domenica 21 ottobre 2012

Tra i chiaroscuri di Born To Run

La musica contemporanea ha sempre trovato un potente alleato nelle immagini. Molte hanno acquisito una fama tanto insperata quanto fuggevole, poche altre hanno strappato un posto all’immortalità. Il movimento rock, nei suoi primi vent'anni, ha promosso una mitologia iconografica assurta a modello estetico. Alla metà dei ’70, Springsteen s’imponeva quale archetipo di una sciatteria educata dai caratteri identitari, alcuni latenti, altri conclamati, riassunti per la copertina di Born To Run. Il look del giovane musicista combinava scampoli di passate stagioni e, inconsciamente, ne introduceva una alle porte. Ma, nel nitido contrasto tra il bianco e il nero, davvero tutto è stato svelato? L’interesse, tutt'oggi, ricade sul generale a scapito del particolare.
 
Famosa, famosissima, la fotografia scelta per rappresentare Born To Run, negli anni ha raggiunto un’esposizione mediatica incredibilmente vasta. Bruce Springsteen è ritratto con la sua Fender, co-protagonista dello scatto, che lì nel mezzo esige attenzione. E’ un immagine che offre qualcosa di magico perché si presenta carica di potenza, tanto da collocarsi tra i riferimenti dell’arte visiva correlata alla musica. E’ solo comunicazione, in fondo, ma porta in dote una quota di incontaminata disinvoltura, una dose di esuberante ingenuità che lascia pensare a qualcosa di diverso dalla propaganda commerciale. Chi ha il disco in vinile sa del retro apribile con tanto di Clarence “Big Man” Clemons a sorreggere lo smilzo “Bad Scooter” (eh sì, se dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna, dietro un grande rocker … c’è sempre un grande sassofonista) in una posa che inneggia all’amicizia ed esalta i toni della fratellanza. Il bianco e nero scelto per lo scatto traduce al meglio il contenuto del disco, esprimendo il classicismo di una musica che confida nell’eternità. Indosso a Springsteen, passato e presente riconfermano fonti di ispirazione e credo. L’ostentazione della spilla raffigurante Elvis aggrega orfani della controcultura dei ’50; zazzera e barba incolta richiamano l’esteriorità anticonformista in auge nei ’60; chiodo indossato con disinvoltura, canotta logora (e quelle sneaker lacere visibili in una foto di copertina alternativa) sembrano anticipare involontariamente la moda punk. E’ un simbolismo che riesce a catturare l’immaginario di differenti visioni, a richiamare al senso di appartenenza al mondo rock. Un’impresa titanica compiuta con un look cencioso, ma ricercato, celebrato in versi cantati solo due anni prima, efficaci nel persuadere che è davvero difficile essere un santo in città. Tutti i provini per la copertina vengono realizzati in un'unica sessione il 20 giugno 1975. Sono opera del fotografo Eric Meola che trent’anni dopo li ha resi integralmente manifesti in Born to Run The Unseen Photos, coffee table book da cui trae origine l’ulteriore compendio intitolato Born To Run Revisited, pregiatissimo volume che seleziona stampe dal formato (alla stregua del prezzo) colossale.


Per volontà di Meola il set fotografico di Born To Run appare netto come un foglio candido su cui provare ad imbastire un racconto. Soggetti e scenario devono essere contaminati dal nero e al tempo stesso curati da un antidoto di bianco. Il fotografo decide di fissare quell’attimo in un “non luogo”, in un difetto dell’immaginazione, in un limbo accessibile solo al sogno. E’ un party a numero chiuso che rende la fotografia insolita, astratta com’è da qualsiasi contesto scenografico, calata in una realtà a se stante. Qui ad attrarre lo sguardo sono i dettagli, compresi quelli della chitarra, oggetto inanimato che più vivo non potrebbe essere. Un pezzo di legno che ha imparato a parlare e che, nel testo di Thunder Road, si ritaglia versi magari pretenziosi ma messaggeri di un finale catartico. Springsteen e la sua “dannata chitarra” (come usava apostrofarla Douglas, suo padre) delineano non tanto la puntuale sinossi quanto la perfetta idealizzazione dell’album. Difficile poterne immaginare il postulato a prima vista, ma copertina e contenuto saldano elementi che sorreggono una tesi unica. Tra proclami e dilemmi si inneggia al rock‘n’roll salvifico e rivoluzionario dei primordi. Indizi, mescolati tra particolari figurativi e dettagli compositivi, si combinano: Presley sorride sulla spilla celebrativa di un club di ammiratori newyorkesi, Roy Orbison è menzionato in prima battuta e Bo Diddley è celebrato ogni qual volta rimbalza la sequenza di “mi” e “la” in She’s the One. Ma tutte queste cose sono note, nonché meglio approfondite su centinaia di testi scritti con la massima accuratezza.
 

