giovedì 17 settembre 2015

Gary Clark Jr. - The Story of Sonny Boy Slim

Musicista autodidatta, virtuoso della chitarra, cantautore, afroamericano del Texas. Sono le tessere del mosaico che raffigura Gary Clark Jr.
Osannato dal gotha del circuito mainstream, il musicista cerca di allargare la propria audience con The Story of Sonny Boy Slim, album blues che favorisce continui cambi di genere in un tripudio di ottima black music.



Mia madre mi chiamava Sonny Boy di tanto in tanto, e anche i miei artisti preferiti – Sonny Boy Williamson, e tutti quei ragazzi del blues – si chiamavano così”. E ancora “Greg Izor (un grande armonicista) mi chiamava sempre Slim”. Nasce da un arzigogolo di moniker il titolo del nuovo album di Gary Clark Jr.
The Story of Sonny Boy Slim: solo a pronunciarlo sembra evocativo e spontaneo. Si presenta come una risacca del passato che, in parte, ne restituisce la mitologia. Il suo autore è l’ultimo profeta di una lunga stirpe intento a (ri)leggere i comandamenti del blues senza badare troppo a mutamenti radicali. E’ fisiologico che prenda a prestito, che alluda, che provi a muoversi – quasi ad ogni passo – nelle orme impresse da strabilianti antesignani. Un’aspirazione, quella di misurarsi con i grandi, che per certi versi denota stima, per altri sottopone il progetto di Clark allo “stress test” delle analogie.
The Story of Sonny Boy Slim assume i contorni del lavoro biografico nell’intestazione e nel messaggio. Dopo una generica auto-presentazione affidata a Blak and Blu, debutto del 2012 per Warner Bros. Records, ora Gary Clark Jr. focalizza i dettagli e avoca per sé la piena autonomia, concettuale e pragmatica, nelle fasi cruciali del lavoro. Dall’ideazione alla scrittura, dall’arrangiamento alla produzione, è lui che progetta, suona, taglia, scarta e ricuce. Blak and Blu aveva provocato alcuni giudizi contrastanti tra i critici. Il disco si insediava autorevolmente nel solco della tradizione blues con significativi apporti soul e rhythm and blues. Ma a pesare sui commenti di certi puristi erano quei rimandi black à la page capaci di far travisare l’intera registrazione e di bollare Clark mero prigioniero nella morsa di un sound ruffiano. Un vero e proprio paradosso per un giovane bluesman che cercava di attualizzare il repertorio del genere raccogliendo giudizi esasperati: o lodi sperticate (per qualità di proposta, abilità tecnica e freschezza di stile) o biasimo (per eterogeneità, artificiosità, sovrapproduzione, pubblicazione tramite una major). Una situazione che non sembra aver pesato sul percorso dell’allora ventottenne, impegnato ad assecondare la propria attitudine dal vivo e in studio di registrazione.

Nell’alveo familiare delle strade di Austin, la sua città, Clark ha compendiato idee abbozzate in tour e le ha sigillate in The Story Of Sonny Boy Slim. L’album sfodera un’atmosfera intensa sin dalle prime battute. Partitura e liriche, pur nella loro relativa essenzialità, competono per la supremazia in un duello che si rivela molto personale. “Il tema di fondo di questo album sono la fede e la speranza nella realtà” conferma Clark “alla fine della giornata è ciò di cui abbiamo bisogno”. L’apertura affidata a The Healing conferma l’assunto. “I’m a hard fighting soldier and I’m on the battlefield” canta la voce fuori campo “I’ll keep bringing souls to Jesus by the service that I pray”. Il pezzo è introdotto dai versi di Hard Fightin’ Soldier, un traditional battista, un gospel che spiana la strada al manifesto di Clark, all’ammissione dogmatica della musica quale strumento catartico per tutte quelle aberrazioni che cingono d’assedio l’esistenza. Una canzone sospesa, di grande impatto, che assurge a metafora potente e salvifica. La solennità abbacinante del ritornello è quasi un mantra. Efficacemente posto in testa al tracklisting, il brano arretra solo grazie all’impatto di Grinder, testo recalcitrante ma indefinito, tra le cui battute aleggia il fantasma di Hendrix. La sacralità introduttiva è compromessa da feedback incisivi e lick ardenti alla maniera del mancino di Seattle.
Più evidente risulta il sentimento di sconforto in Hold On, redatto sull’onda emozionale della recente paternità. L’amarezza sfocia nella collera, nel disorientamento e nella frustrazione: lo squallore del razzismo, nonostante la presidenza di un afroamericano, deflagra con i fatti di Ferguson e Baltimora e risuscita un aspetto celato nella società statunitense di cui anche Clark è incredulo testimone.

