due, infatti, hanno iniziato a collaborare con “Guarda che non sono io” (tratto dal nuovo Sulla Strada), brano che vede la firma di Piovani sull’arrangiamento di archi. E anche qui, come spesso gli è successo, il premio Oscar ha assolto ad una richiesta inaspettata con l’urgenza propria del luminare di medicina che soccorre il paziente. «Mi ha chiamato la sera prima (De Gregori, ndt) perché doveva inserire gli archi. Mi ha detto: “Solo pianoforte non regge, mi aiuti?”. Lui sta lavorando ad un disco mio e io ho scritto gli archi e glieli ho portati».
“La musica dal vivo in Europa: esperienze a confronto, prospettive e sinergie” è il titolo dell’incontro moderato dal giornalista Enzo Gentile. Tra gli interventi anche quello di Claudio Trotta, fondatore di Barley Arts Promotion, che espone la sua tesi circa il successo dei festival stranieri. "I festival in Europa sono così di successo perché bevono molto (gli spettatori, ndt) ma molto più di noi. Sembra una stupidaggine, invece è un elemento fondamentale perché dalla ristorazione gli organizzatori prendono dei ricavi altissimi". Gelo in platea e stupore tra gli altri ospiti (tra cui i giovani stranieri Andras Berta, International Relations Director Sziget Festival, e Ivan Milivojev, program manager EXIT Festival), ma se a dirlo è il navigato impresario che porta Springsteen in Italia ci sarà pure da credergli. Anzi proprio sulla pianificazione del concerto organizzato a Napoli, per il prossimo 30 maggio, Trotta spiega perché la scelta è ricaduta sulla città partenopea e non su Bari, anch'essa tra le città candidate ad ospitare una tappa italiana del Wrecking Ball Tour 2013. “Michele Emiliano (sindaco del capoluogo pugliese) si è speso personalmente, mi ha telefonato, mi ha offerto gli spazi. E' stata fatta una scelta da me e dal management dell'artista che ha preferito all'Arena della Vittoria (il vecchio stadio di calcio di Bari, ndt) la Piazza del Plebiscito (a Napoli, ndt). Punto e basta. E' semplicemente un ragionamento che riguarda la location. Per quanto attiene lo Stadio San Nicola (il maggiore impianto sportivo di Bari con spalti molto distanti dal terreno di gioco, ndt) già durante le partite bisogna immaginare i calciatori, figurarsi per un concerto! Non è nella filosofia di come cerco di organizzare i concerti di Bruce. Aggiungo che sono anni che tento di fare concerti di Springsteen con la E Street Band al sud. Addirittura – vi svelo un retroscena – quest'anno volevo organizzarne due, di cui uno in Sicilia. Non sono riuscito a farlo per problemi di natura geografica".
Nello spazio adiacente gli stand della fiera, si tiene la cerimonia di consegna del PIMI – Premio Italiano Musica Indipendente a cura del MEI. Sul palco si alternano i premiati tra i quali il redivivo e folle Edda (ex Ritmo Tribale), lo schivo Colapesce e i tenebrosi Afterhours, ma a smuovere i pochi spettatori presenti ci pensa un Luca Sapio in palla, esponente della black music più tradizionale e trascinante.
Il sipario si chiude sulla ben organizzata kermesse barese. I protagonisti della musica hanno avuto modo di incontrare gli addetti ai lavori e gli appassionati. Tra il tripudio di certa scena indie-ma-non-troppo, il sollazzo di austere major e meeting di grande prestigio permangono alcuni dubbi. Ad esempio, perché i workshop devono ancora oggi presidiarli Assante e Castaldo? Perché l’assegnazione di alcuni premi resta ad esclusivo appannaggio di XL-Repubblica e Mucchio? “La musica è lavoro” è uno degli slogan creati per questa fiera. Sarebbe vero se solo si vedessero lavorare facce nuove accanto ai soliti noti.
Si è chiusa la ricca tre giorni del MEDIMEX, Fiera delle Musiche del Mediterraneo, promossa da Puglia Sounds il programma della Regione Puglia per lo sviluppo del sistema musicale. Anche per questa seconda edizione la città di Bari ha messo a disposizione gli imponenti 8000 mq di spazio espositivo per accogliere, dal 30 novembre al 2 dicembre, interessanti incontri, eventi esclusivi ed energici concerti. Tra gli showcase della prima serata quello dei Nobraino ha colpito per impatto sonoro e vitalità sprigionata nell’arco di soli quaranta minuti. Il pubblico avrebbe desiderato godersi più a lungo il dinamismo bruciante del gruppo, ma la serafica ammissione di Lorenzo Kruger (“il vostro parere non conta un cazzo e se è per questo nemmeno il nostro”) ha lasciato intendere che non ci sarebbe stata alcuna possibilità di sforare sul programma. Singolare anche lo show successivo. Enzo Avitabile coinvolge con una performance che canalizza fiati e percussioni (straordinario l’impatto della backing band dei Bottari) dentro la sua world music dal mood partenopeo. Unico rimpianto della serata, l’esordio in tarda serata per Frankie Chavez, bluesman portoghese, costretto ad esibirsi dopo la mezzanotte.
Tra i numerosi workshop merita una menzione particolare quella denominata “La bottega dell’autore”, incentrata su figure di rilievo della nostra musica. Ambasciatori nel mondo dell’arte italiana, Nicola Piovani e Guido Harari sono campioni del pentagramma e dell’immagine del nostro tempo. Nicola Piovani si definisce fautore del libero pensiero (“che non va tanto di moda, oggi”) e lo conferma donando nuova linfa al latinismo Amicus Plato, sed magis amica veritas, una sentenza in cui crede fermamente e che designa la rotta artistica di un percorso polimorfo. La notorietà ricevuta con i suoi lavori per il cinema focalizza il racconto. Gli aneddoti sui grandi registi con i quali ha collaborato sono molti e sono pregnanti. C’è una storia da raccontare per ogni partitura scritta, per ogni colonna sonora realizzata. Piovani passa in rassegna il rapporto con Bellocchio, la verbosa laboriosità preda dei fratelli Taviani, l’alacrità di Fellini, la genialità di Benigni e la maniacalità di Moretti. C’è spazio anche per la confessione che conferma il suo approccio diversificato all’arte musicale. In anteprima, Piovani rivela di aver messo mano ad un lavoro tutto suo, un album di 12 canzoni che verrà pubblicato dalla Sony. Tra serenate, macchiette e temi popolari il maestro annuncia di aver “già scritto 11 brani strumentali da un minuto e mezzo” con alcuni testi autografi, altri firmati da Noa, Benigni, Cerami e, a quanto pare, uno che riprende parole di Pirandello. Canzoni legate da un accordo: lo stesso che provvede a spegnere il pezzo è lo stesso che lo riaccende. Nell’album troverà spazio anche “una specie di esercizio di stile”, una canzone spagnola posticcia e fintamente tradotta in italiano in cui si cerca di riprodurre il sentimento di certe vecchie melodie. Non emerge durante l’incontro ma, con lo scambio di battute che avviene dopo, il compositore afferma che De Gregori sarà ospite di questo suo primo progetto “pop”, in una sorta di scambio di partecipazioni. I due, infatti, hanno iniziato a collaborare con “Guarda che non sono io” (tratto dal nuovo Sulla Strada), brano che vede la firma di Piovani sull’arrangiamento di archi. E anche qui, come spesso gli è successo, il premio Oscar ha assolto ad una richiesta inaspettata con l’urgenza propria del luminare di medicina che soccorre il paziente. «Mi ha chiamato la sera prima (De Gregori, ndt) perché doveva inserire gli archi. Mi ha detto: “Solo pianoforte non regge, mi aiuti?”. Lui sta lavorando ad un disco mio e io ho scritto gli archi e glieli ho portati».