A sorprendere è una peculiarità di quella chitarra. Una parte ben visibile ma al riparo dietro corde che sono rifugio e al contempo motivo di evidenti graffi. Quella foto ha quasi certamente decuplicato le vendite della Fender e ha garantito l’immortalità alla prima decente chitarra solid-body della storia. Ha fatto sbavare migliaia di teen-ager e di sicuro è stata preda di numerose imitazioni, eppure non tutti si sono soffermati ad osservare il battipenna. E il riferimento non riguarda il tizio, figura solitaria rintanata in una backstreet, che s’intravede tra una corda e l’altra. Sicuramente l'enigmatica "immagine nell’immagine" invita a favoleggiare. Lo scenario notturno è rischiarato dalla luna piena e dalla luce artificiale del lampione che offre sostegno all’uomo. Lo sconosciuto calza un cappello e pare portare una mano alla visiera per assestarla sulla fronte. Potrebbe volere essere nient’altro che un semplice accomodamento eppure potrebbe celare un segnale rivolto a chi si affaccia alla finestra sullo sfondo. Potrebbe essere il cenno d’intesa lanciato a quell’Eddie che in Meeting Across the River deve procurare un passaggio. O forse, potrebbe essere solo il rituale meditativo di un ragazzo che sfumacchia l’ultima sigaretta prima di saltare in macchina con Wendy e scappare da una città che agli uomini, manco fossero animali da macello, strappa le ossa. O ancora, potrebbe essere qualcuno che porta l’armonica alla bocca per farci vibrare dentro il soffio che intona l’incipit del disco. Ad ogni modo, chiunque rappresenti il personaggio stilizzato, ammesso che rappresenti qualcuno, è inciso o stampato su un materiale insolito per il suo utilizzo. Il battipenna ha l’infelice compito di parare i fendenti, di raccogliere il fine corsa del plettro scagliato sulle corde. Vero è che già nel ’75 ben poco c’era da preservare di una povera chitarra che si offriva al mondo in tutta la sua sfregiata bellezza, ma a sapere che il pezzo nero avvitato sotto le sei corde non è in plastica, tantomeno in bachelite, sorprende. Non un prodotto del petrolio, quindi, e nemmeno una resina.
 
George Orwell asseriva che “ci vuole uno sforzo costante per vedere cosa c’è sotto il proprio naso”. Nulla di più vero. Cuoio. Il battipenna è in cuoio. Quella Fender è agghindata con della pelle nera. Una scelta che conferisce personalità ad una chitarra che, con tutte quelle storie sulle sue parti assemblate, favorisce il riscatto dell’ibridazione sull’ordinarietà di strumenti rimasti inviolati. Ma di ordinario in una chitarra che si rispetti, non vi è mai traccia. C’è sempre una minuzia che la rende unica, una tipicità che la distingue dalle altre, non tanto in quanto a spasmodica ricerca del suono distintivo (qui rientrano variabili diverse quali l’approccio stilistico allo strumento, l’amplificazione, l’effettistica e altro ancora) quanto a tratto estetico. Chi deve il proprio successo a quell’accumulo di legname e metallo, tende sempre ad assegnargli un valore che supera di gran lunga quello che occhi profani leggono come una strana suppellettile. Jimi Hendrix usava adornare personalmente la propria “Strato”, Joe Strummer ha iniziato a mettere qualche adesivo sulla propria “Tele” fino a rivestirla integralmente, Tom Morello – altro musicista che si affida ad un ibrido – espone simboli e scrive messaggi radicali sulla sua chitarra customizzata, senza dimenticare Prince che ne ha fatta produrre una identica all’ideogramma col quale ama identificarsi (Love Symbol). Alla stessa stregua, la chitarra di Springsteen è conformata alla personalità del musicista. Vestita da un battipenna nero, quella Fender è strumento antropomorfo che nasconde ossa, muscoli e cuore, proprio come Bruce sotto una giacca dello stesso materiale e colore. In rete sono disponibili ingrandimenti che svelano, nei dettagli, incisioni e colori che col tempo, probabilmente, sono stati spazzati via dal sudore. Una fine che deve essere toccata anche alla pelle conciata del precedente “pickguard”, quello rosso con un ovale giallo oro al centro. Ma di questo accessorio è difficile ritrovare foto a colori che ne illustrino chiaramente i tratti.

