venerdì 31 dicembre 2010

Tra Gioie & Paranoie il nuovo album de "Il Kif"

Struttura pop e fondamenta rock: Gioie & Paranoie è un album dagli arrangiamenti agili, adatti ad assecondare atmosfere da svago. Il Kif, band barese sulla scena da oltre un decennio, sprigiona in sala d’incisione tutta l’esperienza maturata in una caterva di concerti. E così il loro terzo lavoro sembra scaturire da registrazioni in presa diretta, orientate a limitare all’essenziale gli interventi in fase di editing e missaggio.

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giovedì 30 dicembre 2010

Elucubrazioni FOLKloristiche di fine anno

Tom Brosseau è un cantante, un musicista, un folksinger vecchia maniera: voce, chitarra e una sporta di malinconia da riversare in fluide melodie.
Sconosciuto ai più, bazzica molto spesso al Largo di Los Angeles, un posto che apre le porte solo ai duri e puri del folk.
Lì Tom ci ha pure inciso un solitario live, Late Night at Largo, nel 2004, sul palco immerso nel silenzio della platea deserta. In scaletta anche la splendida Mary Anne recentemente presa a prestito dall'amico Adam Price (aka Mice Parade) per chiudere il suo ultimo lavoro What It Means To Be Left-Handed.
Proprio di Mary Anne, Brosseau ne ha messo in rete una delicata versione con Angela Correa (aka Correatown). Arrangiamento spartano ma che proprio non necessita di altro per risultare efficace.
A tutto folk i due, che si fanno chiamare Les Shelleys, viaggiano leggeri, con scarpe comode e poca roba nello zaino, tra localini (e definirli tali è già una forzatura) che contano pochi spettatori (e definirli tali è già un’iperbole) e modesti bar frequentati da avventori alticci (e definirli tali è riduttivo). Il loro motto è eloquente: "simple music, good for the soul".
Per stile e umiltà, Brosseau ricorda un grandissimo cantautore che proprio al Largo è di casa: Grant-Lee Phillips.

Grant-Lee ha conquistato il successo, ne ha avidamente mangiato il frutto e ben presto dimenticato il sapore. Sfortuna sua, sì, ma fortuna dei fans che ancora oggi si godono perle ignorate come Virginia Creeper e compagnia bella. Perso il favore delle masse, Phillips suona ancora tra sottoscala fatiscenti e pub indecenti, con incrollabile passione attorniato da band indie di ottima fattura e abbracciato dall'affettuoso pubblico che da anni lo segue nei circuiti paralleli al mainstream.
Con i Winterpills nella scorsa primavera, ha intrapreso un mini tour che l'ha portato in giro per l'America più ruvida e sotterranea (qui una splendida versione di Mona Lisa). La collaborazione è poi proseguita in una non meglio precisata camera da letto (adibita, pare, a nient'altro che sala d'incisione!) dove è nato Tuxedo of Ashes, un EP uscito due mesi fa.

In Italia non c’è un paradisco folk equiparabile al Largo, di sicuro non dalle mie parti. E mi risulta davvero difficile ricordare di una “star” nostrana che sale su un palchetto sgangherato per esibirsi, dietro esiguo compenso, solo per la voglia di divertirsi.
Sarebbe il caso di avvisare Brosseau, Phillips & Co. che se proprio si accontentano di suonare in una bettola, possono farlo anche qui da noi. L’italica accoglienza, del resto, è decisamente calorosa.

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P.S.: Di recente è stata ufficializzata, proprio da Grant-Lee, la notizia della reunion dei Grant Lee Buffalo: saranno in tour nel 2011. Spero solo che non gettino alle ortiche il loro passato in nome di denaro e nostalgia.

giovedì 23 dicembre 2010

Shipping News - One Less Heartless to Fear

Matrimonio, figli, una gravissima malattia, le elezioni presidenziali, guerre in ogni angolo del Pianeta. Parole ormai comuni per molti, dal valore pregnante per altri. Soprattutto se ci si deve misurare con un grave tumore osseo che tenta di strapparti alla vita. Soprattutto se sono i tuoi connazionali a morire come mosche per mano di una politica cieca. Per un musicista queste sono fonti da cui trarre notevole ispirazione.

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martedì 21 dicembre 2010

Engineers - In praise of More

Come spesso accade, le opere del passato provvedono a solleticare l’ispirazione. In questo caso è uno scritto del celebre umanista Erasmo da Rotterdam ad influenzare gli Engineers. Al saggio “Elogio della Pazzia”, detto anche “In elogio di Moro” (che in inglese diventa “In Praise of More”), si deve il titolo del loro ultimo album. L’impresa sarà pure pretenziosa ma almeno c’è un’alternativa alle canzonette.

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domenica 19 dicembre 2010

"Codeina" sciroppo rock

Il nome è rubato all’amaro calmante della tosse presente negli sciroppi di cui, per loro stessa ammissione, preferiscono “quelli al gusto di amarena o cioccolato”.
Dolce e amaro, gli elementi tra cui si insinua il percorso del debut album dei Codeina.
Concepite alla maniera di certo “seattle sound” – melodie seducenti riprodotte con suoni cattivissimi – gli effetti distorti della Mustang di Mattia Galimberti, il rauco basso di Emanuele Delfanti e il preciso drumming di Emiliano Maggioni accompagnano l’ascolto attraverso dieci brani di grande impatto.

In giro dal 1998, tra una consistente attività live in locali dell’hinterland milanese (incluso un ristorante cinese), demo, concorsi, cambi di sala prove, cambi di formazione e guadagni di una notte spesi per dissetare il folto seguito, ai brianzoli viene facile riprodurre un rock dai passaggi veementi. E ci mettono il “quore”, nei componimenti e anche nel titolo. Anzi Quore Hidalgo Picaresco: un riferimento letterario alle vicende di quei nobili cavalieri impelagati in imprese utopiche. Un po’ come l’avventurosa trafila superata dal trio per arrivare al tanto bramato primo album. Volontari o meno, sono presenti anche cenni storici. E’ il caso dello strumentale Tesla vs Marconi che ricorda la diatriba tra Nikola Tesla e Guglielmo Marconi su alcune invenzioni scientifiche.

Dieci capitoli incisivi e capaci di entrare in testa con la stessa facilità degli strampalati titoli. Peristalsi 3.0 ne è l’esempio lampante. Una scarica di watt dal titolo improponibile che pare presa a prestito dal repertorio dei Nirvana, croce e delizia del power trio. Il limite della musica dei Codeina, infatti, sta nel pesante debito che devono alla band americana. Scaricato il pesante fardello, il gruppo potrà meglio evidenziare le proprie qualità senza necessariamente partecipare al gioco del “suona come”.
Last but not least. La sala prove dei Codeina si trova ad Arcore, la città “di un famoso politico” che “non è molto alto, sorride sempre e racconta spesso barzellette”. Sarà dedicata a lui Ridi pagliaccio?

http://www.myspace.com/codeina

lunedì 29 novembre 2010

Le radici e le ali - Gang

Il mensile Mucchio Selvaggio ha pensato bene di pubblicare una collana dedicata ai grandi album del rock italiano. La sesta uscita è una monografia su "Le radici e le ali", storico album dei Gang.
E' scritto da Eddy Cilìa e dal tovarišč Diego Butkovic Bucconi.
Imperdibile, si acquista on line sul sito del Mucchio.

mercoledì 24 novembre 2010

"Unmask" scelta di campo

Scelta di campo per gli Unmask, gruppo di belle speranze nato a Roma nel 2006.
Cambiate le regole per la fruizione della musica, che da arte da ricercare si è trasfigurata in business braccante, i ragazzi entrano in sala d’incisione con atteggiamento visionario e passionale.
A beneficiarne è l'ispirazione confluita nel debut album Sophia Told Me, autoproduzione istintiva e affrancata da vincoli contrattuali che dona massima indipendenza alle idee partorite. Dieci componimenti di rock progressivo, bagliori di heavy metal e tracce di psichedelia. Nessuna rivoluzione in vista ma tanta determinazione in un concept che manifesta il dialogo interiore tra l’io narrante e l’alter ego Sophia.

Cambi di ritmo, tecnica in rilievo (mai ostentata) e melodie mature si adagiano su incisioni ben curate in studio di registrazione.
In quella terra di mezzo che il prog rappresenta, All I Need è il pezzo dalla ritmica incessante che verte al metal evidenziando il vulcanico drumming di Dario Santini; Within My Soul offre a Ignazio Iuppa l’occasione per esibire le doti vocali. Alla chitarra di Claudio Virgini competono gli efficaci a sólo e alle robuste linee di basso di Daniele Scarpaleggia va il compito di convogliare vuoti e pieni. Da menzionare anche gli episodi morbidi del disco come la rock ballad New World e la notturna Sleepless Night.