Nella hall che ospita il workshop incentrato sul suo straordinario lavoro, Guido Harari si presenta pimpante e pieno di entusiasmo. Aspetto giovanile e battuta sempre pronta, il fotografo del rock per eccellenza dispensa sorrisi, autografi e risulta espansivo oltre ogni immaginazione. La sua bottega elabora immagini, cattura lo sguardo, ruba l’essenza dell’artista, ne immortala il mito. Harari ha iniziato quarant’anni fa una carriera costellata di successi che forse non ha eguali. Più facile ricordare i nomi di chi non ha posato per lui piuttosto che elencare quelli che si sono prestati ai suoi flash. Ha fermato la giovinezza e l’umore di tutti, e con tutti è riuscito ad instaurare un rapporto confidenziale che ha portato la sua opera ad uno stadio successivo alla mera pubblicità, un livello così elevato da risultare quasi mistico. Bob Marley manifestava la sua identità attraverso l’ostentazione dei dreadlocks, eppure Harari ha fotografato il volto del rastafariano in primo piano, tra chiaroscuri del bianco e nero che ne inghiottiscono la capigliatura. Un esperimento coraggioso, avallato da un artista che si è concesso in piena rilassatezza all’occhio indagatore della macchina fotografica. Harari ha mantenuto un rapporto sincero con artisti altezzosi, star di prima grandezza cresciute a vizi e abituate a scansare chiunque per puro capriccio. Con Lou Reed, l’orso per antonomasia del mondo rock, si è instaurata un’affinità che ha aperto a concessioni inverosimili. Non sarebbe difficile trovare risposta, ma quanti fotografi hanno ricevuto la licenza di poter mettere in braccio allo scontroso newyorkese il proprio figlio per poi trarne un profilo intimo ed esclusivo? Quanti hanno avuto modo di confessare le proprie inquietudini a cena con Joni Mitchell? Quanti hanno avuto la possibilità di rappresentare pienamente quella malinconia che ha attanagliato Tim e Jeff Buckley durante la loro breve vita? Forse solo un professionista serio ma dotato di grande empatia. Uno che passa sopra, con leggerezza e signorilità, alla gaffe spettacolare siglata da Ernesto Assante (moderatore dell’incontro) che scambia il lavoro di un altro fotografo per quello di Harari. E’ fatto così il talentuoso reporter, volentieri si presta a posare per una foto ricordo fissando una sola condizione: “non toccarmi il culo”. Il suo lavoro oggi continua, anche se “nell’era dei pass” è difficile frantumare quel naturale schermo che l’artista erige tra sé e il fotografo. E tra una domanda e l’altra salta fuori quella che tira in ballo i musicisti italiani, promotori di modi artefatti in antitesi alla semplicità che accompagna i veri fuoriclasse. Il lungo silenzio introduttivo che caratterizza la risposta, tanto sintetica quanto eloquente, è imbarazzante. Alla ricerca di parole significative Harari cerca di trovare, invano, un perché di tutte quelle sovrastrutture, maglie strette di una trama che filtra ogni accesso. Un’inflessibilità alla cura dell’immagine che pare davvero essere deleteria.
Guido Harari oggi ha sbilanciato la sua opera sul lavoro d’archivio. Nella “residenza per goderecci” di Alba ha fondato una galleria che espone stabilmente ritratti fotografici, suoi e di altri illustri colleghi. La Wall Of Sound Gallery (http://www.wallofsoundgallery.com/) – davvero unica nel suo genere – ospiterà la rassegna “Vinicio Capossela & Tom Waits, le fotografie di Guido Harari” fino al prossimo 20 gennaio. Una imperdibile occasione per ammirare i lavori del grande fotografo, una ghiotta occasione per conoscere l’uomo.
“La musica dal vivo in Europa: esperienze a confronto, prospettive e sinergie” è il titolo dell’incontro moderato dal giornalista Enzo Gentile. Tra gli interventi anche quello di Claudio Trotta, fondatore di Barley Arts Promotion, che espone la sua tesi circa il successo dei festival stranieri. "I festival in Europa sono così di successo perché bevono molto (gli spettatori, ndt) ma molto più di noi. Sembra una stupidaggine, invece è un elemento fondamentale perché dalla ristorazione gli organizzatori prendono dei ricavi altissimi". Gelo in platea e stupore tra gli altri ospiti (tra cui i giovani stranieri Andras Berta, International Relations Director Sziget Festival, e Ivan Milivojev, program manager EXIT Festival), ma se a dirlo è il navigato impresario che porta Springsteen in Italia ci sarà pure da credergli. Anzi proprio sulla pianificazione del concerto organizzato a Napoli, per il prossimo 30 maggio, Trotta spiega perché la scelta è ricaduta sulla città partenopea e non su Bari, anch'essa tra le città candidate ad ospitare una tappa italiana del Wrecking Ball Tour 2013. “Michele Emiliano (sindaco del capoluogo pugliese) si è speso personalmente, mi ha telefonato, mi ha offerto gli spazi. E' stata fatta una scelta da me e dal management dell'artista che ha preferito all'Arena della Vittoria (il vecchio stadio di calcio di Bari, ndt) la Piazza del Plebiscito (a Napoli, ndt). Punto e basta. E' semplicemente un ragionamento che riguarda la location. Per quanto attiene lo Stadio San Nicola (il maggiore impianto sportivo di Bari con spalti molto distanti dal terreno di gioco, ndt) già durante le partite bisogna immaginare i calciatori, figurarsi per un concerto! Non è nella filosofia di come cerco di organizzare i concerti di Bruce. Aggiungo che sono anni che tento di fare concerti di Springsteen con la E Street Band al sud. Addirittura – vi svelo un retroscena – quest'anno volevo organizzarne due, di cui uno in Sicilia. Non sono riuscito a farlo per problemi di natura geografica".
Nello spazio adiacente gli stand della fiera, si tiene la cerimonia di consegna del PIMI – Premio Italiano Musica Indipendente a cura del MEI. Sul palco si alternano i premiati tra i quali il redivivo e folle Edda (ex Ritmo Tribale), lo schivo Colapesce e i tenebrosi Afterhours, ma a smuovere i pochi spettatori presenti ci pensa un Luca Sapio in palla, esponente della black music più tradizionale e trascinante.
Il sipario si chiude sulla ben organizzata kermesse barese. I protagonisti della musica hanno avuto modo di incontrare gli addetti ai lavori e gli appassionati. Tra il tripudio di certa scena indie-ma-non-troppo, il sollazzo di austere major e meeting di grande prestigio permangono alcuni dubbi. Ad esempio, perché i workshop devono ancora oggi presidiarli Assante e Castaldo? Perché l’assegnazione di alcuni premi resta ad esclusivo appannaggio di XL-Repubblica e Mucchio? “La musica è lavoro” è uno degli slogan creati per questa fiera. Sarebbe vero se solo si vedessero lavorare facce nuove accanto ai soliti noti.
domenica 25 novembre 2012
The Mohawk Lodge - Damaged Goods
Solido, con i volumi delle chitarre in bella evidenza, i cori avvolgenti e un cantato dedito alla malinconia. Sono questi gli elementi preponderanti in Damaged Goods, il nuovo album firmato The Mohawk Lodge, collettivo guidato da Ryder Havdale.
Canadese giramondo, Havdale ha registrato dieci pezzi, con altrettanti musicisti, per ricreare un sound pieno, carico di ritmi a metà tra rock e punk. Un imprinting che echeggia tra strutture compatte ma mai ruvide. L’introduzione dell’album è efficace, affidata com’è a colpi d’ariete. Howling At The Moon e Wild Dogs, due pezzi per un totale di tre minuti e diciannove, frantumano da subito ogni ipotetica forma di riluttanza con pattern springsteeniani e torsioni sonore alla maniera di Ryan Adams (quello di Rock N Roll). Giusto il tempo di entrare nel mood dei pezzi e la pressione curva in basso con Light You Up, dalle atmosfere misurate, e con Using Your Love, sing along afflitto da cori ubriachi di frustrazione quietati in un convulso cortocircuito finale.