Da Blak and Blu il nuovo The Story Of Sonny Boy Slim eredita uno spettro di varietà stilistiche che inclinano il mood. A spostare in ambito nettamente positivo l’“indice della felicità interna lorda” – sì, esiste per davvero – sono Shake, blues scaltro, veloce, senza tempo e BYOB (l’acronimo si riferisce al diritto di tappo?) intermezzo farsesco dall’alto tasso alcolico. La voce di Clark si rivela vincente, è una risorsa persuasiva al pari delle sue innate doti di chitarrista. In Star il texano sfodera lo stesso falsetto che gli è valso il Grammy Award per Please Come Home (Best Traditional R&B Performance) mentre Our Love e Cold Blooded sembrano celebrare la raffinatezza timbrica di Curtis Mayfield. Church, intrisa di spiritualismo – e per ciò legata a doppio filo con The Healing – è tutta voce, chitarra acustica, armonica e un tocco di percussioni. Esempio di scarna bellezza, lascia coincidere ulteriori brandelli di storia personale con quella artistica, dato l’ausilio delle due sorelle Clark, Shawn e Savannah, ai cori.

Gary Clark Jr. ha mosso i primi passi presso l’Antone’s – del leggendario promoter Clifford Antone – l’ombelico del mondo blues. Da adolescente, in quel locale, ha iniziato a fare proseliti ed ha trovato il prezioso aiuto di Jimmie Vaughan (fratello dell’indimenticato Stevie Ray) fino a scalare le vette del successo ed arrivare ad esibirsi durante il Crossroads Guitar Festival nel 2010. Da quel momento la carriera di Clark è stata un crescendo che lo ha portato a calcare il palco al fianco di numerose star (su tutte, gli Stones per il loro tour 50 & Counting). L’inesorabile esplosione sulla scena musicale non sembra aver disorientato il bluesman che, in proposito, ha schiettamente ammesso: “Realizzo i miei spettacoli e incido i miei dischi. Cerco di non rimanere invischiato nelle campagne pubblicitarie che accompagnano il mio nome. Sono sempre lo stesso: faccio quello che facevo prima”. Oltre alle qualità fin qui mostrate, sono il legame con le radici e l’innato desiderio di incrociarle con il soul, l’hip hop e ulteriori rivoli della musica contemporanea, che forse candidano davvero Gary Clark Jr. a rappresentare, insieme a pochi altri esponenti (l’immarcescibile Prince, il redivivo D’Angelo, e l’ammaliatore Kendrick Lamar), il titolo di campione mondiale della scena black. Il verdetto appartiene al futuro, è certo, ma al presente spetta The Story Of Sonny Boy Slim.

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- Fotografie di Frank Maddocks e Jon Shapley.

venerdì 11 settembre 2015

EZTV - Calling Out

Gli EZTV debuttano con "Calling Out", album pregno di potenziali hit segnate dalle ormai famigerate pene d’amor perduto. Buona la prima, dunque, ma per plasmare musica da ricordare occorre più originalità.

Emozionale sul piano testuale e vintage su quello sonoro, l’esordio discografico degli EZTV ricuce tessuti melodici recuperati dai sixties e parsimonia ritmica dagli eighties.  
CallingOut potrebbe sembrare gracile, e per gran parte lo è, ma scrostata la sottile vernice di immediatezza che lo ricopre, si rivela più solido di quel che appare.

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martedì 1 settembre 2015

The Lafontaines - Class

Gli scozzesi Kerr Okan (voce), Jamie Keenan (batteria), John Gerard (bass), Iain Findlay (chitarra) e Darren McCaughey (chitarra e tastiere) fondano il gruppo The Lafontaines nel 2010. Il giovane quintetto promuove un crossover che “ufficialmente” prende spunto dal rapping dello statunitense Notorius B.I.G. e dalle sonorità dei connazionali Biffy Clyro. Per certi versi, il duplice orientamento è attendibile: risulta evidente la fascinazione hip hop, meno quella rock. Più che altro è un godibile power pop a brillare, soprattutto durante gli spettacoli dal vivo. Il sound è certamente immediato, ma non rigorosamente radicale. Spesso ricorda episodi moderati del pluripremiato coacervo concepito dai Linkin Park. Il primo lavoro discografico è l’EP All She Knows, del 2013, ma il vero e proprio debutto è Class (giugno 2015), un lavoro che calca la mano su temi personali e generazionali, e focalizza uno stile bardato con chitarre in overdrive e testi turbinosi. Quasi tutte le tracce del disco presentano suoni pieni ma non necessariamente aggressivi, che si traducono in una voluminosa massa. L’intensa attività live è imprescindibile per una band che vuole farsi una reputazione, per questo i The Lafontaines si esibiscono in numerosi piccoli club (anche negli States) prima di affrontare l’annuale edizione del “T in the Park”, il leggendario festival scozzese.
Il curioso nome della band è stato scelto per onorare il grande voice actor americano Don LaFontaine, scomparso nel 2008 poco prima di mettere in atto una collaborazione con i ragazzi di Glasgow.

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