domenica 18 aprile 2010

Tucker Crowe and The Politics of Joy (II)

Segue (da qui)

La credibilità di ragazzo scostante vacilla quando il teppistello del Montana infila in scaletta un’altra dedica: si tratta di una rara versione di Her Piano (da Infidelity and Other Domestic Investigation del 1979) concepita in memoria di sua madre Cynthia, insegnante di musica. Scotty Phillips dona colore ad una ballata incentrata sulle morbide armonie proposte dall’arcinoto Steinway malandato proprio mentre Tucker canta malinconico “del pianoforte di Cindy che ormai manda solo freddo silenzio”. Fischi isolati di disapprovazione e frasi di scherno (“Hey, è un funerale o un concerto?”) si levano dalla platea e un fulmine attraversa lo sguardo di Crowe. Lo stesso fulmine che animava feroci occhiate e si palesava tramite epiteti (“dattilografi del cazzo!”) lanciati, dal palco, all’indirizzo dei giornalisti dieci anni fa. “Bruce + Bob + Leonard = Tucker”: era questo famigerato slogan, finto come una moneta di stagno, a mandarlo su tutte le furie. Lo aveva adoperato l’etichetta discografica per pompare le vendite, ma il giochetto era quasi valso la carriera a "the new big thing". Le sacrosante critiche di Greil Marcus, poi, facevano il resto (“Determinazione + bislaccheria – John Denver = un po’ pochino). Tutta acqua passata. Ma la voglia di essere re, almeno per un giorno, è ancora intatta.
L’acustica vola sulle teste di mezza band prima di atterrare tra le premurose braccia di Burt Kenny (il fidato roadie di Tucker). Una bellissima ouverture di Hammond fa da trampolino di lancio per un invito alquanto esplicito (“suonate forte, cazzo!”) che sa di già sentito ma che non perde in efficacia. Crowe percuote la sua Gibson fino a spaccare una corda, la voce torna roca e l’attacco di The Twentieht Call of the Day è da incontro di lotta libera. Un improbabile corpo a corpo con i fantasmi di un recente passato che stenta a dileguarsi. Il pezzo è cattivo quanto basta e rinfocola l’oltraggioso pogo nel pit. La security è in allerta ma a giungere a brandelli, nel sottopalco, è solo il giubbotto lanciato da Crowe ad inizio concerto. I Politics si allineano sul bordo dello stage come a voler succhiare tutta l’energia dell’audience per poi restituirla amplificata. Tucker sembra surfare mentre resta in bilico sul monitor centrale. Inizia ad inveire contro alcune ragazze che, amorevoli, gli lanciano gridolini isterici e un campionario davvero assortito di ultimi modelli di lingerie. Una, addirittura, gli getta una rosa rossa rimasta integra fino a questo punto del concitato live act: Tucker, con un'espressione presa in prestito dal miglior Jack Nicholson, sorride, la raccoglie, l’annusa e la scaraventa sulle assi del palco mentre, continuando a cantare con più veemenza, la calpesta ripetutamente. Sembrerebbe una scena comica ma non lo è. Mi domando se Crow stia cercando di impressionare l’attore e regista Gene Wilder presente in tribuna d’onore. (Secondo i bene informati il nostro concittadino sarebbe tornato in città dopo aver ultimato le riprese del suo prossimo film. Ma cosa possa indurre Wilder ad assistere ad uno show di Crowe resta un mistero).
L’eccesso d’ira, da e per lo stage, ha raggiunto il limite. La battaglia si consuma a colpi di energia. La band non si risparmia e tra un goccio e l’altro di birra produce ritmi granitici. Proprio mentre tracanna una bionda, Crowe saluta una rappresentanza di dipendenti della Jacob Leinenkugel Brewing Company di Chipewa Falls, 5 ore di macchina e 275 miglia di asfalto a nord ovest di Milwaukee. Sono cinque e sono entrati gratis con pass che consentiranno l’accesso anche al backstage. La loro fabbrica di birra pare navigare in brutte acque (la concorrenza della Miller si fa sempre più spietata) e 90 dipendenti rischiano il posto. Per loro suona una struggente Can Anybody Hear Me? tratta dall’ EP, del '78, dall'amonimo titolo. E questa è di per sé una notizia, perché Tucker non ha mai fatto dell’impegno civile una bandiera. I ragazzi della “Leinies”, intanto, incassano solidarietà e pubblicizzano il caso.
I Politics of Joy, come è noto, non concendono bis semplicemente perché odiano spezzare con una pausa il concerto. Quello che è un lungo scambio, di disprezzo o di amore non importa, con il pubblico non può essere inframmezzato da quella orrida pantomima della finta conclusione dello spettacolo.
E allora via verso la conclusione che pare assegnare a You and Your Perfect Life il posto d’onore. Mentre il beat è già in essere, Crowe mima un calcio volante indirizzato alla platea, cade in terra in una posa alla Bruce Lee, si gira e corre a schiantarsi - volontariamente - contro la batteria. Si rialza, accorda al volo la chitarra e ci da dentro con una versione insospettabile, carica di passione e rimpianto. La testata rimediata alla grancassa avrebbe fermato un comune mortale ma Crowe pare trarre stimoli positivi dal dolore. Come se nulla fosse, si piega sul manico della chitarra, stira le note e urla nel microfono l’ultimo atto del suo Juliet. Il pubblico è riconquistato e le ragazze delle prime file ricominciano a singhiozzare inebetite. L’esecuzione dal vivo di You and Your Perfect Life doppia la durata della versione in studio. Sembra una piccola suite rock. Il rimpianto di And You Are? è diventato odio e la stupidità di The Twentieht Call of the Day si è tramutata in follia: “me ne stavo lì a lanciare sassi contro la finestra/ finché alla porta arrivò lui/ ma allora lei dov’era, signora Balfour?”. Comincia l’appassionato a sólo che porta dritto alla tag. In una sequenza di velocissime note l’intreccio con Layla di Eric Clapton (o di Derek and the Dominos, se si preferisce) è sublime. Dopo un’ora e un quarto la musica del selvaggio Tucker Crow ha messo in ginocchio l’Arena. In visibilio, la platea tributa il caldo saluto del Wisconsin a questo spirito inquieto. Il peso del mondo, che pare gravare tutto sul burbero musicista, può essere alleggerito dal rock’n’roll. Il live di questa sera dimostra che Tucker ha esorcizzato, grazie alla musica, molti dei suoi demoni anche se non ha ancora dimenticato Juliet. Ma questa è … tutta un’altra musica.