Havdale ha scritto i brani dopo una tournée europea, scrollandosi di dosso il fardello di sensazioni che, a quanto pare, hanno contribuito ad appesantirne il ritorno a Toronto. Una zavorra di merce danneggiata (damaged goods, appunto) di cui sbarazzarsi al più presto. Per farlo il musicista si è rintanato in un rifugio campestre adatto per seppellire le angosce e rievocare astrazioni buone per essere fissate su demo. Concetti eterogenei – quali il voodoo, le notti d’estate, i lunghi viaggi e certe impressioni ad un passo dalla morte – animano canovacci poi riarrangiati con la band.
A metà del racconto, febbrili visioni personali schiudono una fessura temporale che evoca magia dal passato. E’ una parentesi sospesa, un inciso che provvede a spezzare la concatenazione tra i timbri rock degli anni ’90 e i richiami riot dei ’70. “You just keep me hanging on” è solo una perifrasi, ma vale un mondo intero: dà valore aggiunto ad un tema ormai abusato. Inclusa in Hard Love, la lirica dà l’impressione di trarre ispirazione dal Lou Reed della celeberrima Perfect Day.
In Damaged Goods, i suoni familiari non si insinuano, ma si esaltano distintamente (e non in una accezione negativa). Qualcuno dice che il rock non dovrebbe rasserenare, ma scuotere. Eppure, di tanto in tanto, è bello tenere le terga al caldo. L’impeto controllato di Voodoo e il languido fluire di 1000 Violins offrono conforto alla tesi. Gold Rivers, struttura regolare e voce sbilenca, è bella su disco ma induce ad ipotizzare scenari sfavillanti dal vivo, in quella dimensione che i Mohawk Lodge reputano fondamentale (il tour italiano farà tappa il 28 novembre a Roma, il 29 a Milano e il 30 a Sermide).
Damage Goods è un album che racchiude molti di quei tratti distintivi che hanno dato il fremito agli innamorati delle andature rock. Questo disco sembra scaturire dal desiderio di voler mantenere intatto un antico e passionale legame.
lunedì 12 novembre 2012
Shijo X - ...If a Night
La notte può essere carica di risvolti solari e di possibilità da cogliere. Sembrano queste le rassicurazioni offerte dai Shijo X. Il loro “...If a Night” è esaltazione onirica in musica, vivace suite in antitesi a quel mood dark ispiratore dell’album. Shijo X è un intraprendente gruppo italiano, di stanza a Bologna, composto da Laura Sinigaglia (voce), Davide Verticelli (piano, synth), Federico Fazia (basso) e Federico Adriani (batteria).
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domenica 11 novembre 2012
Grant-Lee Phillips - Walking In The Green Corn
Sincero, appassionato, incantevole.
Tra i migliori dischi degli ultimi tempi.
Tra amarcord introspettivi, testimonianze tramandate e cronache di cerimonie collettive, Grant-Lee Phillips scava nella penombra dei ricordi per cercare le proprie radici, la propria storia, ma senza l’obbligo di agguantare il perché degli avvenimenti, più semplicemente per riordinarli tra il caos della memoria. E’ questo, in un suggestivo mix tra storia e leggenda, il modello messo a punto dal cantautore per il nuovo disco acustico.
Walking In The Green Corn è un viaggio nel tempo che contestualizza le tradizioni del passato e ne individua i risvolti nel presente.
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Tra i migliori dischi degli ultimi tempi.
Tra amarcord introspettivi, testimonianze tramandate e cronache di cerimonie collettive, Grant-Lee Phillips scava nella penombra dei ricordi per cercare le proprie radici, la propria storia, ma senza l’obbligo di agguantare il perché degli avvenimenti, più semplicemente per riordinarli tra il caos della memoria. E’ questo, in un suggestivo mix tra storia e leggenda, il modello messo a punto dal cantautore per il nuovo disco acustico.
Walking In The Green Corn è un viaggio nel tempo che contestualizza le tradizioni del passato e ne individua i risvolti nel presente.
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domenica 21 ottobre 2012
Tra i chiaroscuri di Born To Run
La musica contemporanea ha sempre trovato un potente alleato nelle immagini. Molte hanno acquisito una fama tanto insperata quanto fuggevole, poche altre hanno strappato un posto all’immortalità. Il movimento rock, nei suoi primi vent'anni, ha promosso una mitologia iconografica assurta a modello estetico. Alla metà dei ’70, Springsteen s’imponeva quale archetipo di una sciatteria educata dai caratteri identitari, alcuni latenti, altri conclamati, riassunti per la copertina di Born To Run. Il look del giovane musicista combinava scampoli di passate stagioni e, inconsciamente, ne introduceva una alle porte. Ma, nel nitido contrasto tra il bianco e il nero, davvero tutto è stato svelato? L’interesse, tutt'oggi, ricade sul generale a scapito del particolare.
Famosa, famosissima, la fotografia scelta per rappresentare Born To Run, negli anni ha raggiunto un’esposizione mediatica incredibilmente vasta. Bruce Springsteen è ritratto con la sua Fender,
co-protagonista dello scatto, che lì nel mezzo esige attenzione.
E’ un immagine che offre qualcosa di magico perché si presenta carica di potenza, tanto da collocarsi tra i riferimenti dell’arte visiva correlata alla musica. E’ solo comunicazione, in fondo, ma porta in dote una quota di incontaminata disinvoltura, una dose di esuberante ingenuità che lascia pensare a qualcosa di diverso dalla propaganda commerciale.
Chi ha il disco in vinile sa del retro apribile con tanto di Clarence “Big Man” Clemons a sorreggere lo smilzo “Bad Scooter” (eh sì, se dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna, dietro un grande rocker … c’è sempre un grande sassofonista) in una posa che inneggia all’amicizia ed esalta i toni della fratellanza. Il bianco e nero scelto per lo scatto traduce al meglio il contenuto del disco, esprimendo il classicismo di una musica che confida nell’eternità. Indosso a Springsteen, passato e presente riconfermano fonti di ispirazione e credo. L’ostentazione della spilla raffigurante Elvis aggrega orfani della controcultura dei ’50; zazzera e barba incolta richiamano l’esteriorità anticonformista in auge nei ’60; chiodo indossato con disinvoltura, canotta logora (e quelle sneaker lacere visibili in una foto di copertina alternativa) sembrano anticipare involontariamente la moda punk. E’ un simbolismo che riesce a catturare l’immaginario di differenti visioni, a richiamare al senso di appartenenza al mondo rock. Un’impresa titanica compiuta con un look cencioso, ma ricercato, celebrato in versi cantati solo due anni prima, efficaci nel persuadere che è davvero difficile essere un santo in città.
Tutti i provini per la copertina vengono realizzati in un'unica sessione il 20 giugno 1975. Sono opera del fotografo Eric Meola che trent’anni dopo li ha resi integralmente manifesti in Born to Run The Unseen Photos, coffee table book da cui trae origine l’ulteriore compendio intitolato Born To Run Revisited, pregiatissimo volume che seleziona stampe dal formato (alla stregua del prezzo) colossale.
Per volontà di Meola il set fotografico di Born To Run appare netto come un foglio candido su cui provare ad imbastire un racconto. Soggetti e scenario devono essere contaminati dal nero e al tempo stesso curati da un antidoto di bianco. Il fotografo decide di fissare quell’attimo in un “non luogo”, in un difetto dell’immaginazione, in un limbo accessibile solo al sogno. E’ un party a numero chiuso che rende la fotografia insolita, astratta com’è da qualsiasi contesto scenografico, calata in una realtà a se stante. Qui ad attrarre lo sguardo sono i dettagli, compresi quelli della chitarra, oggetto inanimato che più vivo non potrebbe essere. Un pezzo di legno che ha imparato a parlare e che, nel testo di Thunder Road, si ritaglia versi magari pretenziosi ma messaggeri di un finale catartico. Springsteen e la sua “dannata chitarra” (come usava apostrofarla Douglas, suo padre) delineano non tanto la puntuale sinossi quanto la perfetta idealizzazione dell’album. Difficile poterne immaginare il postulato a prima vista, ma copertina e contenuto saldano elementi che sorreggono una tesi unica. Tra proclami e dilemmi si inneggia al rock‘n’roll salvifico e rivoluzionario dei primordi. Indizi, mescolati tra particolari figurativi e dettagli compositivi, si combinano: Presley sorride sulla spilla celebrativa di un club di ammiratori newyorkesi, Roy Orbison è menzionato in prima battuta e Bo Diddley è celebrato ogni qual volta rimbalza la sequenza di “mi” e “la” in She’s the One.