Scegliere di debuttare con un album che non può incontrare il facile favore delle masse non è da tutti. Agli Unmask il merito di aver coltivato la propria passione e di aver creduto nelle proprie potenzialità, ma soprattutto il plauso per aver fatto una scelta di campo coraggiosa in tempi che celebrano canzonette usa e getta.

Il canale youtube della band è qui

venerdì 19 novembre 2010

giovedì 11 novembre 2010

Tapso II

In una periferia inghiottita dal cielo nero pece, ringhia, sbava e sembra proprio di avercelo alle calcagna il veloce Bulldog che apre l’album Tapso II. E’ la sensazione che si ottiene ascoltando il brano di apertura con la copertina del disco sotto gli occhi.

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mercoledì 3 novembre 2010

“Darkness on the Edge of Town” rabbia, promesse e rock’n'roll

Born To Run è pietra miliare del rock.
Darkness On The Edge Of Town no. Per fortuna.
Non è album per tutti.
Essenziale ma esauriente, dolente eppure incoraggiante.
Springsteen confina il suo alterego nelle tenebre e, come se non bastasse, ai confini della città “"dove nessuno fa domande o ti guarda troppo a lungo in faccia"”. Un postaccio (fisico e spirituale) dove tutto ciò che puoi fare è piegarti al peso degli eventi oppure sfuggire a quanto preordinato. A caro prezzo.
Nessuna zona grigia dove consumare una tregua.

Come lampi nell'oscurità sette musicisti saccheggiano il meglio dai propri strumenti. La E Street Band è sublime, cattiva, oltraggiosamente rock and roll. Tutto Darkness On The Edge Of Town è declinazione rock del verbo essere e Springsteen si dimostra quintessenza di tale linguaggio. Bruce non è artefice di uno stile nuovo e non ha il fascino dell’artista dannato, ma è puro rock: è la voce rock, è il performer rock, è l’autore che cuce i lembi tra sobrio folk e ruvido rock. E’ Dylan con la voce ferma e decisa, è Elvis fuori dal suo costume, è Guthrie con la Telecaster. E’ uno col fiato in gola che incarna lo spirito del rock’n’roll.
E il rock lenisce. O forse salva?


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mercoledì 20 ottobre 2010

“Il figlio del figlio”, il libro di Marco Balzano alle radici di un esodo

Nei romanzi on the road, di solito, si raccontano le storie che narrano il viaggio di andata. Le fughe sono sempre avvincenti, nascondono possibilità dietro ogni evento e gridano vendetta ai luoghi abbandonati.
Il figlio del figlio, di Marco Balzano, narra al contrario le vicende legate ad un ritorno. Un itinerario a ritroso, da Milano a Barletta, da un nord squassato dai sussulti dell’economia a un sud che con i sussulti ci convive da sempre.
Tre uomini, lo stesso sangue nelle vene, il viaggio e ricordi sollevati come nuvoli di polvere ad ogni passo mosso in casa.

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venerdì 8 ottobre 2010

“Viva Elvis”, acclamazione al Re e titolo di un disco

Elvis Presley è il cantante che ha cambiato le sorti della musica e della cultura popolare. Per celebrarne il mito, a 75 anni dalla nascita, il prossimo 9 novembre verrà pubblicato Viva Elvis – The Album, insolito compendio sulla vita artistica del Re. Il disco racchiude 12 classici, sottoposti a restyling, in cui la voce di Elvis emerge inalterata e sviluppa l’idea alla base dello show intitolato Viva Elvis - a tribute to the life and music of Elvis Presley, stabilmente tenuto a Las Vegas dal Cirque du Soleil. Uno spettacolo imponente ma incapace di estinguere un dubbio sorto a Erich Van Tourneau: “come suonerebbero le canzoni di Elvis se le interpretasse oggi per la prima volta?".

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lunedì 4 ottobre 2010

Tra "Lady Day" e "Led Zep"

“La gente mi chiede che genere di musica fosse e io rispondo, qualcosa che sta in mezzo a Billie Holiday e Led Zeppelin”.

(Mick Grondahl)

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venerdì 1 ottobre 2010

Phinx - Login

Giovanissimi, belli, puliti e buoni. Francesco Fabris (voce, chitarra e programmi), Pietro Secco (basso, synth), Alberto Paolini (batteria, groovebox) e Daniele Fabris (synths, sequencers) sono titolari del marchio Phinx, storpiatura del termine inglese sphinx, cioè sfinge. Provengono dal Veneto ed esordiscono con Login, scrigno destinato a recepire frustrazione ed inquietudine giovanile.

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giovedì 30 settembre 2010

Il cameo di un uomo sulla via dell'autodistruzione

Erano immagini destinate ad accompagnare New York, New York brano incluso nel best seller Gold, di Ryan Adams.
Inizialmente accantonate, le riprese sono poi state riciclate per la clip di When the star go blue.

Ryan impersona il conducente di un taxi che arranca nel ventre sazio della città che tutto ingurgita. Ad occupare i sedili posteriori un ampio campionario di personaggi.
Il più bizzarro è il tipo pacchiano che, nel finale, s’impone all’attenzione. Sbuca nella penombra dell’abitacolo con in testa lo scalpo rubato ad Adam Duritz. Sembra un chiacchierone che “talk, talk, talk, talk, till you lose your patience” e invece, stando alle risate di Adams, diverte.

Mi ricorda qualcuno. Quella faccia ha un pallore familiare. Eh sì, è proprio lui!
Qui si deve essere manifestato il primo sintomo dell’ “arte dell’autodistruzione”.

lunedì 27 settembre 2010

Jordan Officer - Jordan Officer

Per Jordan Officer è giunto il momento del salto nel buio. Dopo un decennio passato ad accompagnare la cantante Susie Arioli, nella Susie Arioli Band, il musicista canadese debutta con un disco che include dodici perle chitarristiche.
Natio di Montreal, città che accoglie il famoso festival internazionale di jazz, Officer respira musica sin da giovanissimo quando approccia lo studio del violino per dedicarsi, in seguito, all’uso totalizzante di quello che tutt’oggi è il suo strumento d’elezione.

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giovedì 16 settembre 2010

La stagione della beneficenza

Rock e impegno sociale rinnovano un nobile sodalizio. Da propositi musical-filantropici nasce La stagione della beneficenza, un gruppo, o meglio un progetto, che mira a coinvolgere sensibili fruitori su problemi tangibili come l’inquinamento del pianeta e la cura del cancro.

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lunedì 13 settembre 2010

Mice Parade – What It Means To Be Left-Handed

Adam Pierce è uno bravo che ancora non ha ottenuto il successo che merita.
Creatore, reggente e al tempo stesso "eminenza grigia" dei Mice Parade, sforna un disco vivo, giovane e brillante.
Ogni tanto è bello scoprire che "c'è qualche sopravissuto là fuori".


Musica africana e brasiliana, il flamenco e il rock. Difficile crederlo ma queste tessere compongono lo stesso puzzle. Incastrate tra loro compongono What it means to be left-handed, sesto album pubblicato dai Mice Parade per la Fat Cat Records, indie-label britannica.

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giovedì 9 settembre 2010

Come le foglie - Aliante

Primi anni ’70. Il movimento “flower power” celebra i suoi ideali non-violenti e l’arte si rinnova a colpi di rivoluzione culturale. La musica ne è parte trainante e si trasforma da mero intrattenimento a ragion d’essere di una generazione.

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mercoledì 1 settembre 2010

Artemisia - Gocce d'assenzio

Un vulcano in piena eruzione questo Gocce d’Assenzio, sputa fuoco dall’inferno che ribolle dentro. Il sound sprigionato dagli Artemisia è il risultato di un’equazione che coniuga ossessioni ritmiche hard rock e svisate progressive. Un orientamento rivolto ad un genere in voga negli anni ’70 che non è mai mero rimaneggiamento.

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venerdì 13 agosto 2010

La musica assorbe l'attenzione

Militante politico della sinistra rivoluzionaria, operaio, muratore, conducente di convogli umanitari, scalatore, musicista, scrittore e chissà cos’altro.
Erri De Luca ha vissuto scorci di ordinaria esistenza e li ha tradotti in straordinaria prosa; ed ha alleggerito il peso di un'ardua ricerca durata l’arco della sua giovinezza.
Apprendo di poter fare due chiacchiere con lui, faccia a faccia, anche se “il Maestro”, mi dicono, “è molto particolare … parla poco”.
Mi chiedo se la fama dell’autore abbia vinto la semplicità dell’uomo e se, per davvero, dovrò chiamarlo con quell'appellativo ridondante.
Nella hall dell’albergo, mi accoglie con un largo sorriso e una calorosa stretta di mano. Affabile e ben saldo nelle sue convinzioni conferma la sua genuinità anche come uomo.
Prima di cominciare gli domando se preferisce essere chiamato “Maestro” e lui mi chiede in napoletano: “Maestr ‘e che?”. E’ informale e al tempo stesso riservato. Di tanto in tanto l’innata simpatia partenopea si palesa per scacciare l’umore da clausura che lo abita.