Le informazioni circa la provenienza del battipenna con le miniature sono incerte, ma risulta nota la destinazione ultima. Non è dato sapere, infatti, se è stato acquistato o commissionato dal ragazzo del New Jersey. Di sicuro si sa che è finito nelle mani di tale Ed Kosinski, collezionista (di memorabilia rock, in generale, e di Springsteen in particolare), collaboratore per la Rock and Roll Hall of Fame di Cleveland ed esperto chiamato a verificare l’autenticità degli autografi delle rockstar.
Alla foto di Born To Run, dunque, va anche riconosciuto il merito di mostrare un accessorio della chitarra di Bruce mai riproposto altrove (la copertina del primo Gratest Hits riprende una stampa pubblicitaria del ‘75). Tuttavia, ci sono delle eccezioni al passato che non ritorna. Una copia del battipenna, “riveduta e corretta”, potrebbe spuntare da un momento all’altro su un duplicato della Tele-Esquire di Springsteen. Pochi mesi fa Dave Petillo (figlio di Phil, il leggendario liutaio di Bruce scomparso nel 2010) ha ammesso di aver riprodotto quel caratteristico battipenna, anche se con qualche aggiustamento e, soprattutto, senza l’utilizzo del cuoio. Il cast dei soggetti raffigurati nel ’75 è stato personalizzato e ampliato. La ragazza ora ha i capelli rossi di Patti Scialfa e dalla finestra del pianterreno (all’epoca vuota) spunta l’inconfondibile sagoma di Clarence intento a suonare il sax. Fino ad oggi, però, questa riedizione è rimasta chiusa nel cassetto.

Degno di nota è anche un altro particolare, assente dalla copertina di Born To Run, ma allacciato (è proprio il caso di dirlo) al concept promozionale dell’album. Quella delle scarpe è metafora ampiamente utilizzata per celebrare il concetto di chi è “Nato per correre”. Difficile azzardare la congettura che individua in questa campagna pubblicitaria una nuova consuetudine, poi imitata un po’ dappertutto e in serie. Innegabilmente il book fotografico di Meola impone un assioma arrivato fino ai giorni nostri: due Converse lo-top penzolanti significano “Born To Run”, dicono Bruce. Backstreets “la più grande comunità mondiale di fan di Springsteen”, ad esempio, rappresenta nel proprio logo quelle sneaker. Sneaker diverse l’una dall’altra. Una stramba usanza che il ragazzo adottava non solo sul set fotografico ma anche on stage. In più di una foto si può notare la differenza tra quella che sembra la classica All Star modello Chuck Taylor (anche se le tre strisce oblique ricordano il marchio Adidas) e quella che rassomiglia ad una Converse Jack Purcell. Chissà, magari atteggiamenti insoliti come questo, insieme ad altri, possono aver indotto il precipitoso Jay Mernicky – dirigente della CBS all’epoca di Born To Run – a dichiarare che “Springsteen è un vero bluff”, “un drogato” beneficiario di una reclame ipertrofica e immotivata. Ma anche se anomali, quelli erano modi di fare propri di un venticinquenne un po’ guascone, nonché di un musicista esposto all’obiettivo. La storia ha poi emesso la sua sentenza, convalidata da una carriera che di anni è arrivata a contarne 40 e che, proprio con le musiche di Born To Run ha preso il largo. Ma quell’album ha trovato un potente alleato in una pellicola in bianco e nero. Non si potranno mai slegare qualità espressa dalle otto tracce e valore aggiunto di una copertina che ha avuto il pregio di eternare la magia di un momento. Irripetibile. E davvero non importa se non è un capolavoro dell’arte fotografica. Si potrebbe affermare, parafrasando Springsteen stesso, che non è una cover bellissima ma, hey, per i fans va benissimo così.