Ma tutte queste cose sono note, nonché meglio approfondite su centinaia di testi scritti con la massima accuratezza.
A sorprendere è una peculiarità di quella chitarra. Una parte ben visibile ma al riparo dietro corde che sono rifugio e al contempo motivo di evidenti graffi. Quella foto ha quasi certamente decuplicato le vendite della Fender e ha garantito l’immortalità alla prima decente chitarra solid-body della storia. Ha fatto sbavare migliaia di teen-ager e di sicuro è stata preda di numerose imitazioni, eppure non tutti si sono soffermati ad osservare il battipenna. E il riferimento non riguarda il tizio, figura solitaria rintanata in una backstreet, che s’intravede tra una corda e l’altra. Sicuramente l'enigmatica "immagine nell’immagine" invita a favoleggiare. Lo scenario notturno è rischiarato dalla luna piena e dalla luce artificiale del lampione che offre sostegno all’uomo. Lo sconosciuto calza un cappello e pare portare una mano alla visiera per assestarla sulla fronte. Potrebbe volere essere nient’altro che un semplice accomodamento eppure potrebbe celare un segnale rivolto a chi si affaccia alla finestra sullo sfondo. Potrebbe essere il cenno d’intesa lanciato a quell’Eddie che in Meeting Across the River deve procurare un passaggio. O forse, potrebbe essere solo il rituale meditativo di un ragazzo che sfumacchia l’ultima sigaretta prima di saltare in macchina con Wendy e scappare da una città che agli uomini, manco fossero animali da macello, strappa le ossa. O ancora, potrebbe essere qualcuno che porta l’armonica alla bocca per farci vibrare dentro il soffio che intona l’incipit del disco. Ad ogni modo, chiunque rappresenti il personaggio stilizzato, ammesso che rappresenti qualcuno, è inciso o stampato su un materiale insolito per il suo utilizzo. Il battipenna ha l’infelice compito di parare i fendenti, di raccogliere il fine corsa del plettro scagliato sulle corde. Vero è che già nel ’75 ben poco c’era da preservare di una povera chitarra che si offriva al mondo in tutta la sua sfregiata bellezza, ma a sapere che il pezzo nero avvitato sotto le sei corde non è in plastica, tantomeno in bachelite, sorprende. Non un prodotto del petrolio, quindi, e nemmeno una resina.
George Orwell asseriva che “ci vuole uno sforzo costante per vedere cosa c’è sotto il proprio naso”. Nulla di più vero. Cuoio. Il battipenna è in cuoio. Quella Fender è agghindata con della pelle nera. Una scelta che conferisce personalità ad una chitarra che, con tutte quelle storie sulle sue parti assemblate, favorisce il riscatto dell’ibridazione sull’ordinarietà di strumenti rimasti inviolati. Ma di ordinario in una chitarra che si rispetti, non vi è mai traccia. C’è sempre una minuzia che la rende unica, una tipicità che la distingue dalle altre, non tanto in quanto a spasmodica ricerca del suono distintivo (qui rientrano variabili diverse quali l’approccio stilistico allo strumento, l’amplificazione, l’effettistica e altro ancora) quanto a tratto estetico. Chi deve il proprio successo a quell’accumulo di legname e metallo, tende sempre ad assegnargli un valore che supera di gran lunga quello che occhi profani leggono come una strana suppellettile. Jimi Hendrix usava adornare personalmente la propria “Strato”, Joe Strummer ha iniziato a mettere qualche adesivo sulla propria “Tele” fino a rivestirla integralmente, Tom Morello – altro musicista che si affida ad un ibrido – espone simboli e scrive messaggi radicali sulla sua chitarra customizzata, senza dimenticare Prince che ne ha fatta produrre una identica all’ideogramma col quale ama identificarsi (Love Symbol). Alla stessa stregua, la chitarra di Springsteen è conformata alla personalità del musicista. Vestita da un battipenna nero, quella Fender è strumento antropomorfo che nasconde ossa, muscoli e cuore, proprio come Bruce sotto una giacca dello stesso materiale e colore. In rete sono disponibili ingrandimenti che svelano, nei dettagli, incisioni e colori che col tempo, probabilmente, sono stati spazzati via dal sudore. Una fine che deve essere toccata anche alla pelle conciata del precedente “pickguard”, quello rosso con un ovale giallo oro al centro. Ma di questo accessorio è difficile ritrovare foto a colori che ne illustrino chiaramente i tratti.
Le informazioni circa la provenienza del battipenna con le miniature sono incerte, ma risulta nota la destinazione ultima. Non è dato sapere, infatti, se è stato acquistato o commissionato dal ragazzo del New Jersey. Di sicuro si sa che è finito nelle mani di tale Ed Kosinski, collezionista (di memorabilia rock, in generale, e di Springsteen in particolare), collaboratore per la Rock and Roll Hall of Fame di Cleveland ed esperto chiamato a verificare l’autenticità degli autografi delle rockstar.
Alla foto di Born To Run, dunque, va anche riconosciuto il merito di mostrare un accessorio della chitarra di Bruce mai riproposto altrove (la copertina del primo Gratest Hits riprende una stampa pubblicitaria del ‘75). Tuttavia, ci sono delle eccezioni al passato che non ritorna. Una copia del battipenna, “riveduta e corretta”, potrebbe spuntare da un momento all’altro su un duplicato della Tele-Esquire di Springsteen. Pochi mesi fa Dave Petillo (figlio di Phil, il leggendario liutaio di Bruce scomparso nel 2010) ha ammesso di aver riprodotto quel caratteristico battipenna, anche se con qualche aggiustamento e, soprattutto, senza l’utilizzo del cuoio. Il cast dei soggetti raffigurati nel ’75 è stato personalizzato e ampliato. La ragazza ora ha i capelli rossi di Patti Scialfa e dalla finestra del pianterreno (all’epoca vuota) spunta l’inconfondibile sagoma di Clarence intento a suonare il sax. Fino ad oggi, però, questa riedizione è rimasta chiusa nel cassetto.
_______________
Riferimenti: Born To Run, Bruce Springsteen, Clarence Clemons e la Tele-Esquire - Il Fender Forum - La spilla del fans club di Elvis Presley (FeelNumb.com) - Articolo sul battipenna recentemente ricreato da Dave Petillo (New Jersey 101.5 Radio) - Il chiodo (tratto dal sito philly.com) - GuitarGuruMagazine - Il sito di Barry Ollman - Il logo di Backstreets.com.
Le foto in bianco e nero sono di Eric Meola.
venerdì 19 ottobre 2012
The Jon Spencer Blues Explosion - Meat and Bone
Jon Spencer è tornato con il suo gruppo storico e un nuovo album. Meat and Bone sfrutta la tradizione, la propria. Musica tirata, secca e dura come il rock. Dannata e fangosa come il blues.
Continua su LSDmagazine.
venerdì 12 ottobre 2012
L'EP di Mr. Balzary
Il Silverlake Conservatory of Music non ha scopo di lucro. Qui i meno abbienti hanno la possibilità di imparare a suonare. I corsi si tengono sette giorni su sette e sono aperti a tutti, dato che non si ammettono discriminazioni di alcun genere e non si pongono vincoli di età.