venerdì 16 aprile 2010

Tucker Crowe and The Politics of Joy (I)

Ho trovato la cronaca di un interessantissimo articolo di ben 24 anni fa.
Che tipo questo Crowe!
Spero che la traduzione dall’inglese sia chiara.
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Milwaukee, 16 aprile 1986

di Paul W. Silverbull
per The Milwaukee Inquirer
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Dopo aver ospitato i Dire Straits, lo scorso agosto, e i Metallica, pochi giorni fa, Milwaukee ha assistito ad un altro concerto ad alto tasso emozionale. L’eccentrico Tucker Crowe sfida se stesso e il mondo con il suo show fatto di eccessi. Selvaggio, atipico e a tratti strepitoso, il musicista del Montana dimostra di aver raggiunto la maturità artistica. Purtroppo, solo quella.
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Battaglia doveva essere e battaglia è stata. Dopo un’ora di ritardo Tucker Crowe sale sul palco, con faccia estasiata e sorriso sornione, per annunciare al pubblico: “La Signora Furmick proprio non voleva saperne di staccarsi da me!”.
L’infelice, ma non insolito, esordio del cantautore riesce ad indispettire anche i pochi presenti disposti a perdonare questo ennesimo capriccio. La stragrande maggioranza dei 9.500 paganti gli riserva una bordata di fischi che riempie l’Arena di Milwaukee, luogo destinato ad accogliere la decima e unica tappa nel Wisconsin del “Juliet Tour”.
A Tucker non dev’essere andato a genio il poco lodevole articolo del Milwaukee Newspaper, firmato da Don Furmick, in cui ci si chiedeva: “perché questa città deve accontentarsi di un alcolista che gioca a fare il musicista dopo aver avuto Dire Straits e Metallica?”. Vero è che Crowe non ha il talento di Mark Knofler e il seguito dei Metallica; vero è che il quasi trentatrenne di Bozeman è dedito – per sua stessa ammissione – all’alcool; ma altrettanto vero è che Juliet, il suo sesto disco uscito il 2 aprile scorso, è intriso di una passione e una spiazzante sincerità capaci di lasciare il segno anche nel Furmick più inacidito.
Ma non tutti i mali vengono per nuocere. La risposta di Tucker, allo spazientito pubblico, è benzina sul fuoco e, nel rock’n’roll, la rabbia è un dono. Tucker sveste il giubbotto di pelle, lo lancia in pasto al suo pubblico e impugna la Les Paul per produrre un interminabile effetto feedback spacca timpani. Poi allarga le braccia al cielo come a trattenere un’energia incontenibile. E’ il segnale. Billy Backer inizia a colpire, con lucida follia omicida, le pelli della sua batteria. I Politics of Joy, senza il dimissionario Sneaky Pete Kleinow alla pedal steel, si lanciano all’inseguimento di una selvaggia And You Are?. Molto più ritmico, questo nuovo arrangiamento, corre a perdifiato lungo una spirale di disperazione; la musica ricorda la violenza degli MC5, il testo sembra uscito dalla penna di un acerbo Lou Reed: “Mi avevano detto che parlare con te/ era masticare filo spinato con un’ulcera in bocca/ ma mai mi avevi ferito così”. Ma non è solo nell’anima che Tucker porta scolpito il suo dolore. Nell’arco di quei pochi mesi che dividono questa tournee dalla precedente, sembra essere invecchiato oltremodo, e poco o nulla fa per nasconderlo. Veste canotta e jeans neri attillati e si muove su scarpe che sembrano mezzi cingolati. I lineamenti del viso, eccessivamente pallido, hanno perso anzitempo elasticità e una pancetta antiestetica inizia a trovarsi a suo agio solo nascosta dalla chitarra. Alla fine del pezzo i veri fans, alcuni accorsi da tutto lo Stato, hanno rimpiazzato una buona dose di nervosismo, accumulato durante l’attesa, con una vagonata di adrenalina. Un cartello quasi illeggibile riemerge, dalla calca, nei pochi momenti di quiete e recita “Renegades of Reedsburg”. Su uno striscione seminascosto sulle tribune, invece, campeggia l’ermetica scritta “Madison for T(r)ucker(s). Yeah!”.