  
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Riferimenti: Born To Run, Bruce Springsteen, Clarence Clemons e la Tele-Esquire -  Il Fender Forum -  La spilla del fans club di Elvis Presley (FeelNumb.com) -  Articolo sul battipenna recentemente ricreato da Dave Petillo (New Jersey 101.5 Radio) -  Il chiodo (tratto dal sito philly.com) -  GuitarGuruMagazine -  Il sito di Barry Ollman -
Il logo di Backstreets.com
Le foto in bianco e nero sono di Eric Meola.

venerdì 19 ottobre 2012

The Jon Spencer Blues Explosion - Meat and Bone

Jon Spencer è tornato con il suo gruppo storico e un nuovo album. Meat and Bone sfrutta la tradizione, la propria. Musica tirata, secca e dura come il rock. Dannata e fangosa come il blues.

Continua su  LSDmagazine.

venerdì 12 ottobre 2012

L'EP di Mr. Balzary

Il Silverlake Conservatory of Music non ha scopo di lucro. Qui i meno abbienti hanno la possibilità di imparare a suonare. I corsi si tengono sette giorni su sette e sono aperti a tutti, dato che non si ammettono discriminazioni di alcun genere e non si pongono vincoli di età.
La scuola di musica è nata undici anni fa, a Los Angeles, per volere di Michael Peter Balzary. A lui si devono gli annuali concerti benefici che mobilitano coscienziose rock star e le vendite all’asta di ricercate memorabilia che fruttano proventi da destinare alle attività del conservatorio. L’anno scorso l’insieme delle iniziative ha permesso di raccogliere una cifra superiore al 1.000.000 di dollari.
Un paio di mesi fa, Balzary ha provato a raccogliere fondi con la vendita di musica autoprodotta. Ha reso disponibile il download di un suo EP (la versione fisica, in vinile, è andata ben presto sold-out) chiamato Helen Burns. Registrato in casa insieme ad alcuni amici-musicisti, il concept conta sei tracce, per lo più strumentali e sperimentali, che vantano guest appearance di tutto rispetto. Jack Irons e Chad Smith, rispettivamente primo ed attuale batterista dei Red Hot Chili Peppers, sono della partita, ma a concedere smalto al progetto è Patti Smith. Affettuosamente definita “sorella” nelle note di copertina, la poetessa rock caratterizza con la sua inconfondibile voce il lento fluire della title track, una nenia che prende in prestito il nome dal personaggio descritto in Jane Eyre, romanzo d’epoca vittoriana firmato dalla scrittrice Charlotte Brontë.
Pronti sin dal 2007, ma mai pubblicati prima d’ora, i componimenti rispecchiano i toni cupi e instabili di chi è preda del down da superlavoro e in più vaga nell’indeterminatezza, stadio in cui versava Balzary al tempo delle sessioni casalinghe. Ma Helen Burns non è esclusivamente dimesso, offre anche momenti positivi (Lovelovelove) e ha il pregio di mostrare le doti di un autore che si svela trombettista intraprendente e apprezzabile polistrumentista.
Acquistabile con una libera offerta tramite il sito della Silverlake, l’EP è situato in un’apposita sezione riconducibile a Mr. Balzary, ai più noto come Flea, stravagante bassista dei Red Hot Chili Peppers.

