mercoledì 13 maggio 2009

"Facciamo la traccia numero nove!"

E’ nota ai più la performance televisiva dei Wallflowers registrata a Los Angeles il 4 settembre 1997, per gli MTV Awards. Il gruppo esegue davanti alle telecamere One Headlight con la partecipazione di Bruce Springsteen grande estimatore di “Bringhing Down The Horses”. Ma questo non è che il sequel di un incontro ben più discreto avvenuto sei mesi prima tra la band capitanata da Jakob Dylan e il musicista del New Jersey.

“Quella sera venne a trovarci durante un nostro show in New Jersey. Gli chiesi se aveva voglia di salire sul palco, e proposi una cover immaginando che fosse perfetta per una prima volta insieme. Mi rispose: Facciamo la traccia numero nove (!) God Don’t Make Lonely Girls”.
Ecco come Jakob Dylan racconta quant’è successo l’8 marzo 1997, nel backstage del Tradewinds Nightclub di Sea Bright mentre lui e i Wallflowers si apprestano a tornare in scena per gli encores, accompagnati dall’eroe locale: Bruce Springsteen.
Il fatto che il body builder del NJ ricordi non solo il titolo del brano ma anche il numero di traccia, conferma che ha amato - e molto - Bringing Down The Horse, splendido album della band californiana.
Il pezzo proposto da Bruce a Dylan Jr. è allegro, chitarroso e consente ad un’artista rock reduce da un lungo tour solitario ancora in corso (il The Ghost Of Tom Joad Tour terminerà di lì a poco dopo quasi 2 anni dal suo inizio) di liberare tutta la carica elettrica repressa in favore di scarne esibizioni acustiche.
Dalle cronache risulta che Springsteen ha interpretato al meglio il ruolo di se stesso senza alcuna riserva. Per l’indubbia voglia di far casino, probabilmente, ma anche per l’evidente pertinenza che colloca le composizioni di “Bringing Down The Horse” nello stesso ambito di certe musiche della E Street Band.

Pubblicato nel 1996 - quando il grunge è ormai solo un ricordo, il pop britannico scala le classifiche e una marea di gruppi imita (e male) il sound meticcio dei Rage Against The Machine - l’album concede ai fans del Rock’n’Roll una boccata di ossigeno.
Jakob Dylan (voce e chitarra), Rami Jaffee (piano e organo), Michael Ward (chitarra), Greg Richling (basso) e Matt Chamberlain (batteria, ex Pearl Jam) prodotti da Mr. T-Bone Burnett, danno alla luce un disco fresco, genuino e incentrato su ottimi riff chitarristici, un possente drumming e, su tutto, partiture di organo, piano e tastiere che non si sentivano dai tempi di “The River”. Jaffee, infatti, è l’elemento di spicco del gruppo: eccellente musicista di piano, organo e tutto ciò che ha a che fare con una tastiera, affonda l’umore della band con suoni che rimandano a intime atmosfere o propone di scalare vette dai ritmi sostenuti.

Jakob Dylan, invece, è il compositore e paroliere del gruppo. Per l’ingombrante cognome, che fieramente ha mantenuto, e per gli analoghi tratti somatici, sopporta un fardello di svariate tonnellate sulle spalle. Ma nessun altro evidente punto di contatto, soprattutto artistico, lo lega al leggendario genitore. Dotato di una splendida voce è capace di modulare il canto tanto sugli aspri registri del rock, quanto su melodiche ballads originate dal folk.
Davvero lunga la sfilza di ospiti che apportano un contributo a questo album. Su tutti il chitarrista Mike Campbell (The Heartbreakers) e il singer Adam Duritz (Counting Crows) che aggiungono preziose sfumature alla maggiore opera pubblicata - ad oggi - dal gruppo.
Ma non dev’essere stato facile rompere il muro di scetticismo che ha assediato il lavoro dei Wallflowers. Quando all’interno del mondo musicale (e non solo) si fa strada un figlio d’arte, si frappone sempre una certa resistenza tra la consueta naturalezza nell’ascolto e il malsano sospetto che il percorso sia stato agevolato. Ma Jacob Dylan dimostra di non essere l’ultimo dei carneadi e s’immerge in quest’avventura ben supportato da un gruppo duttile e capace di accompagnarlo degnamente nell’impresa. Il brano d’apertura, “One Headlight”, spazza ogni dubbio. Il pezzo cova una malcelata mestizia sotto l’alternarsi di caldi accordi tenuti a bada da un incedere mid-tempo, finché il ritornello non celebra un cantato a piena voce. Da menzionare anche la struggente “6th Avenue Heartache” con Duritz al controcanto, “Bleeders” in cui l’organo comanda la melodia e “Laughing Out Loud” che entra in testa e lì rimane a riproporsi in loop tra i meandri della memoria. Ma è davvero difficile esaminare una ad una le undici tracce incluse in questo disco: ognuna racchiude in sé un elemento, un dettaglio, un’invenzione capace di renderla speciale.
Certo alcuni brani hanno “carattere” radiofonico, all’apparenza l’aspetto dei ragazzi è patinato ma, come si dice in questi casi … nessuno è perfetto.
Chissà se il futuro (magari non troppo lontano) presenterà altre opportunità a Springsteen e Dylan per suonare ancora insieme on stage. Si potrebbe ipotizzare un duetto a ruoli inversi, con Jakob nei panni dell’ospite di Bruce durante il “Working On A Dream Tour”, ancora in corso negli States. Ma è un’ipotesi azzardata. Un’idea originata dal desiderio e non dalla ragione, anche se i Wallflowers inizieranno una serie di concerti solo il prossimo 16 giugno, e anche se pare che la E Street Band stia provando “Like A Rolling Stone” di Dylan. Senior.