La scuola di musica è nata undici anni fa, a Los Angeles, per volere di Michael Peter Balzary. A lui si devono gli annuali concerti benefici che mobilitano coscienziose rock star e le vendite all’asta di ricercate memorabilia che fruttano proventi da destinare alle attività del conservatorio. L’anno scorso l’insieme delle iniziative ha permesso di raccogliere una cifra superiore al 1.000.000 di dollari.Un paio di mesi fa, Balzary ha provato a raccogliere fondi con la vendita di musica autoprodotta. Ha reso disponibile il download di un suo EP (la versione fisica, in vinile, è andata ben presto sold-out) chiamato Helen Burns. Registrato in casa insieme ad alcuni amici-musicisti, il concept conta sei tracce, per lo più strumentali e sperimentali, che vantano guest appearance di tutto rispetto. Jack Irons e Chad Smith, rispettivamente primo ed attuale batterista dei Red Hot Chili Peppers, sono della partita, ma a concedere smalto al progetto è Patti Smith. Affettuosamente definita “sorella” nelle note di copertina, la poetessa rock caratterizza con la sua inconfondibile voce il lento fluire della title track, una nenia che prende in prestito il nome dal personaggio descritto in Jane Eyre, romanzo d’epoca vittoriana firmato dalla scrittrice Charlotte Brontë.
Pronti sin dal 2007, ma mai pubblicati prima d’ora, i componimenti rispecchiano i toni cupi e instabili di chi è preda del down da superlavoro e in più vaga nell’indeterminatezza, stadio in cui versava Balzary al tempo delle sessioni casalinghe. Ma Helen Burns non è esclusivamente dimesso, offre anche momenti positivi (Lovelovelove) e ha il pregio di mostrare le doti di un autore che si svela trombettista intraprendente e apprezzabile polistrumentista.
Acquistabile con una libera offerta tramite il sito della Silverlake, l’EP è situato in un’apposita sezione riconducibile a Mr. Balzary, ai più noto come Flea, stravagante bassista dei Red Hot Chili Peppers.
giovedì 4 ottobre 2012
Rekkiabilly - Banana Split
Chitarra a condurre, fiati a dare corpo, contrabbasso più batteria a scandire i ritmi e voce a richiamare il fascinoso, intramontabile, invincibile rock’n’roll.
I Rekkiabilly (lo slang barese recchia, da orecchio, che convola a nozze con l’americano rockabilly) sono capaci di infilare accordi solidi e rozzi in un profluvio di ironia. Il loro nuovo Banana Split esce su un mercato saturo di suoni preda della più turpe retromania (per rubare un termine a Simon Reynolds), dove per emergere serve, il più delle volte, poca sostanza e molta pubblicità ingannevole. Invece Dario Mattoni (chitarra e voce), “Amaro” Luciano Sibona (contrabbasso e voce), Guido "bumbum" Vincenti (batteria), Lidia Bitetti (sax) e Ricky "Ballerino" La Torre (tromba e voce) sublimano qualità e levità.
Il disco è un tonico per il morale, un ceffone alle mode passeggere e alle strabiche visioni di chi diffonde il verbo sintetico dell’ultima band nata sotto il segno dell’elettronica più rigida (per inciso: cos’altro dopo i Depeche Mode?). Certo, ad un superficiale ascolto anche i Rekkiabilly corrono il rischio di essere rapidamente archiviati nell’ipertrofica sfilza di gruppi debuttanti eppure così nostalgici da risultare ammuffiti. Ma lavato via il gel dai capelli, e destata l’espressione vagamente ilare dai volti dei baresi, emerge il nocciolo di una band capace di sgusciare a tutto swing o di sfruttare dinamiche soul, di allacciarsi ai ganci del country e di improvvisare a tutto jazz. Molteplici influenze che si ritrovano nel singolo Sisma (che tramuta la leggerezza in sarcasmo), la title track o la Burn Toast and Black Coffee di Mike Pedicin tradotta in una chilometrica Toast e Caffè Arrosto. La matrice rock anni ’50 è incisa a chiare lettere nel DNA della band, ma l’integrità dei musicisti si lascia costantemente permeare da altri generi, come nella Six By Six che è cover di Earl Van Dyke. Dal vivo, tutto ciò si traduce in baldoria pura, in festa trascinante. E a proposito di concerti, quanti nel curriculum possono scrivere di aver diviso il palco con Robert Gordon? Non è poco in un ambito “artistico” che si conforma sempre più ai reality canori, che inneggia starlets e divulga filastrocche frignate da computer.
Il sito ufficiale della band è qui.
martedì 2 ottobre 2012
Quel film pirata sui Pearl Jam
All'alba dei '90, quando Seattle è solo un "sonnolento villaggio di pescatori", Duncan Sharp si specializza in fotografia musicale. Nel periodo in cui deflagra la locale scena rock, si trova nel posto giusto al momento giusto e ritrae band che negli anni risulteranno autorevoli riferimenti planetari. Come i Pearl Jam, da lui seguiti a vista d’occhio in Asia e Oceania per le tappe del Vitalogy Tour.
Sharp vola con il gruppo in Oriente e pone la sua discreta presenza al servizio della band. Li filma e li fotografa ovunque, ricavando materiale per una pellicola di quasi tre ore. Un lungometraggio sicuramente eccessivo per durata – tanto da annoiare con momenti decisamente trascurabili – ma che ha il pregio di fissare i Pearl Jam in un momento metamorfico, con dinamiche interne modificate, con il lutto di Cobain da elaborare, il senso di frustrazione per l'affaire Ticketmaster da reggere e un nuovo batterista - l'ennesimo - da gestire. Una transizione che forse regala le ultime fiammate giovanili del gruppo e che li spinge a mettere a ferro e fuoco il palco, a cazzeggiare, a gironzolare nascosti sotto improbabili parrucche, ad improvvisare un farsesco siparietto in spiaggia e a prendersi pubblicamente (e letteralmente) a torte in faccia con la complicità di Flea.
Riprese naïf e proprio per questo riuscitissime, capaci di rendere al meglio barlumi di positività che i ragazzi ritrovano lontano da casa. Il girato non trova alcuna ufficialità ma non resta a lungo inutilizzato. Ben presto videobootleg su nastro circolano tra i fans, anche se a fatica, mentre nell’era interneutica risulta semplice il ripescaggio tra le onde del web, dove spesso si incrociano rotte di pirati generosi.
Anche il giornalista/regista Cameron Crowe per il suo PJ20 ha recuperato frammenti del film di Sharp (la lotta impari tra Eddie e il mostro scippato ad un horror di fantascienza giapponese viene da lì) ma si è limitato ad usare pochi fotogrammi. Proprio il recente repackaging dell’home video PJ20 (nuovo involucro, ma vecchio contenuto) poteva regalarci tra i bonus la versione ripulita del “Pacific Leg” di Vitalogy, invece neanche questa occasione si è rivelata propizia. Chi vorrà acchiapparlo sarà costretto ad uscire in barca.
Duncan Sharp è raggiungibile presso il suo web site.
Riprese naïf e proprio per questo riuscitissime, capaci di rendere al meglio barlumi di positività che i ragazzi ritrovano lontano da casa. Il girato non trova alcuna ufficialità ma non resta a lungo inutilizzato. Ben presto videobootleg su nastro circolano tra i fans, anche se a fatica, mentre nell’era interneutica risulta semplice il ripescaggio tra le onde del web, dove spesso si incrociano rotte di pirati generosi.
Anche il giornalista/regista Cameron Crowe per il suo PJ20 ha recuperato frammenti del film di Sharp (la lotta impari tra Eddie e il mostro scippato ad un horror di fantascienza giapponese viene da lì) ma si è limitato ad usare pochi fotogrammi. Proprio il recente repackaging dell’home video PJ20 (nuovo involucro, ma vecchio contenuto) poteva regalarci tra i bonus la versione ripulita del “Pacific Leg” di Vitalogy, invece neanche questa occasione si è rivelata propizia. Chi vorrà acchiapparlo sarà costretto ad uscire in barca.
Duncan Sharp è raggiungibile presso il suo web site.
sabato 29 settembre 2012
The Junction - Let Me Out!
Ieri, al grido di We Gotta Get out of This Place, gli Animals proponevano la loro versione di rock engagé. Oggi il più immediato Let Me Out! sintetizza il rock affrancato de The Junction.