giovedì 4 ottobre 2012

Rekkiabilly - Banana Split

Chitarra a condurre, fiati a dare corpo, contrabbasso più batteria a scandire i ritmi e voce a richiamare il fascinoso, intramontabile, invincibile rock’n’roll. I Rekkiabilly (lo slang barese recchia, da orecchio, che convola a nozze con l’americano rockabilly) sono capaci di infilare accordi solidi e rozzi in un profluvio di ironia. Il loro nuovo Banana Split esce su un mercato saturo di suoni preda della più turpe retromania (per rubare un termine a Simon Reynolds), dove per emergere serve, il più delle volte, poca sostanza e molta pubblicità ingannevole. Invece Dario Mattoni (chitarra e voce), “Amaro” Luciano Sibona (contrabbasso e voce), Guido "bumbum" Vincenti (batteria), Lidia Bitetti (sax) e Ricky "Ballerino" La Torre (tromba e voce) sublimano qualità e levità. Il disco è un tonico per il morale, un ceffone alle mode passeggere e alle strabiche visioni di chi diffonde il verbo sintetico dell’ultima band nata sotto il segno dell’elettronica più rigida (per inciso: cos’altro dopo i Depeche Mode?). Certo, ad un superficiale ascolto anche i Rekkiabilly corrono il rischio di essere rapidamente archiviati nell’ipertrofica sfilza di gruppi debuttanti eppure così nostalgici da risultare ammuffiti. Ma lavato via il gel dai capelli, e destata l’espressione vagamente ilare dai volti dei baresi, emerge il nocciolo di una band capace di sgusciare a tutto swing o di sfruttare dinamiche soul, di allacciarsi ai ganci del country e di improvvisare a tutto jazz. Molteplici influenze che si ritrovano nel singolo Sisma (che tramuta la leggerezza in sarcasmo), la title track o la Burn Toast and Black Coffee di Mike Pedicin tradotta in una chilometrica Toast e Caffè Arrosto. La matrice rock anni ’50 è incisa a chiare lettere nel DNA della band, ma l’integrità dei musicisti si lascia costantemente permeare da altri generi, come nella Six By Six che è cover di Earl Van Dyke. Dal vivo, tutto ciò si traduce in baldoria pura, in festa trascinante. E a proposito di concerti, quanti nel curriculum possono scrivere di aver diviso il palco con Robert Gordon? Non è poco in un ambito “artistico” che si conforma sempre più ai reality canori, che inneggia starlets e divulga filastrocche frignate da computer.

Il sito ufficiale della band è qui.

martedì 2 ottobre 2012

Quel film pirata sui Pearl Jam

All'alba dei '90, quando Seattle è solo un "sonnolento villaggio di pescatori", Duncan Sharp si specializza in fotografia musicale. Nel periodo in cui deflagra la locale scena rock, si trova nel posto giusto al momento giusto e ritrae band che negli anni risulteranno autorevoli riferimenti planetari. Come i Pearl Jam, da lui seguiti a vista d’occhio in Asia e Oceania per le tappe del Vitalogy Tour. Sharp vola con il gruppo in Oriente e pone la sua discreta presenza al servizio della band. Li filma e li fotografa ovunque, ricavando materiale per una pellicola di quasi tre ore. Un lungometraggio sicuramente eccessivo per durata – tanto da annoiare con momenti decisamente trascurabili – ma che ha il pregio di fissare i Pearl Jam in un momento metamorfico, con dinamiche interne modificate, con il lutto di Cobain da elaborare, il senso di frustrazione per l'affaire Ticketmaster da reggere e un nuovo batterista - l'ennesimo - da gestire. Una transizione che forse regala le ultime fiammate giovanili del gruppo e che li spinge a mettere a ferro e fuoco il palco, a cazzeggiare, a gironzolare nascosti sotto improbabili parrucche, ad improvvisare un farsesco siparietto in spiaggia e a prendersi pubblicamente (e letteralmente) a torte in faccia con la complicità di Flea.
Riprese naïf e proprio per questo riuscitissime, capaci di rendere al meglio barlumi di positività che i ragazzi ritrovano lontano da casa. Il girato non trova alcuna ufficialità ma non resta a lungo inutilizzato. Ben presto videobootleg su nastro circolano tra i fans, anche se a fatica, mentre nell’era interneutica risulta semplice il ripescaggio tra le onde del web, dove spesso si incrociano rotte di pirati generosi.
Anche il giornalista/regista Cameron Crowe per il suo PJ20 ha recuperato frammenti del film di Sharp (la lotta impari tra Eddie e il mostro scippato ad un horror di fantascienza giapponese viene da lì) ma si è limitato ad usare pochi fotogrammi. Proprio il recente repackaging dell’home video PJ20 (nuovo involucro, ma vecchio contenuto) poteva regalarci tra i bonus la versione ripulita del “Pacific Leg” di Vitalogy, invece neanche questa occasione si è rivelata propizia. Chi vorrà acchiapparlo sarà costretto ad uscire in barca.
 

Duncan Sharp è raggiungibile presso il suo web site.