- Gli chiedo di come è messo il Paese.

L’Italia non è più un paese decisivo nello scacchiere internazionale mentre negli anni del dopoguerra, proprio per le faccende della Guerra Fredda, il Mondo era diviso in due Blocchi. L’Italia confinava con uno di questi due Blocchi (quello Sovietico, ndr) e aveva il più forte Partito Comunista d’occidente, la più forte sinistra rivoluzionaria d’occidente; era un nervo scoperto di quell’alleanza occidentale (NATO, ndr) era un punto decisivo dell’urto tra questi due Blocchi. Oggi l’Italia è stata completamente assorbita dentro il ventre economico dell’occidente e non ha più alcuna influenza. L’Italia, dal punto di vista internazionale, si può permettere di essere nessuno, e dal punto di vista economico è protetta sotto questo ombrello dell’Euro e quindi distribuisce le sue sorti insieme a quelle degli altri paesi dell’area. Sarebbe stato molto più difficile se fosse rimasta isolata da quest’area monetaria e si fosse tenuta la povera Lira. Adesso, l’Italia, è solo un’espressione economica dell’occidente.

Un po’ come diceva Joyce della sua Irlanda: condannata ad essere “la caricatura eterna del mondo serio”.
Be’ l’Irlanda era una provincia inglese ed è rimasta a lungo sottomessa a quell’isola maggiore. Noi no, insomma, siamo parte di una società monetaria.
Siamo azionisti di minoranza ma di una società monetaria.


- Gli chiedo di musica (ovviamente).

Se il “Peso della farfalla” fosse una sua canzone, la suonerebbe in minore o maggiore?
Minore (è fulmineo nel rispondere, ndr)!

E con quali strumenti la vestirebbe?
Be’ io conosco solo la chitarra. Non saprei … uno strumento a corde, comunque.

Altri strumenti?
No, non c’ho mai pensato. La vestirei con un solo strumento, con l’essenziale.

A dire il vero avevo anche pensato di portarle la mia chitarra acustica.
Be’ (sorride, ndr) ma io non mi trovo con quel coso a suonare (mima la pennata , ndr) …

Il plettro!
Eh! Mi risulta più facile suonare la chitarra classica con le dita.

E “Tre cavalli” potrebbe essere una suite?
Mah (sorride) non c’ho sentito nessuna musica. Ma quando scrivo, in genere, non posso stare a sentire musica. Potrei stare anche nel chiasso ma non immerso nella musica perché la musica pretende una certa attenzione. Non è un sottofondo per me, assorbe l’attenzione.

- Gli chiedo del suo passato, e delle sue storie finite in libri di grande successo.

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lunedì 9 agosto 2010

Incontro con un Cronista giramondo

La lettera maiuscola di Cronista non è casuale.
Minà ha fatto la storia del giornalismo italiano, con serietà e passione. La Rai, in cambio, gli ha dato il benservito.
Sincero come al solito ha risposto con estrema chiarezza a qualche domanda.

Il 5 maggio scorso, Claudio Scajola si è dimesso dal suo incarico lasciando a Berlusconi il mandato di Ministro dello Sviluppo Economico, ruolo che contempla le mansioni del Ministero della Comunicazione. In un Paese in cui il conflitto d'interessi permane irrisolto, quanto è grave un fatto del genere? E perché l'opposizione continua a latitare su questi temi?

Be’ ci sono anche altri gravi problemi! C'è un senatore della Repubblica due volte condannato per collaborazione con la Mafia; c'è il Presidente del Consiglio che ha almeno tre/quattro processi irrisolti ... cioè il limite ormai dell'abnorme nel nostro Paese non si ferma solo a quanto lei dice. C'è qualcosa di più clamoroso. Ci vorrebbe un’opposizione. Un’opposizione che avesse gli attributi maschili per farsi valere, invece che un’opposizione attenta solo ai tatticismi. Non è più tempo di aspettare … non c’è più tempo.


Nichi Vendola, finalmente un politico del sud, è l'alternativa tanto agognata? Sarebbe in grado di fare dura opposizione a questo Governo e a certa politica?

Sicuramente sì, ma la presunta sinistra gli ha già "sparato addosso"!
Abbiamo una sinistra che deve andare a casa, perché ha sempre perso e ci ha lasciato in questa situazione. Deve farsi da parte e lasciare il campo a chi ha ancora speranza!


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mercoledì 4 agosto 2010

Sfogliabile, ma con il mouse

Continuo a preferire l'odore della carta, il flessuoso volgere delle pagine colorate e il compulsivo leggere tra le righe subito dopo l'acquisto.
Però questo aggeggio è davvero attraente.
Davvero una gran bella scoperta per tutti i fans di Bruce Springsteen!

martedì 20 luglio 2010

ManoVega - Nel Mezzo

L’album di debutto dei Mano-Vega riporta un titolo emblematico: “Nel Mezzo”. Chiarificatore per certi versi, ed ermetico per molti altri, il titolo dà l’impressione di assurgere a manifesto della filosofia dei musicisti laziali. Due sole parole per esporre lo specchio fedele di una volontaria indeterminatezza. Ascoltando “Nel Mezzo” il fruitore del disco fluttua senza appigli contrastato tra correnti divergenti.

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venerdì 9 luglio 2010

La notte Serenissima

“Il mio italiano fa schifo!” si schermisce Eddie Vedder. Ma l'eccitazione suscitata nel pubblico, con poche frasi pronunciate in lingua locale, fa pensare ad una troppo severa autovalutazione. Forse è merito del nostro miglior corroborante rosso rubino, due le bottiglie di vino vuotate tra un brano e l'altro, se il lessico italiano è diventato un po' più accessibile al cantante dei Pearl Jam.

L’ultima data dell'Heineken Jammin' Festival, a Venezia, coincide con l’unica tappa italiana del Backspacer Tour. Più che un concerto, quello del 6 luglio, è un rito purificatore che cancella l'ombra della frustrante edizione, colma di polemiche, del 2007: all’epoca un tornado aveva devastato il palco, impedito l'esibizione della band americana e, per di più, aveva provocato il ferimento, anche grave, di alcuni spettatori. Situato in un luogo decentrato della penisola (non proprio comodo da raggiungere), tendente a perturbazioni meteorologiche in piena estate, questa volta il contestato, sventurato e caotico Heineken Jammin' Festival non miete vittime tra i circa 45.000 “jammers”. Più minacciose dei cumuli cinerei, le imprecazioni dei fans devono aver dirottato le nuvole altrove.

Partito sin dal primo pomeriggio, il tourbillon di gruppi incassa un poco edificante successo. Il sole ancora alto, la temperatura oltre i 30 gradi e il disinteresse di chi ha comprato il biglietto solo per vedere i propri beniamini, rendono anonimi i set degli italianissimi Plastic Made Sofa, dei tanto bravi quanto fuori contesto Gomez (rimpiazzo dei Wolfmother) e dei Gossip che hanno la fortuna di avere in Beth Ditto un autentico animale da palcoscenico (vittima di una spaventosa caduta senza apparenti postumi). Subito dopo lo show della corpulenta soul woman un repentino cambio di temperatura lascia presagire il peggio. Modeste raffiche di vento misto a pioggia costringono la security a sgomberare il pit (spazio riservato ai primi arrivati), ma l’allarme rientra - come pure i fans nel pit - e i redivivi Skunk Anansie occupano la scena con Skin protagonista di un improvvisato crowd surfing.
Dopo tanto rumore, la buona musica di Ben Harper and Relentless7 è preludio al vero evento, anticipato dal duetto con Vedder su una riabilitata Under Pressure.