Un po’ Wombats e un po’ Babyshambles, il terzetto veneto mette in fila undici brani ricreativi, caratterizzati da grinta e vitalità. Marco Simioni (voce, chitarra e autore dei pezzi), Francesco Reffo (batteria, tastiere e cori) e Alberto Bettin (basso e cori) colmano i circa venti minuti del loro debut album con scambi elettrici come saette e rapidi scioglilingua anglofoni. Ad Allison, singolo tanto estivo quanto ballabile, il compito di circoscrivere l’ambito di una musica spassosa, come il relativo video che – è proprio il caso di dirlo – ne ricalca le orme.
Free Download and Streaming:
file .wav
file .mp3
(fonte: thejunctionrocks)
venerdì 28 settembre 2012
Joe Strummer: "un Che Guevara con la chitarra"
A dieci anni dalla prematura scomparsa di Joe Strummer, la HellCat Records ripubblica gli ultimi lavori discografici dei Mescaleros.
Sul finire dei '90, dopo un lungo periodo lontano dai riflettori, l'ex frontman dei Clash si appresta a ritornare sulle scene. Il torpore è svanito, tournée e album si alternano in rapida successione. Un florido impeto creativo produce materiale per tre album inediti: Rock Art and the X-Ray Style, del 1999, interrompe il digiuno, Global A Go-Go esce due anni dopo e Streetcore (non ultimato) vede la luce postumo nel 2003.
In vinile e in CD, le ristampe dei dischi includono rarità, b-sides e registrazioni dal vivo.Joe Strummer è stato un personaggio unico nel mondo musicale. La sua carismatica figura ha sempre richiamato l'attenzione di media e fans. Molti pareri si sono sprecati sul conto del "rocker marxista", ma il breve profilo tracciato dal giornalista britannico Nick Kent svetta su tutti gli altri per onestà, lucidità e autorevolezza.
“Dopo la sua morte prematura è stato scritto molto a proposito delle sue origini alto-borghesi, e di come stridessero con il personaggio di leader della working class che assunse in età adulta. Può essere così, ma il suo reinventarsi fu così completo e il suo slancio così infaticabile che egli diventò letteralmente quel che sognava di essere da ragazzo. Un Che Guevara con la chitarra. La storia ci dice, oggi, che non era un teorico della politica particolarmente brillante, e neanche un talento musicale divino, ma certo sapeva come fondere le due personalità in un unico modello, risultando credibile. E se l’eternità nel rock’n’roll si basasse solo sull’energia fisica, Strummer sarebbe il primo degli immortali. La sua voce poteva sembrare un abominio sgradevole, il suo modo di suonare la chitarra un banale grattugiare ritmico, e non era neanche particolarmente bello; eppure nessuno, a parte Jackie Wilson o James Brown, ha mai sudato tanto su un palco”. Nick Kent, Apathy for the devil – Memorie dagli anni Settanta (Arcana edizioni).
giovedì 27 settembre 2012
Maia: sci-fi folk pop e video insoliti
Si chiamano Maia, vengono dall’Inghilterra e promuovono un miscuglio che loro stessi definiscono “sci-fi folk pop”. Folk-pop-fantascientifico insolito ed epidemico che potrebbe ricordare il mood contemplativo dei Fleet Foxes e l’orientamento psichedelico dell’Incredible String Band.
Sia pure giovanissimi, i quattro creano docili melodie e moderano il ritmo con intramontabili strumenti acustici del costume popolare, ma ad ukulele, mandolino, banjo, tromba e cajon fanno da sfondo video non convenzionali. Da qualche mese è online quello che accompagna il singolo Zuma Aluma, interamente girato con una tecnologia moderna eppure accessibile a chiunque. Le riprese sono state effettuate con il solo ausilio di un iPhone 4S e – per colmare di gioia gli stakeholder della Apple – la successiva elaborazione ha previsto l’impiego di un iPad 2. Nient’altro.
Forse meno originale, ma comunque bizzarro, risulta anche il clip che accompagna il nuovo singolo The Grandfather Plan, altro brano che troverà spazio in Pepper Stars, secondo disco della band in uscita per fine novembre.
Ragazzi sedotti dal vintage eppure hi-tech addicted: i Maia producono musica e video con equipaggiamento essenziale, associando tradizione e innovazione con esiti positivi. Un valido espediente per l’autopromozione in tempo di crisi.
Sia pure giovanissimi, i quattro creano docili melodie e moderano il ritmo con intramontabili strumenti acustici del costume popolare, ma ad ukulele, mandolino, banjo, tromba e cajon fanno da sfondo video non convenzionali. Da qualche mese è online quello che accompagna il singolo Zuma Aluma, interamente girato con una tecnologia moderna eppure accessibile a chiunque. Le riprese sono state effettuate con il solo ausilio di un iPhone 4S e – per colmare di gioia gli stakeholder della Apple – la successiva elaborazione ha previsto l’impiego di un iPad 2. Nient’altro.
Forse meno originale, ma comunque bizzarro, risulta anche il clip che accompagna il nuovo singolo The Grandfather Plan, altro brano che troverà spazio in Pepper Stars, secondo disco della band in uscita per fine novembre.
Ragazzi sedotti dal vintage eppure hi-tech addicted: i Maia producono musica e video con equipaggiamento essenziale, associando tradizione e innovazione con esiti positivi. Un valido espediente per l’autopromozione in tempo di crisi.
mercoledì 26 settembre 2012
Sulla Strada, il nuovo evocativo singolo di Francesco De Gregori
Il 28 settembre esce Sulla Strada, singolo che anticipa l'omonimo album di Francesco De Gregori.
Il rischio di trovare un filo conduttore tra il brano del cantautore romano e il capolavoro di Jack Kerouac è tangibile. Stesso titolo d'impatto e stesso fremito suscitato dal ricordo di quell’unico grande corridoio che buca montagne e sorvola acque, che taglia campagne e scivola tra paesi.
Di nuda terra o di grigio asfalto, coperta dalla pioggia o spaccata dal sole, profetica rivelatrice che conduce al bene o al male, la strada è (ed è sempre stata) fabbrica di metafore e cibo per l’immaginazione. E’ lì che gli artisti trascinano i piedi e sbattono la faccia tra polvere da ingoiare e una destinazione da scoprire; è lì che si incontrano esempi da calare in romanzi e canzoni. Ed è da lì che riprende il cammino di un Francesco De Gregori pronto a ripercorrerne curve e dossi, con la chitarra a tracolla, un cappello a saldare i pensieri e le tasche piene di parole come sassi. Anche se non è al manifesto della Beat Generation che il musicista si è ispirato, o per lo meno, non consapevolmente.
Sulla Strada è un brano dai caratteri pertinenti con lo stile che contraddistingue l'ultimo De Gregori, quello col cuore all'America e la voce stropicciata.
Il disco del troubadour italiano sarà disponibile dal prossimo 20 novembre.
Il rischio di trovare un filo conduttore tra il brano del cantautore romano e il capolavoro di Jack Kerouac è tangibile. Stesso titolo d'impatto e stesso fremito suscitato dal ricordo di quell’unico grande corridoio che buca montagne e sorvola acque, che taglia campagne e scivola tra paesi.
Di nuda terra o di grigio asfalto, coperta dalla pioggia o spaccata dal sole, profetica rivelatrice che conduce al bene o al male, la strada è (ed è sempre stata) fabbrica di metafore e cibo per l’immaginazione. E’ lì che gli artisti trascinano i piedi e sbattono la faccia tra polvere da ingoiare e una destinazione da scoprire; è lì che si incontrano esempi da calare in romanzi e canzoni. Ed è da lì che riprende il cammino di un Francesco De Gregori pronto a ripercorrerne curve e dossi, con la chitarra a tracolla, un cappello a saldare i pensieri e le tasche piene di parole come sassi. Anche se non è al manifesto della Beat Generation che il musicista si è ispirato, o per lo meno, non consapevolmente.
Sulla Strada è un brano dai caratteri pertinenti con lo stile che contraddistingue l'ultimo De Gregori, quello col cuore all'America e la voce stropicciata.
