venerdì 19 dicembre 2008

“The one who left behind his name”

Nel 1982 gli scaffali dei negozi di dischi ospitavano “The Nightfly” di Donald Fagen, combinazione esemplare tra veste grafica tremendamente seducente e alta qualità del contenuto. Da quell’anno non si erano più viste, nei casellari di bottega, ipnotiche cover photo in grado di ispirare l’acquisto di un long playing.

A riconsegnare personalità e fascino a quella che per molto tempo sarà solo una scatola, ci penserà nel 1994, lo scatto a Jeff Buckley per “Grace”.
Grazie a questa romantica pòsa, debitrice dell’iconografia Rock anni ’50, viene restituito all’involucro del disco il dono di “primo messaggio”.
E pensare che, tra i vari provini, l’autrice (la fotografa Merry Cyr), aveva selezionato una ben diversa istantanea raffigurante - udite, udite - il giovane musicista adagiato su un trono.
Fortunatamente a spuntarla sarà Buckley che proporrà, nel ballottaggio, la propria preferenza: quell’inconfondibile, malinconico ed intenso ritratto con cui presenterà il suo capolavoro al mondo.

Lo sguardo basso piuttosto accigliato, i tratti del volto lineari - corredo genetico ricevuto in dono dal padre - un ciuffo di capelli abilmente spettinati sul lato sinistro dell’alta fronte. Una bizzarra giacca di paillettes a coprire una t-shirt bianca. Nel palmo della mano, ben stretto, un microfono d’altri tempi. Uno sfondo scuro su toni blu ad incorniciare la figura dell’artista e a metterla in risalto.
Ecco con quale copertina si offre al mondo uno tra gli album più innovativi degli anni ’90.

Indugiando sullo Shure d’annata, brandito nel pugno come fosse un’arma, si potrebbe facilmente equivocare. Ma tale atto non dev’essere inteso alla stregua di una metaforica minaccia. Il gesto, per contro, simboleggia una risorsa per la musica: Jeff si propone quale portavoce di un risorto movimento che tende a dimostrare la propria vitalità. Un ponte con il passato ricco di significati: dalla riaffermazione della canzoni incentrate su romantiche riflessioni, all’asserzione della propria estraneità alla corrente egemone in quel periodo. Rispolverando taglio di capelli e microfono di Elvis, è come se Buckley, conscio delle implicazioni del caso, andasse dritto contro la tempesta.