Ed ecco l’inizio della messa. Sul main stage della nota rassegna musicale si celebra il culto del rock'n'roll. Sciamàno per i presenti, leader di una band in stato di grazia e destinatario di un lascito che attinge alla tradizione, Eddie Vedder cattura, per poi restituirlo amplificato, il sincero affetto di un pubblico in visibilio. La sola vista dei musicisti sul palco libera l’adrenalina di chi ha varcato i cancelli del Parco San Giuliano già dalle dieci del mattino (in maggioranza ragazzi in fila da molte ore prima dell’apertura).
Given To Fly trancia l’impaziente attesa, la splendida Corduroy, con cenni di Interstellar Overdrive dei Pink Floyd, collauda il pogo e l'anti-war World Wide Suicide ridesta i corpi rattrappiti della fiumana di gente pressata sotto al palco. Vent’anni insieme, e non è un iperbole quando si dice che l’affiatamento ha migliorato certi aspetti della band. McCready è semplicemente perfetto: si carica addosso il peso di ogni intricatissimo assolo, salta come Pete Townshend, imperversa, chitarra dietro la nuca, come fosse Hendrix e regala decine di agognati plettri alla folla. Impeccabili i due fondatori del gruppo: Gossard, alla chitarra ritmica, e Ament, al basso. Puntuali Cameron, alla batteria, e “Boom” Gaspar, membro aggiunto, alle tastiere. Vedder è più rilassato e comunicativo ma non meno arrendevole che in passato. Impone i ritmi aggressivi delle origini che soverchiano quelli recenti e più controllati. Gli otto brani estratti da Ten (disco del 1991), o comunque a quell’album direttamente riconducibili - come le outtake di lusso Breath e State Of Love And Trust - doppiano per numero quelli estrapolati da Backspacer (2009).
Momenti di profonda riflessione frenano le impetuose interpretazioni dei musicisti e digradano la tensione in platea. Succede con la nostalgica Elderly Woman Behind The Counter In A Small Town e con la disperata Black (uno dei tanti colori dell’amore, dice Vedder). Ripartenze brucianti lasciano senza fiato. Succede con la rabbiosa Even Flow, quasi sempre presente in scaletta, e soprattutto con la provocatoria Do To Evolution. Il suo contagioso beat incita a dimenarsi, il testo a rinnegare credo distruttore e mito della prevaricazione. Per Red Mosquito la band si avvale dell’ hawaiian lap steel guitar elettrica di Ben Harper per un sound pervaso di Delta blues. Ma non sono solo i fantasmi del Mississippi ad aleggiare nel buio di questa straordinaria notte nella Serenissima: Arms Aloft in Aberdeen rende omaggio all’ultima visione musicale di Joe Strummer. Un Vedder ebbro, di vino, di passione, stecca l’inno per eccellenza; un lampo di smarrimento segna il suo sguardo desideroso di aiuto, ma non è un problema perché ad assisterlo su Alive ci sono migliaia di voci pronte a cantare i versi dimenticati.

Rockin’ In The Free World si tramuta in un sing-along che richiama sul palco Harper, i suoi Relentless7 e Rob Machado (surfista australiano amico di Eddie) per un finale mozzafiato.
L’ultimo saluto è un atto d’amore per l’Italia. Vedder dice di aver idealizzato, da ragazzo, il nostro Paese, di averlo sempre visto come un posto irraggiungibile come la luna. Ma la conclusiva acclamazione gli offre la certezza di aver raggiunto, oggi, quel posto e di poterne godere di un piccolo pezzo.

venerdì 2 luglio 2010

ideaOstile - ...destabilizzazione in corso ...

Atmosfere claustrofobiche e testi che esprimono malessere. Il binomio è abusato nel mondo della musica ma l’accostamento fatto dal gruppo degli ideaOstile presenta insolite soluzioni. A cominciare da quelle sonore. Lo stereotipo della band dipendente dal chitarrista, o dal tastierista, viene annullato in favore dell’anomalo espediente che tollera ben due bassi...

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martedì 29 giugno 2010

Plurima Mundi - Atto I°

Valenti musicisti si uniscono sotto un nome capace di ricondurre all’idea dei molti generi proposti nel solco del progressive. I Plurima Mundi, cinque strumentisti e una cantante provenienti da estrazioni musicali differenti, rinvigoriscono gli stilemi del prog italiano con competenza, passione e scampoli di originalità.

Invogliati dall’alchimia scaturita dall’incessante attività live, tra l’altro ricca di collaborazioni e prodiga di apprezzamenti, i Plurima incidono il debut album a sei anni dalla propria fondazione.
A tracciare la rotta di Atto I° è il maestro Massimiliano Monopoli, docente di violino al conservatorio di Taranto, autore di tutte le musiche. Grazie a continui rimandi all’epoca d’oro del progressive rock, tra i ’60 e i ’70, la band pugliese riannoda i fili con un glorioso passato. A testimoniarlo è la collaborazione con Lino Vairetti, voce degli Osanna (tra i capostipiti della scena nazionale) coinvolto nella conclusiva Aria.
Atto I° nasce dall’entusiasmo e da un atto d’amore nei confronti di un genere che richiede indiscutibili capacità tecniche. Capacità certificate dalla coraggiosa scelta (obbligata?) di registrare i brani in un teatro, e in presa diretta, piuttosto che nel solito studio d’incisione laddove è più facile bluffare. Ciò che è pregio, però, spesso risulta limite. A tratti ostico, l’andamento dei quattro componimenti (un EP più che un album) risulta difficile da assimilare. Tanto funambolici quanto esasperati, alcuni passaggi sbalordiscono per difficoltà di esecuzione a scapito dell’emotività, essenza prima della musica. La strumentale Ortus Confusus, ad esempio, è abile antologia che compendia – nella migliore tradizione prog – musica classica, jazz, folk, funky in una sorta di introduzione dei singoli componenti la band. Nei ricordi del tempo presenta impennate che citano la PFM ma qui, e nelle altre tre tracce, gli altri elementi restano spesso condizionati dalle ingombranti sofisticherie del violino elettrico di Monopoli. Surreali e fortemente rimate, le liriche scritte da Grazia Maremonti sembrano studiate più per accompagnare le musiche che per dare forza e autonomia ai testi.
La stampa estera di settore ha dedicato attenzione a questa pubblicazione e la nomination, quale Miglior Album d’Esordio, ai ProgAwards 2009 avvalora la validità del progetto. Progetto che lascerà indenni gli ascoltatori occasionali ma che non deluderà gli amanti del genere.

venerdì 25 giugno 2010

Hyde Park Calling

London Calling: Live In Hyde Park, resoconto filmato dell’ultimo tour mondiale di Bruce Springsteen, sarà in vendita dal 29 giugno. Il DVD, disponibile anche nel formato Blu-Ray, cattura il concerto inglese tenuto dalla E Street Band il 28 giugno dell’anno scorso.


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lunedì 21 giugno 2010

Girolamo De Simone - Ai piedi del Monte

Nove brani strumentali che reclamano attenzione e ripagano con potenza espressiva. Girolamo De Simone propone Ai Piedi Del Monte, mezz’ora di performance pianistica dalle traiettorie tradizionali, a tratti operistiche, rinnovate con moderno acume.

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venerdì 18 giugno 2010

Standing Army

Pubblicato da Fazi Editore esce in questi giorni Standing Army un film, con acclusa monografia, che affronta “un viaggio alla scoperta dell’universo delle basi militari americane”. Un’ora e quindici per documentare una tra le realtà più potenti e meno esplorate ai nostri giorni.

Dormireste sonni tranquilli su una polveriera?
Mandereste i bambini in una scuola posta a due passi da un arsenale?
E se la vostra casa fosse regolarmente investita dal boato di caccia-bombardieri?

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lunedì 17 maggio 2010

NEW AMERYKAH Part Two: Return Of The Ankh


Erykah Badu sforna un disco che profuma di autenticità. Black music istintiva, eclettica e scevra da ruffianerie da classifica. NEW AMERYKAH Part Two: Return Of The Ankh è fortemente radicato nella cultura afroamericana di oggi ma trascende generi e mode per approdare ad una conturbante fusione tra stili. A cominciare dalla copertina - un mix tra psichedelia, fantascienza e misticismo - l’album richiama atmosfere anni '70 dove trame di soul e rhythm and blues si aggrovigliano in una matassa di moderno funk.

Notevoli le citazioni presenti negli undici brani. Il sample recuperato per Umm Hmm viene preso da Take Some Time di Leon “Ndugu” Chancler (tra i migliori batteristi jazz in circolazione). Da Arrow Through Me, di Paul McCartney, proviene il riff di Rhodes piano incastrato tra le strofe di Gone Baby, Don't Be Long. Addirittura salvato dall’oblio lo strumentale Just As I Thought, dell'ex E Streeter David Sancious, capolavoro jazz che in Agitation trova nuova linfa. La musica nera di un recente passato, dunque, si combina a linguaggi attuali (blando hip hop ed elettronica che imbroccano il verso giusto) per lasciarsi forgiare dall'incantevole voce di Badu.