Il disco del troubadour italiano sarà disponibile dal prossimo 20 novembre.
martedì 11 settembre 2012
Cat Power - Sun
Accantonata l’epoca della dipendenza, Cat Power scippa rimasugli di creatività
all’oblio: fatta eccezione per il cameo con Vedder in ‘Tonight you belong to me’ dell’anno scorso (contenuto in ‘Ukulele songs’), più nulla era trapelato sul
suo conto.
In Sun, flashback di inquietudine e incentivi
alla vita consumano una lotta per l’egemonia in un sound vintage, per gran parte in debito con il filone electropop degli ’80.
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sabato 8 settembre 2012
Tanita Tikaram - Can't Go Back
Tanita Tikaram torna con il discreto eppure incisivo Can't Go Back. Un disco maturo e piacevole realizzato con l'ausilio di ottimi musicisti.
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venerdì 20 luglio 2012
Patti Smith and Her Band a Molfetta: Believe or explode
“Perché dedicarsi all’arte? Per realizzazione personale, perché l’arte valeva di per sé? Aggiungersi alla sovrabbondanza che già circolava sarebbe stato come indulgere verso se stessi a meno che non si fosse stati capaci di offrire illuminazione. […]
Compresi che ciò che conta è l’opera in sé”.
(Tratto dal libro Just Kids, di Patti Smith - Feltrinelli)
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(Tratto dal libro Just Kids, di Patti Smith - Feltrinelli)
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Photography ©Francesco Santoro all rights reserved
sabato 14 luglio 2012
Sting: Back to Bass Tour a Molfetta
“Chi si somiglia si piglia”. Il pubblico dei concerti rispecchia l’artista che si esibisce. Tanto semplice e lampante da risultare banale.
L’altra sera a Molfetta, Sting ha richiamato una folla di gente ben vestita, ben educata, ben truccata, ben pettinata tanto da farmi sentire come un alieno al party.
In più mi hanno costretto ad interpretare la parte dell’insolente, quella del “fotografo” (no, non lo sono affatto) che ha sfidato i coriacei ometti della security per scattare immagini sotto al palco. Eh sì, il buon Sting, sessant'anni, le gambette secche, il bicipite sul flaccido andante, ma un fascino (vista la massiccia presenza femminile) ancora intatto, non vuole teleobiettivi sotto il naso. Mi dicono “solo le prime due canzoni” (ok, fin qui tutto nella norma) … “dal mixer”. Seeeeeeeeeeeeee, certo! Sarà fatto. Mi chiamate a 24 ore dal concerto, non ho l’attrezzatura adatta per le foto da 2 metri e volete che mi metta a scattare dal mixer? Mi conviene rimanere al posto assegnato, nei pressi dello stage, comodo nella mia fantastica poltronissima (voglio conoscere il genio del male che ha coniato il termine adatto per quei “boccaloni” che spendono cento e rotti euro per starsene seduti tutto il tempo su qualcosa che credono somigli ad un trono)! Ad ogni modo … missione compiuta. Più o meno.
“Sono molto felice di essere qui con voi questa sera a Molfetto, in Puglia”. A parte la storpiatura adoperata al nome della cittadina del nord barese, Sting si rivolge alla platea in un buon italiano. Sfodera più volte il suo vocabolario con tono affabulatorio, alla stregua delle sue canzoni, morbide partiture pop dalle note cristallizzate un momento prima di farsi jazz, una spanna al di qua del reggae, due passi prima del rock. Un‘indeterminatezza voluta, che ha fatto la fortuna del cantante inglese e gli ha donato un posto nell’olimpo del mainstream musicale.
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“Sono molto felice di essere qui con voi questa sera a Molfetto, in Puglia”. A parte la storpiatura adoperata al nome della cittadina del nord barese, Sting si rivolge alla platea in un buon italiano. Sfodera più volte il suo vocabolario con tono affabulatorio, alla stregua delle sue canzoni, morbide partiture pop dalle note cristallizzate un momento prima di farsi jazz, una spanna al di qua del reggae, due passi prima del rock. Un‘indeterminatezza voluta, che ha fatto la fortuna del cantante inglese e gli ha donato un posto nell’olimpo del mainstream musicale.
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Photography ©Francesco Santoro all rights reserved
martedì 26 giugno 2012
Muddy Waters & The Rolling Stones - Live At The Checkerboard Lounge
La sera del 22 novembre 1981, in un angusto club di Chicago, il diavolo organizza una festa con musicisti adepti al suo culto per godersi una jam-session irripetibile.
Non è andata esattamente così, ma quando il cartellone presenta nomi così profondamente legati al blues da divenirne sinonimi, il mito mefistofelico e la realtà si intrecciano spesso e volentieri in un susseguirsi di leggende.
Sul palco del Checkerboard Lounge, quella sera di trentuno anni fa, ci sono un sacco di big, ma non c’è uno stinco di santo nemmeno per sbaglio. Muddy Waters e la sua band suonano con alcuni Stones durante un concerto fino ad oggi rimasto appannaggio dei pochi spettatori presenti nel locale, e dei fan che per anni hanno recuperato immagini non ufficiali. L’esibizione rivela musicisti dal background dissimile ma radunati dall’incondizionato amore per il blues. Ci sono neri cresciuti a espedienti e umiliazioni tra baracche del sud est bagnato dal Mississippi e bianchi plasmati a vanità e competitività nella “swinging London”. Già sulle prime, l’aria si satura di sventure un tempo cantate da Blind Boy Fuller e da fumose credenze voodoo. Riecheggia l’anima errabonda di Robert Johnson – “la cui morte aveva a che fare con la magia nera” (come riporta Greil Marcus in Mystery Train) – che somma il peso delle proprie sventure a quelle di Muddy Waters presente in carne, ossa e voce penetrante. Una voce che canta le avversità dei neri svezzati dalla strada e che bofonchia le sfide affrontate per resistere al razzismo strisciante di un’America dalle tendenze retrive. Muddy suona e suda, suda la fatica di uomini piegati dalla stanchezza nelle piantagioni di cotone, rivendica la sua vittoria su un’esistenza indigente recisa con la firma per la Chess Records e intona fascinosi canti carichi di sensualità. A questi esempi di sfortuna e tenacia si uniscono paladini “brutti, sporchi e cattivi” fautori di un opportuno intruglio tra estrema concretezza, profonda passione e spartana tecnica che si riassume nella massima di Keith Richards: “Five strings, two fingers and one asshole”. L’esibizione sta tutta nel doppio DVD dai fotogrammi restaurati che esce il 10 luglio, con tanto di suono mixato e masterizzato da Bob Clairmountain.
Live At The Checkerboard Lounge cattura la carica di un supergruppo capeggiato da Muddy Waters e ferma l’essenza del Chicago Blues in tutta la sua umile sorgente innovatrice. Fornisce l’occasione per vedere il ritorno alle origini di star viziate al cospetto di talentuosi pionieri: Mick Jagger, Keith Richards e Ronnie Wood (non ancora preda di artrosi e grinze come cartapecora) per una sera scardinano la routine dei fenomeni da sold-out mettendo da parte il proprio modello compositivo in favore del genere che li ha irretiti anni prima. E’ il miglior modo per offrire una dedica al loro mito, a un Muddy Waters gongolante e ancora capace di esprimere al meglio la sua singolare tecnica chitarristica. La temperatura nel locale sale quando i Rolling Stones fanno il loro ingresso (a concerto già avviato) e raggiunge l’acme mentre questi si stringono sopra un palchetto così a ridosso dei tavoli che Richards e Wood devono proprio salirci sopra per raggiungerlo. Tutto sembra molto “friendly”. L’atmosfera è decisamente intima, Muddy Waters è a casa sua (in ogni senso, visto che è il proprietario del bar) e l’alchimia, ben assestata dall’alcol ingollato da Richards e Wood, libera i musicisti da vincolanti pose filmiche da carrozzone rock e da atteggiamenti forzatamente seduttivi che i clamori del colossale tour americano in atto impongono. Si genera una combinazione luciferina tipica della mitologia blues.