Crowe è visibilmente adirato. Sulla sua faccia si legge il tipico “ve la farò pagare” alla Clint Eastwood. Snocciola i nuovi pezzi senza tregua e con il chiaro intento di trasporre, dal vivo, il senso dei brani inclusi nel disco: per questo li ripropone in sequenza. Adultery, taglia, We’re in Trouble, morde e In Too Deep punge. Il pubblico è per gran parte domato.
Juliet è un album complesso. Il tormento che affiora dai solchi non lascia dubbi circa le intricate dinamiche che lo rendono un album maledetto. Nel volgere dei suoi dieci capitoli, musica e parole si cercano proprio come i due protagonisti alla base della storia, senza mai trovarsi. Quando la musica è dura, il testo è indulgente; quando gli arrangiamenti risultano scarni, le liriche sputano veleno. Si svelano, intrise di rabbia e tristezza, le pene d’amor perduto, e tutte le piccole e grandi tragedie che il breve ma intenso legame con la modella Julie Beatty ha lasciato in dote al povero Tucker. Il concerto prosegue con un mid tempo che consente a band e pubblico di prendere fiato. Cheez Doodle, al basso, reinterpreta, molle come lo è sul disco, il giro introduttivo della splendida The Better Man e Crowe ringhia nel microfono liriche disincantate: “La fortuna è una malattia, non la voglio vicino”. Ma anche i duri hanno un cuore. Inizia la fase introspettiva del concerto. Il cantante mette da parte, momentaneamente, i drammi sentimentali di Juliet ed imbraccia la sua Martin acustica per rileggere il suo passato artistico. Dal primo e omonimo album riesuma una Perc And Tickets (Perc, abbreviazione di percloroetilene) che, quasi commosso, dedica, ora come nove anni fa, allo scomparso padre Jerome: “Lui aveva questa stramba abitudine di fare le cose senza avvisare. Un giorno ha preso i miei jeans e li ha portati nella dannata lavanderia, di cui era proprietario, senza dirmi niente. Ha lavato i pantaloni e due biglietti che erano nelle tasche e, non so, questo percloroetilene … insomma sì li ha scoloriti, come bruciati. Erano ingressi per un concerto di Dylan! Ah, ah! Già. E così se n’è uscito dicendomi che aveva bruciato i miei biglietti per il paradiso. Questa è per te, Jerome, vecchio testone!”. Appena conclusa l’introduzione parlata, un tizio gli urla “sei un fottuto genio, T.C. (= Ti Sì)!”, e lui di rimando: “Oh, grazie per il fottuto! Ma chi cazzo ti ha fatto entrare?”.
Senza infamia e senza lode la rilettura, molto simile all’originale, di Venus dei Television.

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sabato 3 aprile 2010

The National - High Violet

High Violet dei National è un album in balia di onde dai calibri diversi: quelle che lievi spingono verso la riva e quelle violente che trascinano verso il largo. Tra componimenti delicati e struggenti, e graffi elettrici, la band americana regala al suo pubblico questo nuovo lavoro.

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