Il primo singolo estratto, Window Seat, strizza l’occhio alle chart - ma con gran classe - e regala cinque minuti di autentiche fluttuazioni emotive. Sessionist di lusso Amir “?uestlove” Thompson (batterista per The Roots) conferma il sodalizio artistico con Badu, impegnandosi a guidare un beat regolare e soffuso. Nel relativo videoclip, controverso e in parte censurato, il coraggio di mostrare la propria nudità è un invito a palesare essenzialità che “esorta a liberare se stessi da strati e strati di pelle o demoni che ostacolano la crescita, la libertà, l’evoluzione”. Un appello a non cadere nella spirale del pensiero collettivo. Il “group think”, termine tatuato addosso come una lettera scarlatta, è un concetto che frequentemente si insinua nell’opinione pubblica fino ad indurre a conseguenze estreme. Girato tra le strade di Dallas, con un enfatico stile anticato, il video si affida a tecniche di ripresa da “guerrilla” (tra ignari figuranti e senza l’allestimento del set). I rimandi al misterioso omicidio di John Kennedy, avvenuto proprio nel “Lone Star State” nel 1963, concorrono a completare un mix di elementi capaci di destare la curiosità di chi non ha mai avuto modo di conoscere, prima d'ora, l'artista texana.
Temperamento ed espressività convivono in un’artista dal piglio alla Angela Davis e dal talento alla Billie Holiday. Madre di tre figli avuti da altrettanti compagni, mai sposata, umanista e non femminista (come ha dichiarato al quotidiano britannico “Guardian”), Erica Abi Wright, 39 anni, è soprattutto una musicista immersa nel mondo delle sette note. E’ lei stessa a stilare una classifica di valori che la vede completamente catturata da “musica, fidanzato e dai miei bambini” (da Window Seat). Traghettatrice di un'epoca che pareva persa, dopo i fasti delle grandi interpreti di Stax e Motown Records, è lei a rinnovare un sound troppo spesso naufragato nel ciarpame della musica nera dal download tanto compulsivo quanto trascurabile. Out My Mind, Just In Time, divisa in tre tempi, è la summa dell’intero lavoro. L'introduzione, per sola voce e pianoforte, rimanda a un’atmosfera da piano-bar tutta whisky, sigarette e pene d'amor perduto. A sussurrare nel microfono, una donna affranta rievoca nostalgica la totale dedizione per qualcuno (o qualcosa). Una condiscendenza che nella seconda parte del brano, con l'arrangiamento carico di rintocchi indiziari, si rivela in tutta la sua asimmetricità. Jazzy e liberatoria, la terza parte lascia presumere in un riscatto. Posto per ultimo, come a voler passare inosservato ai più distratti, e a risultare premio esaltante ai più attenti, l’intero componimento svetta per sincerità e potenza evocativa. Badu si immerge in un soffice canto, morso dal tormento, per interpretare tutta la sua prostrazione: dieci minuti in cui un sound braccato dal passato ripara nel presente. Sembrerebbe, a tutti gli effetti, amore cieco per qualcuno (“ho mentito, ho pianto e odiato per te … sono pazza di te”) ma potrebbe anche apparire disincanto per qualcosa. Il testo è stato ispirato dal poema “What I Will” di Suheir Hammad, palestinese naturalizzata statunitense, nota per i suoi racconti sul Medio Oriente. Badu canta di “resurrezione 6 metri sopra le ceneri” e di “poter volare” mentre saluta con un “benvenuto nuovo mondo” che lascia inevaso un quesito: confessa salvezza individuale o affrancazione di un Paese prigioniero del ricatto? Del resto l’Amerykah citata nel titolo lascia pensare ad un ibrido tra l’America fisica, quella reale funestata da inganni imposti per legge, ed un Paese astratto, idealizzato, reso personale dal confluire del proprio nome in quello della nazione (AmErykah).
Questa Amerykah apre le scrigno delle passioni ed invita a condividere frammenti di esistenza. L’intera narrazione ruota attorno a dinamiche sentimentali che in 20 Feet Tall, Turn Me Away (Get MuNNY), Love e Gone Baby, Don't Be Long, svelano le abilità della performer nel calibrare toni melliflui, monotoni o languidi in sintonia con il mood dei pezzi. You Loving Me (session) è una bozza incompiuta, una scheggia impazzita rimbalzata nel mezzo della set list e lì rimasta. Fall In Love (your funeral) è un'impennata soul su base sincopata che pulsa direttamente da un un ghetto blaster tra i vicoli. Narcotica ed eterea Incense, con Kirsten Agnesta all'arpa, sviluppa sonorità inaspettate e rappresenta il capitolo meno interessante dell'intera opera.
NEW AMERYKAH Part Two: Return Of The Ankh è un calice colmo di tradizione e innovazione capace di dissetare sia chi è cresciuto consumando i vinili di Temptation e Stevie Wonder, sia chi ha apprezzato la cosiddetta corrente “nu soul” di cui proprio Erykah, con il debut album Baduizm (1997), è stata antesignana.
In cerca della “chiave della vita”, l’ankh effigiato in copertina e menzionato nella seconda parte del lungo titolo, Erykah si tiene ben stretta quella prestigiosa della libertà artistica.
I seguaci del “Baduismo” hanno la possibilità di celebrare questa release come una nuova epifania. Per il rito collettivo, invece, bisognerà recarsi all’Auditorium Parco della Musica il 20 luglio, per l’unica tappa del tour italiano.
_______________________________ Un estratto di questo post è stato pubblicato su pool 2.0


domenica 2 maggio 2010

The Black Keys - Brothers

La scritta bianca su fondo nero recita “questo è un album dei Black Keys. Il nome di questo album è Brothers”. Semplice, ironico ed efficace. Brothers è il sesto album del duo blues-rock The Black Keys.

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domenica 18 aprile 2010

Tucker Crowe and The Politics of Joy (II)

Segue (da qui)