In un continuo saliscendi, “Grace” getta lo sguardo, in certi contesti, sul lato spirituale della vicenda umana. Dalla desolazione più cupa all’estasi nel volgere di una nota: un viaggio sulla rotta delle emozioni. Emozioni amplificate dalla magica voce di Jeff.
In modo molto suggestivo il disco si apre (“Mojo Pin”) con un ipnotico vocalizzo assimilabile alla mitologica descrizione del canto delle sirene. Soave e addolorata, questa ammaliante voce, unica, sa esprimere un canto fuori dal comune. Un cantato che è autentico sollievo; un suono capace di infondere tutta la tranquillità necessaria a mitigare l’animo dell’ascoltatore. Backley ha il pregio di soffiare ed urlare le parole in modo da rendere compiutamente il senso dei testi. Lo fa con una modulazione così pertinente ai versi proposti, che farà scuola sia nelle generazioni coeve sia in quelle future. Una voce capace di rompere gli stilemi pregressi del Rock. E’ da questo momento, infatti, che si moltiplicano i cantautori con la voglia di cantare e non solo di strillare: il solo fatto di comparire in scena con una Telecaster a tracolla e un’inquieta band elettrica al seguito, non comporta più l’obbligo di produrre baccano in 4/4.
Ma attenzione a non scambiare per morbida, quasi pop, la raffinata attitudine di Jeff nel cantare come si deve. La pulsante “Eternal Life”, ad esempio, verte verso un Rock contenuto, ovattato ma che ben lascia presagire la dirompente trasfigurazione dal vivo di questo brano.
Borderline per scelta, obbligo oppure attitudine, Jeff esprime al meglio, nell’arco di 52 minuti, le sue funamboliche doti vocali e musicali. Innamorato di Édith Piaf, ma soprattutto grande fan di Robert Plant e Nina Simone (citata con la riproposizione di “Lilac Wine” da lei portata al successo), Backley mescola le opposte qualità canore dei suoi ispiratori in uno stile personale che non ha eguali. Se nel disco prevalgono i brani vellutati è durante i live che la propensione ad un Rock inaspettatamente “tirato”, risulta palese con fulminanti versioni di “Kick Out The Jams” degli MC5 oltre che di brani degli Zeppellin.
Ma a proposito di cover, è la rivisitazione di “Hallelujah” di Leonard Cohen che colloca il nome di Jeff Buckley tra i primi posti di un ipotetico albo d’oro dei migliori cantanti di sempre: un elenco che (in questo caso) prescinde e supera tutte le distinzioni di genere. A quale categoria musicale, è ascrivibile questa fenomenale celebrazione delle possibilità vocali dell’essere umano? Se per alcune religioni dio si è fatto uomo, qui l’essere divino, si è fatto voce dell’uomo. Da questo momento “Hallelujah” non sarà mai più di Cohen: sarà per antonomasia “la canzone di Buckley”.
Ma questo straordinario artista non è solo un eccelso interprete e autore, è anche un chitarrista dotato di tecnica sopraffina. A parte i meriti che spettano ad Andy Wallace per aver abilmente prodotto e mixato il disco, si scorgono lungo le dieci tracce, particolari che provano la smisurata sensibilità di arrangiatore del giovane autore: una caratterizzante proprietà di fraseggio, pennate ora fragili ora potenti ed un drumming sempre in evidenza ma mai importuno.
L’utilizzo del bottleneck in “Last Goodbye” (impiegata anni dopo come sottofondo in alcune riprese di “Vanilla Sky” di Cameron Crowe), suscita grande impatto emotivo abbandonandoci nel limbo prima che la batteria lasci spazio a chitarre acustiche e basso. Solo in seguito, pregevoli arrangiamenti di archi, irrompono per accompagnare i versi di Jeff.
La romanticissima e struggente “Lover, You Should’ve Come Over” contempla accordi particolarmente insoliti per un pezzo Rock che accompagnano ineffabili liriche d’amore, lasciando indelebili nella memoria, intere frasi. E poi la tempestosa title-track (“Grace”) con quel “Wait in the fire” sussurrato a meraviglia: audace, sontuosa, con cori grandiosi, chitarre che simulano il ticchettio dell’orologio e un testo che, con il senno di poi, risulta agghiacciante. L’apice del lirismo in poco più di cinque minuti di emozionante musica (quasi una droga) dall’effetto duraturo.
A chiudere il sipario una visionaria “Dream Brother” che, scritta per un caro amico, è disseminata di aneddoti autobiografici tanto che si potrebbe ribattezzare “Dream Father”, senza vederne mutato il senso.

Desta curiosità notare che il giovane Buckley sceglie di riprendesi nome (e personalità) con l’inizio della sua attività artistica. Perché? Diverse sono le chiavi di lettura ma, nell’intimo ed appassionato lavoro portato a termine con “Grace”, forse, è possibile scorgere la risposta più esauriente.
Sofferta e meravigliosa, questa opera d’arte può essere considerata, in una personale e perfida sensazione, moto liberatorio e di riscatto: slancio creativo scaturito dal travaglio interiore, mai domo in Jeff, per non aver mai conosciuto suo padre Tim (cantautore e sperimentatore del “folk-jazz” negli anni ’60 e ‘70).
Realizza un solo disco in studio rispetto ai nove di suo padre, ma la grandezza di questo unico album sovrasta di gran lunga la pur pregevole produzione di Tim.
Con questo lavoro, Jeff, a 28 anni, è finalmente pronto a spogliarsi del beffardo titolo di “figlio di Tim”: d’ora in poi, infatti, Tim verrà individuato unanimemente come il “padre di Jeff Buckley”.
E questa, non è una differenza da poco.

Don't be like the one who made me so old
Don't be like the one who left behind his name

(“Dream Brother”)

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Per approfondimenti sulla vita artistica di Jeff suggerisco questo ottimo sito


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