Se ci fosse qualcosa di vero su queste storie si potrebbe pensare ad influssi ultraterreni capaci di animare le mani di un Keith Richards rigoroso con l’uso della Rosewood Telecaster, e poteri abili nell’indirizzare un Ronnie Wood che detta legge con il bottleneck. Una forza in grado di infliggere spasmi tarantolati a Lefty Dizz e di suggerire serpentine virtuose a Buddy Guy. Qualche oscura entità promotrice dell’estro di Junior Wells e George “Mojo” Buford, che alternano decine di bending alle armoniche lamentose. La setlist conta quindici blues – tra cui i superclassici Baby Please Don’t Go, Hoochie Coochie Man e Mannish Boy – che decollano su scale pentatoniche e precipitano lungo una gradinata per l’inferno. Un concerto intimo e memorabile. Un Muddy Waters al crepuscolo della sua esistenza – morirà solo un anno e mezzo dopo – che finalmente incassa parte del credito vantato nei confronti degli Stones e lascia il testimone a Buddy Guy, il più illustre erede del Chicago Blues.
Non è andata esattamente così, ma quando il cartellone presenta nomi così profondamente legati al blues da divenirne sinonimi, il mito mefistofelico e la realtà si intrecciano spesso e volentieri in un susseguirsi di leggende.
Sul palco del Checkerboard Lounge, quella sera di trentuno anni fa, ci sono un sacco di big, ma non c’è uno stinco di santo nemmeno per sbaglio. Muddy Waters e la sua band suonano con alcuni Stones durante un concerto fino ad oggi rimasto appannaggio dei pochi spettatori presenti nel locale, e dei fan che per anni hanno recuperato immagini non ufficiali. L’esibizione rivela musicisti dal background dissimile ma radunati dall’incondizionato amore per il blues. Ci sono neri cresciuti a espedienti e umiliazioni tra baracche del sud est bagnato dal Mississippi e bianchi plasmati a vanità e competitività nella “swinging London”. Già sulle prime, l’aria si satura di sventure un tempo cantate da Blind Boy Fuller e da fumose credenze voodoo. Riecheggia l’anima errabonda di Robert Johnson – “la cui morte aveva a che fare con la magia nera” (come riporta Greil Marcus in Mystery Train) – che somma il peso delle proprie sventure a quelle di Muddy Waters presente in carne, ossa e voce penetrante. Una voce che canta le avversità dei neri svezzati dalla strada e che bofonchia le sfide affrontate per resistere al razzismo strisciante di un’America dalle tendenze retrive. Muddy suona e suda, suda la fatica di uomini piegati dalla stanchezza nelle piantagioni di cotone, rivendica la sua vittoria su un’esistenza indigente recisa con la firma per la Chess Records e intona fascinosi canti carichi di sensualità. A questi esempi di sfortuna e tenacia si uniscono paladini “brutti, sporchi e cattivi” fautori di un opportuno intruglio tra estrema concretezza, profonda passione e spartana tecnica che si riassume nella massima di Keith Richards: “Five strings, two fingers and one asshole”. L’esibizione sta tutta nel doppio DVD dai fotogrammi restaurati che esce il 10 luglio, con tanto di suono mixato e masterizzato da Bob Clairmountain.
Live At The Checkerboard Lounge cattura la carica di un supergruppo capeggiato da Muddy Waters e ferma l’essenza del Chicago Blues in tutta la sua umile sorgente innovatrice. Fornisce l’occasione per vedere il ritorno alle origini di star viziate al cospetto di talentuosi pionieri: Mick Jagger, Keith Richards e Ronnie Wood (non ancora preda di artrosi e grinze come cartapecora) per una sera scardinano la routine dei fenomeni da sold-out mettendo da parte il proprio modello compositivo in favore del genere che li ha irretiti anni prima. E’ il miglior modo per offrire una dedica al loro mito, a un Muddy Waters gongolante e ancora capace di esprimere al meglio la sua singolare tecnica chitarristica. La temperatura nel locale sale quando i Rolling Stones fanno il loro ingresso (a concerto già avviato) e raggiunge l’acme mentre questi si stringono sopra un palchetto così a ridosso dei tavoli che Richards e Wood devono proprio salirci sopra per raggiungerlo. Tutto sembra molto “friendly”. L’atmosfera è decisamente intima, Muddy Waters è a casa sua (in ogni senso, visto che è il proprietario del bar) e l’alchimia, ben assestata dall’alcol ingollato da Richards e Wood, libera i musicisti da vincolanti pose filmiche da carrozzone rock e da atteggiamenti forzatamente seduttivi che i clamori del colossale tour americano in atto impongono. Si genera una combinazione luciferina tipica della mitologia blues.
Se ci fosse qualcosa di vero su queste storie si potrebbe pensare ad influssi ultraterreni capaci di animare le mani di un Keith Richards rigoroso con l’uso della Rosewood Telecaster, e poteri abili nell’indirizzare un Ronnie Wood che detta legge con il bottleneck. Una forza in grado di infliggere spasmi tarantolati a Lefty Dizz e di suggerire serpentine virtuose a Buddy Guy. Qualche oscura entità promotrice dell’estro di Junior Wells e George “Mojo” Buford, che alternano decine di bending alle armoniche lamentose. La setlist conta quindici blues – tra cui i superclassici Baby Please Don’t Go, Hoochie Coochie Man e Mannish Boy – che decollano su scale pentatoniche e precipitano lungo una gradinata per l’inferno. Un concerto intimo e memorabile. Un Muddy Waters al crepuscolo della sua esistenza – morirà solo un anno e mezzo dopo – che finalmente incassa parte del credito vantato nei confronti degli Stones e lascia il testimone a Buddy Guy, il più illustre erede del Chicago Blues.
venerdì 22 giugno 2012
Oh My Darling - Sweet Nostalgia
Quanti rischi si corrono nel voler conservare le tradizioni? Quanto talento serve per far funzionare la musica popolare senza renderla banale o senza lasciarla preda di un repellente ed importuno “già sentito”? I grossi calibri possono intonare frazioni del passato (Dylan su tutti) e stravolgere (Neil Young che reinventa Oh Susannah) o ricontestualizzare musiche già note (Springsteen che in Rocky Ground rispolvera l’archivio di Alan Lomax), pur rimanendo fedeli a se stessi.
Continua su LSDmagazine.
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martedì 22 maggio 2012
L.A. Salami - Jianni's From Australia (She'll Get By Fine)
Da ragazzino adorava il cinema e ascoltava solo Hip-Hop.
Poi ha trovato Bob Dylan, e ha resettato tutti i sogni preadolescenziali.
Una chitarra acustica scassata e un'armonica in Do hanno fatto il resto.
I primi approcci si sono tramutati in timidi accordi, le prime melodie si sono rinnovate in versi infarciti di sogni e speranze. Alla vecchia maniera dei cantautori, con personaggi che danno vita a piccole storie.
Lookman Adekunle “L.A.” Salami dalle sponde del Tamigi aspetta di vedere dove la corrente porterà il suo folk. Ha già inciso Failure, uscito nel settembre scorso, e si appresta a presentare il secondo album (ancora senza titolo). Jianni's From Australia (She'll Get By Fine) è il singolo che ne presenta la cifra.
Poi ha trovato Bob Dylan, e ha resettato tutti i sogni preadolescenziali.
Una chitarra acustica scassata e un'armonica in Do hanno fatto il resto.
I primi approcci si sono tramutati in timidi accordi, le prime melodie si sono rinnovate in versi infarciti di sogni e speranze. Alla vecchia maniera dei cantautori, con personaggi che danno vita a piccole storie.
Lookman Adekunle “L.A.” Salami dalle sponde del Tamigi aspetta di vedere dove la corrente porterà il suo folk. Ha già inciso Failure, uscito nel settembre scorso, e si appresta a presentare il secondo album (ancora senza titolo). Jianni's From Australia (She'll Get By Fine) è il singolo che ne presenta la cifra.
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