La credibilità di ragazzo scostante vacilla quando il teppistello del Montana infila in scaletta un’altra dedica: si tratta di una rara versione di Her Piano (da Infidelity and Other Domestic Investigation del 1979) concepita in memoria di sua madre Cynthia, insegnante di musica. Scotty Phillips dona colore ad una ballata incentrata sulle morbide armonie proposte dall’arcinoto Steinway malandato proprio mentre Tucker canta malinconico “del pianoforte di Cindy che ormai manda solo freddo silenzio”. Fischi isolati di disapprovazione e frasi di scherno (“Hey, è un funerale o un concerto?”) si levano dalla platea e un fulmine attraversa lo sguardo di Crowe. Lo stesso fulmine che animava feroci occhiate e si palesava tramite epiteti (“dattilografi del cazzo!”) lanciati, dal palco, all’indirizzo dei giornalisti dieci anni fa. “Bruce + Bob + Leonard = Tucker”: era questo famigerato slogan, finto come una moneta di stagno, a mandarlo su tutte le furie. Lo aveva adoperato l’etichetta discografica per pompare le vendite, ma il giochetto era quasi valso la carriera a "the new big thing". Le sacrosante critiche di Greil Marcus, poi, facevano il resto (“Determinazione + bislaccheria – John Denver = un po’ pochino). Tutta acqua passata. Ma la voglia di essere re, almeno per un giorno, è ancora intatta.
L’acustica vola sulle teste di mezza band prima di atterrare tra le premurose braccia di Burt Kenny (il fidato roadie di Tucker). Una bellissima ouverture di Hammond fa da trampolino di lancio per un invito alquanto esplicito (“suonate forte, cazzo!”) che sa di già sentito ma che non perde in efficacia. Crowe percuote la sua Gibson fino a spaccare una corda, la voce torna roca e l’attacco di The Twentieht Call of the Day è da incontro di lotta libera. Un improbabile corpo a corpo con i fantasmi di un recente passato che stenta a dileguarsi. Il pezzo è cattivo quanto basta e rinfocola l’oltraggioso pogo nel pit. La security è in allerta ma a giungere a brandelli, nel sottopalco, è solo il giubbotto lanciato da Crowe ad inizio concerto. I Politics si allineano sul bordo dello stage come a voler succhiare tutta l’energia dell’audience per poi restituirla amplificata. Tucker sembra surfare mentre resta in bilico sul monitor centrale. Inizia ad inveire contro alcune ragazze che, amorevoli, gli lanciano gridolini isterici e un campionario davvero assortito di ultimi modelli di lingerie. Una, addirittura, gli getta una rosa rossa rimasta integra fino a questo punto del concitato live act: Tucker, con un'espressione presa in prestito dal miglior Jack Nicholson, sorride, la raccoglie, l’annusa e la scaraventa sulle assi del palco mentre, continuando a cantare con più veemenza, la calpesta ripetutamente. Sembrerebbe una scena comica ma non lo è. Mi domando se Crow stia cercando di impressionare l’attore e regista Gene Wilder presente in tribuna d’onore. (Secondo i bene informati il nostro concittadino sarebbe tornato in città dopo aver ultimato le riprese del suo prossimo film. Ma cosa possa indurre Wilder ad assistere ad uno show di Crowe resta un mistero).
L’eccesso d’ira, da e per lo stage, ha raggiunto il limite. La battaglia si consuma a colpi di energia. La band non si risparmia e tra un goccio e l’altro di birra produce ritmi granitici. Proprio mentre tracanna una bionda, Crowe saluta una rappresentanza di dipendenti della Jacob Leinenkugel Brewing Company di Chipewa Falls, 5 ore di macchina e 275 miglia di asfalto a nord ovest di Milwaukee. Sono cinque e sono entrati gratis con pass che consentiranno l’accesso anche al backstage. La loro fabbrica di birra pare navigare in brutte acque (la concorrenza della Miller si fa sempre più spietata) e 90 dipendenti rischiano il posto. Per loro suona una struggente Can Anybody Hear Me? tratta dall’ EP, del '78, dall'amonimo titolo. E questa è di per sé una notizia, perché Tucker non ha mai fatto dell’impegno civile una bandiera. I ragazzi della “Leinies”, intanto, incassano solidarietà e pubblicizzano il caso.
I Politics of Joy, come è noto, non concendono bis semplicemente perché odiano spezzare con una pausa il concerto. Quello che è un lungo scambio, di disprezzo o di amore non importa, con il pubblico non può essere inframmezzato da quella orrida pantomima della finta conclusione dello spettacolo.
E allora via verso la conclusione che pare assegnare a You and Your Perfect Life il posto d’onore. Mentre il beat è già in essere, Crowe mima un calcio volante indirizzato alla platea, cade in terra in una posa alla Bruce Lee, si gira e corre a schiantarsi - volontariamente - contro la batteria. Si rialza, accorda al volo la chitarra e ci da dentro con una versione insospettabile, carica di passione e rimpianto. La testata rimediata alla grancassa avrebbe fermato un comune mortale ma Crowe pare trarre stimoli positivi dal dolore. Come se nulla fosse, si piega sul manico della chitarra, stira le note e urla nel microfono l’ultimo atto del suo Juliet. Il pubblico è riconquistato e le ragazze delle prime file ricominciano a singhiozzare inebetite. L’esecuzione dal vivo di You and Your Perfect Life doppia la durata della versione in studio. Sembra una piccola suite rock. Il rimpianto di And You Are? è diventato odio e la stupidità di The Twentieht Call of the Day si è tramutata in follia: “me ne stavo lì a lanciare sassi contro la finestra/ finché alla porta arrivò lui/ ma allora lei dov’era, signora Balfour?”. Comincia l’appassionato a sólo che porta dritto alla tag. In una sequenza di velocissime note l’intreccio con Layla di Eric Clapton (o di Derek and the Dominos, se si preferisce) è sublime. Dopo un’ora e un quarto la musica del selvaggio Tucker Crow ha messo in ginocchio l’Arena. In visibilio, la platea tributa il caldo saluto del Wisconsin a questo spirito inquieto. Il peso del mondo, che pare gravare tutto sul burbero musicista, può essere alleggerito dal rock’n’roll. Il live di questa sera dimostra che Tucker ha esorcizzato, grazie alla musica, molti dei suoi demoni anche se non ha ancora dimenticato Juliet. Ma questa è … tutta un’altra musica.

venerdì 16 aprile 2010

Tucker Crowe and The Politics of Joy (I)

Ho trovato la cronaca di un interessantissimo articolo di ben 24 anni fa.
Che tipo questo Crowe!
Spero che la traduzione dall’inglese sia chiara.
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Milwaukee, 16 aprile 1986

di Paul W. Silverbull
per The Milwaukee Inquirer
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Dopo aver ospitato i Dire Straits, lo scorso agosto, e i Metallica, pochi giorni fa, Milwaukee ha assistito ad un altro concerto ad alto tasso emozionale. L’eccentrico Tucker Crowe sfida se stesso e il mondo con il suo show fatto di eccessi. Selvaggio, atipico e a tratti strepitoso, il musicista del Montana dimostra di aver raggiunto la maturità artistica. Purtroppo, solo quella.
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Battaglia doveva essere e battaglia è stata. Dopo un’ora di ritardo Tucker Crowe sale sul palco, con faccia estasiata e sorriso sornione, per annunciare al pubblico: “La Signora Furmick proprio non voleva saperne di staccarsi da me!”.
L’infelice, ma non insolito, esordio del cantautore riesce ad indispettire anche i pochi presenti disposti a perdonare questo ennesimo capriccio. La stragrande maggioranza dei 9.500 paganti gli riserva una bordata di fischi che riempie l’Arena di Milwaukee, luogo destinato ad accogliere la decima e unica tappa nel Wisconsin del “Juliet Tour”.
A Tucker non dev’essere andato a genio il poco lodevole articolo del Milwaukee Newspaper, firmato da Don Furmick, in cui ci si chiedeva: “perché questa città deve accontentarsi di un alcolista che gioca a fare il musicista dopo aver avuto Dire Straits e Metallica?”. Vero è che Crowe non ha il talento di Mark Knofler e il seguito dei Metallica; vero è che il quasi trentatrenne di Bozeman è dedito – per sua stessa ammissione – all’alcool; ma altrettanto vero è che Juliet, il suo sesto disco uscito il 2 aprile scorso, è intriso di una passione e una spiazzante sincerità capaci di lasciare il segno anche nel Furmick più inacidito.
Ma non tutti i mali vengono per nuocere. La risposta di Tucker, allo spazientito pubblico, è benzina sul fuoco e, nel rock’n’roll, la rabbia è un dono. Tucker sveste il giubbotto di pelle, lo lancia in pasto al suo pubblico e impugna la Les Paul per produrre un interminabile effetto feedback spacca timpani. Poi allarga le braccia al cielo come a trattenere un’energia incontenibile. E’ il segnale. Billy Backer inizia a colpire, con lucida follia omicida, le pelli della sua batteria. I Politics of Joy, senza il dimissionario Sneaky Pete Kleinow alla pedal steel, si lanciano all’inseguimento di una selvaggia And You Are?. Molto più ritmico, questo nuovo arrangiamento, corre a perdifiato lungo una spirale di disperazione; la musica ricorda la violenza degli MC5, il testo sembra uscito dalla penna di un acerbo Lou Reed: “Mi avevano detto che parlare con te/ era masticare filo spinato con un’ulcera in bocca/ ma mai mi avevi ferito così”. Ma non è solo nell’anima che Tucker porta scolpito il suo dolore. Nell’arco di quei pochi mesi che dividono questa tournee dalla precedente, sembra essere invecchiato oltremodo, e poco o nulla fa per nasconderlo. Veste canotta e jeans neri attillati e si muove su scarpe che sembrano mezzi cingolati. I lineamenti del viso, eccessivamente pallido, hanno perso anzitempo elasticità e una pancetta antiestetica inizia a trovarsi a suo agio solo nascosta dalla chitarra. Alla fine del pezzo i veri fans, alcuni accorsi da tutto lo Stato, hanno rimpiazzato una buona dose di nervosismo, accumulato durante l’attesa, con una vagonata di adrenalina. Un cartello quasi illeggibile riemerge, dalla calca, nei pochi momenti di quiete e recita “Renegades of Reedsburg”. Su uno striscione seminascosto sulle tribune, invece, campeggia l’ermetica scritta “Madison for T(r)ucker(s). Yeah!”.
Crowe è visibilmente adirato. Sulla sua faccia si legge il tipico “ve la farò pagare” alla Clint Eastwood. Snocciola i nuovi pezzi senza tregua e con il chiaro intento di trasporre, dal vivo, il senso dei brani inclusi nel disco: per questo li ripropone in sequenza. Adultery, taglia, We’re in Trouble, morde e In Too Deep punge. Il pubblico è per gran parte domato.
Juliet è un album complesso. Il tormento che affiora dai solchi non lascia dubbi circa le intricate dinamiche che lo rendono un album maledetto. Nel volgere dei suoi dieci capitoli, musica e parole si cercano proprio come i due protagonisti alla base della storia, senza mai trovarsi. Quando la musica è dura, il testo è indulgente; quando gli arrangiamenti risultano scarni, le liriche sputano veleno. Si svelano, intrise di rabbia e tristezza, le pene d’amor perduto, e tutte le piccole e grandi tragedie che il breve ma intenso legame con la modella Julie Beatty ha lasciato in dote al povero Tucker. Il concerto prosegue con un mid tempo che consente a band e pubblico di prendere fiato. Cheez Doodle, al basso, reinterpreta, molle come lo è sul disco, il giro introduttivo della splendida The Better Man e Crowe ringhia nel microfono liriche disincantate: “La fortuna è una malattia, non la voglio vicino”. Ma anche i duri hanno un cuore. Inizia la fase introspettiva del concerto. Il cantante mette da parte, momentaneamente, i drammi sentimentali di Juliet ed imbraccia la sua Martin acustica per rileggere il suo passato artistico. Dal primo e omonimo album riesuma una Perc And Tickets (Perc, abbreviazione di percloroetilene) che, quasi commosso, dedica, ora come nove anni fa, allo scomparso padre Jerome: “Lui aveva questa stramba abitudine di fare le cose senza avvisare. Un giorno ha preso i miei jeans e li ha portati nella dannata lavanderia, di cui era proprietario, senza dirmi niente. Ha lavato i pantaloni e due biglietti che erano nelle tasche e, non so, questo percloroetilene … insomma sì li ha scoloriti, come bruciati. Erano ingressi per un concerto di Dylan! Ah, ah! Già. E così se n’è uscito dicendomi che aveva bruciato i miei biglietti per il paradiso. Questa è per te, Jerome, vecchio testone!”. Appena conclusa l’introduzione parlata, un tizio gli urla “sei un fottuto genio, T.C. (= Ti Sì)!”, e lui di rimando: “Oh, grazie per il fottuto! Ma chi cazzo ti ha fatto entrare?”.
Senza infamia e senza lode la rilettura, molto simile all’originale, di Venus dei Television.