Non posso lasciare questa parata
Ma dev’esserci uno spiraglio
da qualche parte qui davanti a me
In mezzo a questo labirinto di orrore e avidità
(One Headlight)


venerdì 1 maggio 2009

Terra e Libertà

“People Of The Sun” è un brano dall’esplicito carattere ideologico che sparge ai quattro venti la violenta musica dei Rage Against The Machine. Anche la copertina del singolo riproduce simboli dal contenuto politico che non si prestano ad equivoci. E’ opera di un’artista il cui percorso è stato censurato per oltre quarant’anni e che ancora oggi resta misconosciuta.

Un susseguirsi di parole che è incitamento alla militanza, esortazione alla serrata lotta nei confronti di politiche dispotiche.
People Of The Sun è il secondo bellissimo singolo estratto da “Evil Empire” dei Rage Against The Machine.
Il suo testo, una cronografia rock, mette in fila le vicissitudini di un popolo soggiogato ma mai remissivo.
Zack De La Rocha è un fiume in piena. Con il consueto impeto che contraddistingue il suo incisivo rapping, mette in rima eventi funesti (lo spietato colonialismo di Cortès), sbraita minacce (“Lo spirito di Cuauhtémoc sopravvive indomito”), rievoca cocenti disfatte ai danni dell’ “Impero del Male” (l’offensiva vietnamita del Têt) e addita piaghe sociali (l’appropriazione abusiva di terre e lo sfruttamento del lavoro nei campi di tabacco) nel suggestivo testo.
Schizzano fuori dalla chitarra di Morello, invece, stridenti suoni metallici che anticipano il secco drumming di Wilk, mentre Commerford accompagna il beat con una profonda traiettoria circolare. Il ritmo delle strofe acquisisce potenza grazie ad un tempo rallentato che accelera solo sul ritornello, lasciando l’udito in balia di riff difficili da debellare.
People Of The Sun è riferita ai Maya e ai Méxica - gli Aztechi - comunità devote al culto del sole. Popoli che, oltre a virtù proprie, hanno avuto l’indiretto merito di essere capostipiti di leggendari discendenti. Figure mitiche d'inizio Novecento quali Zapata e i suoi guerriglieri che, al grido di “¡Tierra y Libertad!”, rivendicavano condizioni di vita diverse da quelle miserabili in cui versavano.
O i partigiani dell’E.Z.L.N. del Subcomandante Marcos che, mezzo secolo dopo la Rivoluzione Messicana, sono costretti a battersi al fianco degli indios per ottenere l’annullamento di medievali discriminazioni.
I Rage Against The Machine congiungono musica rivoluzionaria a propaganda di stampo radicale, e per esaltarne il connubio scelgono attentamente come offrire alla vista, prima ancora che all’udito, la loro creazione. Esemplare la rappresentazione di ogni loro intuizione grafica: i Rage attirano lo sguardo con intimidazioni visive, con foto rubate dai libri di storia che servono da monito.
Tra queste anche la splendida immagine ritratta sulla copertina del CD single.

Ma chi ne è l’autore?
Nulla è scritto in proposito tra i crediti del leaflet. La risposta è annotata sul retro di copertina della pubblicazione promozionale.
La fotografia è dell’italiana Tina Modotti, giramondo nata sul finire dell’800. L’autrice di “Falce, pannocchia e cartucciera” (Messico, 1927) riprende oggetti di vita quotidiana e strumenti della Rivoluzione, in una personale visione dello stile straight photography.
La straordinaria e poliedrica esistenza di Tina Modotti però è sconosciuta ai più, ed è davvero assurdo averne notizia tramite il tortuoso tragitto che lega il nome di una rock band americana a quello dell’artista friulana.

E poi si dice che il Rock non fa cultura.
Per dirla alla maniera di Bruce Springsteen: “Abbiamo imparato più da un disco di tre minuti che da quanto insegnato a scuola” (No Surrender).


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Altre seducenti fotografie di Tina Modotti sono presenti nel fantastico web site a lei dedicato

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