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sabato 3 aprile 2010

The National - High Violet

High Violet dei National è un album in balia di onde dai calibri diversi: quelle che lievi spingono verso la riva e quelle violente che trascinano verso il largo. Tra componimenti delicati e struggenti, e graffi elettrici, la band americana regala al suo pubblico questo nuovo lavoro.

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domenica 14 marzo 2010

Ben, the two of us

Sul sito ufficiale di Ben Harper è visibile, in streaming, un clip risalente al 6 dicembre scorso a Washington. Harper è alle prese con My Father’s House durante la cerimonia di assegnazione del Kennedy Center Honors a Springsteen (per aver contribuito allo sviluppo della cultura americana).

Sotto lo sguardo assorto di Bruce, Ben interpreta una magnetica versione del brano tratto da Nebraska. La voce soul varca un mare di silenzio ed intreccia il lamento blues della hawaiian lap steel guitar che ha reso inconfondibile il suono di Innocent Criminals prima e Relentless 7 dopo.
Una rassicurante naturalezza dona potenza espressiva all’esibizione: la musica si erge, nei tre fatidici minuti, a misticismo incondizionato, a emozione che riconcilia con la vita. L'intera platea è interdetta. Dee Dee Bridgewater è in lacrime. Ecco materializzato quel raro miracolo dove musica è nient’altro che emozione.

Curiosamente Harper riesamina lo stesso brano già scelto nove anni prima per l'album "Badlands - A Tribute To Bruce Springsteen's Nebraska". La versione dal vivo del 2009, però, è quella definitiva: più matura e sentita di quella incisa in studio, non teme confronti.

L'audio di questo brano è scaricabile da iTunes per pochi cents. Il ricavato della vendita - dato non trascurabile - va nelle casse dell’Artists for Peace and Justice, un'associazione dedita alla causa haitiana.

Se poi si vuol tramutare la minuscola buona azione in una modesta buona azione, con qualche altro spicciolo, si può avere ancora buona musica.
In coppia con la cover di My Father’s House si può acquistare la My City Of Ruins proposta da Ed Vedder durante la stessa cerimonia celebrativa del Kennedy Center Opera House di Washington.
L’arrangiamento eseguito dal singer dei Pearl Jam ricalca quello realizzato da Bruce dopo i fatti dell’11 settembre. Voce, chitarra acustica e un coro di voci nere al servizio di un impeccabile folk venato di gospel.

Mi domando quanto possa essere lecito sperare in un pre-set tra Harper e Vedder al prossimo Heineken Jammin' Festival.

lunedì 1 marzo 2010

Nobraino - No Usa! No Uk!

Una buona dose di canzone d’autore, una di liriche visionarie e un tocco di sfuriate elettriche. Questi gli ingredienti. Lorenzo Kruger alla voce (autore dei testi), Nestor Fabbri alla chitarra, Bartok al basso e il Vix alla batteria si isolano per una decina di giorni in cima a una collina, in una cascina deputata ad accogliere una sorta di braistorming.

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domenica 28 febbraio 2010

Walking In My Shoes

Walking In My Shoes, dei Depeche Mode, è il secondo singolo estratto dall’album “Songs Of Faith And Devotion” (del ’93). Un dramma musicale di cinque minuti scritto da Martin Gore e interpretato con trasporto dal suo alterego, David Gahan. Il testo dal piglio psicanalitico sembra ripercorrere, e a tratti anticipare, la biografia di Dave da tempo ostaggio della tossicodipendenza (Ti racconterei delle situazioni in cui mi sono ficcato/ Del dolore a cui sono stato sottoposto/ Ma il Signore stesso sverrebbe). Non c’è traccia di redenzione, nessuna speranza di salvezza, solo il freddo racconto di un personaggio conscio delle sue debolezze (Gli infiniti banchetti offerti ai miei piedi/ Frutti proibiti, per me, da mangiare). Ogni possibile giustificazione è negata (Non sto elemosinando assoluzione/ Perdono per quel che ho fatto) e allo sguardo severo di “giudice e giuria” si chiede solo un empatico scambio di ruoli (Ma prima di giungere a qualsiasi conclusione/ Prova a camminare nelle mie scarpe/ Inciamperesti nei miei passi/ Manterresti gli stessi appuntamenti che ho preso/ Se provassi a camminare nelle mie scarpe).

Il video ufficiale, diretto dal solito Anton Corbijn, amplifica le angosce già espresse con le liriche ed esalta un arrangiamento gotico. Volti deformi e sguardi inquisitori danno il cambio a immagini, in linea con gli umori del pezzo, di una band con le spalle al muro e le facce accartocciate come anime nel dolore. Toni di grigio e colori vividi impattano sul campo visivo; personaggi mefistofelici dai costumi medievali e umanoidi come uccellacci del malaugurio occupano la pellicola a più riprese.

Inquietante sì, ma mai quanto l’esibizione del pezzo tratta dall’home video Devotional (il film del tour, in supporto dell’album, sempre ad opera di Corbijn). La visione del primo minuto è destabilizzante. L’immagine di Gahan, nota sin dagli esordi - taglio militare, barba rasata e presenza scenica discreta - viene annullata da quella inedita di una star sull’orlo dell’abisso.
Il nuovo Dave balla agile, scuote la chioma, mostra un corpo, ora, tatuato e canta più tetro che mai nel vortice di un incessante ritmo dark. A vedere queste immagini i sensi percepiscono richiami contrastanti: una musica “sintetica” e pulsante sale piano, sagome rosso fuoco dall’incedere sinistro irrompono nel buio, mentre il pubblico erutta eccitazione alla vista di un Gahan strafatto e messianico. Uno spettacolo emozionante e al tempo stesso decadente.

Il preponderante suono del synth di Alan Wilder si mescola alla timbrica della Gretsh di Gore in un sound che esaspera la drammaticità del pezzo. La voce di Gahan cade nella fossa della disperazione, la musica ne ricopre la tomba. La figura mitologica dal grande becco, ereditata dal video ufficiale, questa volta ha le fattezze femminili. Marcia, imponente e minacciosa, sugli schermi alle spalle di Dave e come una sorta di Mòloc ne sollecita il martirio davanti alla folla. Il singer, obbedirà, ciondolante su quel palco che sarà il suo altare sacrificale per i 14 lunghi mesi del tour.

Ma quello sul palco, è un vero dannato o qualcuno che finge perdizione? E’ un uomo sulla via dell’autodistruzione o il consumato interprete? Le due figure coincidono e solo gli sviluppi futuri della vicenda umana di Gahan certificheranno l’autenticità dell’esibizione. Malcelato vizio e becero autocompiacimento si intrecciano fino a rendere indefiniti i contorni tra vita pubblica e privata. Svariati collassi per overdose, di cui uno durante un concerto, e un mancato suicidio costringeranno Gahan a non camminare più in quelle scarpe. “Il suicidio è una soluzione definitiva ad un problema momentaneo” dirà nel 1997. “L’ho capito solo adesso, ma ancora non mi è chiaro perché mi abbiano arrestato per averlo tentato”.

sabato 30 gennaio 2010

La classe operaia non va in paradiso

Il 30 gennaio del 1969 i Beatles decisero di porre fine al loro sodalizio artistico.
Suonarono, per l'ultima volta insieme, dal palco allestito sul tetto della Apple Records di Londra.
I fans, accorsero a frotte su Savile Row, bloccando il traffico e costringendo la polizia ad intervenire per porre fine all'improvvisato concerto.
"Get Back" aprì e chiuse i 43 minuti dell'insolito happening. Il "suicidio artistico" dei Beatles consegnò alla storia un gruppo maturo (il White album era uscito due mesi prima), capace di vendite irripetibili (non del tutto stimabili) e ancora in grado di suonare al top (in tutti i sensi!).

Deve essere stato un atto di emulazione quello che in questi giorni, 41 anni dopo i fab four, ha spinto un "gruppo di attempati emergenti" ad imitarli.
In Sicilia, una nutrita formazione di temerari è salita su un edificio alto 20 metri per sfidare un freddo ancora più penetrante di quello londinese. Esposti ad un vento gelido che lacera la carne, anestetizzati dalla pioggia che tenta di spegnere la fioca fiammella della speranza, stanno lì, tra rabbia, paura e frustrazione.
In barba all'immobilismo che ultimamente contraddistingue la classe operaia, 13 lavoratori sono saliti sul tetto del capannone Fiat (che sta per Futuro Infelice A Tutti) di Termini Imerese. Scioperano e rivendicano quanto sancito nell'art. 1 di una Costituzione ormai ignota ai nostri parlamentari.
Incredibile. Eppure questi isolani hanno la fortuna di avere il sole, il mare, l'amore di una delle più alte cariche dello Stato e non portano più neanche l'anello al naso: cosa desiderano oltre a tutto questo, un Grammy Award?!? Se almeno sapessero suonare!

La Fiat pretende, ordina con il ricatto, più di quanto sia lecito chiedere. Management dell'impresa e Governo se ne infischiano delle richieste di lavoratori all'addiaccio da dieci giorni: non importa se per ognuno di loro "nella testa pesa la maledizione di trenta bollette da pagare" (da Unemployable dei Pearl Jam, 2006).
Gli operai di oggi lottano per tenersi il lavoro (qualunque esso sia), quelli di ieri lottavano per un trattamento più equo.

Non è trascorso molto tempo da quando il proletariato invocava, unito e a gran voce, condizioni di lavoro migliori e un orario sopportabile all'essere umano.
Sull'argomento si sono consumate migliaia di canzoni. Ma su tutte, senza andare troppo a ritroso, me ne vengono in mente alcune del mainstream rock americano. E anche un bel film italiano degli anni '70.
Sembrerà anacronistico menzionare la sottomissione a cui è costretto il protagonista della "Maggie's Farm" (da Bringing It All Back Home, 1965) di Bob Dylan, ma quei versi, pubblicati quasi mezzo secolo fa, sono ancora dannatamente attuali.
"Non lavorerò più nella fattoria di Maggie. Ebbene mi sveglio al mattino, incrocio le mani e prego che piova [...] E' una vergogna come mi fa scrostare il pavimento [...] Non lavorerò più per il fratello di Maggie, lui ti dà cinque cents oppure dieci, ti chiede con una smorfia se ti stai divertendo e poi ti multa ogni volta che sbatti la porta. Non lavorerò più per la madre di Maggie, lei parla, a tutti i domestici, dell'uomo, di dio e della legge [...] Non lavorerò più nella fattoria di Maggie, ho cercato di fare del mio meglio per essere proprio quello che sono, ma tutti vogliono che sia proprio come loro. Ti dicono canta mentre ti ammazzi e io mi sono seccato. Non lavorerò più nella fattoria di Maggie".
Potrebbe essere lo sfogo di uno dei tanti immigrati schiavizzati nei campi del sud, o nei cantieri del nord, e resi celebri dalla battaglia di Rosarno.

Non sempre, però, è possibile ribellarsi alle condizioni di lavoro. Sbattere la porta per andare altrove resta una chimera recintata dai cancelli di una fabbrica. In "Factory" (da Darkness On The Edge Of Town, 1978), di Bruce Springsteen, il fischio della sirena "ha il suono del pianto" e scandisce l'inizio e la fine di un impiego che "ruba l'udito".
In tutto il testo traspare una malcelata sopportazione per un lavoro inevitabile. L'idea di riscatto sociale, in tempi di crisi, si frantuma davanti a calcoli che strillano milioni di disoccupati (due, milioni, in Italia). L'unica considerazione valida, nell'asfittica routine del quotidiano, è che "la fabbrica dà da vivere" a quell'operaio. In "una vita di solo lavoro" ricordare "che qualcuno stanotte si farà male", resta un dettaglio da sottovalutare. ghggggggggggggggggggggggggggggggg

In "Millworker" (da Flag, 1979) James Taylor cambia l'angolo di visuale e con freddezza narra il compito di una madre vedova. Suo marito, "un uomo cattivo del Massachusetts, morto a causa del troppo whiskey", "ha lasciato queste tre bocche da sfamare". L'impiego della donna in fabbrica è "terribilmente noioso", ripetitivo fino all'alienazione: "siamo io e la mia macchina, per il resto della mattinata, il resto del pomeriggio e il resto della mia vita". Al tunnel dell'oblio si sottrae solo la certezza che la sua "vita è stata sprecata, e sono stata pazza a lasciare che questo fabbricante usasse il mio corpo come un attrezzo. Filerò a casa ogni sera guardando le mie mani e giurando il mio rammarico per una giovane ragazza che dovrebbe avere una condizione migliore".

Monopoli industriali che per decenni hanno goduto grazie ai soldi dei contribuenti, (leggasi "incentivi dello Stato", sic!), smontano la loro storia, rinnegano il passato e vanno all'estero dove la mano d'opera costa quattro volte meno che in Italia. La chiamano "delocalizzazione" ed è l'arguto neologismo che maschera il detto "prendi i soldi e scappa". Non c'è più lavoro, insomma, non dove c'è sempre stato, anche se il lavoro si può interpretare in altri modi. Le fabbriche, e le sue maestranze, non sono cave da svuotare per rubarne il didentro.
"Vedo colonne di fumo salire fino al paradiso mentre, sulla terra, sciogliamo questo portentoso minerale ferroso". L’ipnotica "Bethlehem Steel" (Copperopolis, 1996) dei Grant Lee Buffalo racconta l'epopea di generazioni vissute grazie al lovoro nei giacimenti minerari.
Soprannominata “the Steel City” (la città dell’acciaio) Bethlehem è, fino alla metà degli anni '90, il polo siderurgico più importante della Pennsylvania ed un incontrastato fiore all’occhiello per l’economia americana. La stella di acciaio citata nel pezzo è realmente esistita ed è stata eretta su un punto alto della città, visibile per chilometri. Una guida per la gente, un simulacro dell’evangelica cometa di Betlemme che conduce alle fabbriche del metallo e che lascia credere (invano) che mai ci sarà una crisi economica a farle chiudere. Generazioni hanno lavorato nelle industrie durante la seconda guerra mondiale fino a ritrovarsi schegge di metallo nelle mani, sorta di souvenir degli anni del boom.

Scritto, recitato e realizzato a meraviglia, "La classe operaia va in paradiso" (Elio Petri, 1971) mostra lo strazio dell'operaio nella Milano, ancora nebbiosa, funestata dalla lotta di classe. A Gian Maria Volontè, straordinario interprete dell'operaio frustrato, il compito di rendere chiaro il susseguirsi dei misfatti propri nella catena di montaggio.
Molti i punti in comune con i componimenti già citati. L'utilizzatore e l'utensile sono un tutt'uno di carne e ferro, di sudore e fluido refrigerante.
L'unica preoccupazione è la produzione ad oltranza. La fiacca è solo uno snervante fastidio fisiologico da schivare con audaci pensieri: l'idea di consumare sesso è l'antidoto da assumere per annullare la stanchezza. Un pensiero costoso che porta via l'attenzione e un dito del lavoratore. Il maturo operaio finalmente riesce a strappare un appuntamento alla compagna cui dedica sguardi morbosi: in una fabbrica dismessa giungono in una cinquecento. Sono lì, soli, parcheggiati nel capannone. L'auto, che pare di per sé inadeguata ad essere un'auto, sembra non resistere alla foga dell'intenso incontro. Nel freddo inverno milanese, dentro quell'edifcio fatiscente, non tutto fila per il verso giusto ...
La fabbrica s'è portata l'anima, un dito, il sesso. Una vita. E pare proprio non esserci quell'agognato paradiso per la classe operaia. Come dice, per voce di Springsteen, l'anonimo lavoratore di fonderia di "Youngstown" (The Ghost Of Tom Joad, 1995): "da morto non voglio incarichi in paradiso, non saprei fare quei lavori, prego che il diavolo mi prenda e mi metta agli altiforni ardenti dell'inferno".