mercoledì 18 febbraio 2009

Ryan Adams e il lato oscuro della forza

Apprendo solo ora che Ryan Adams, terminato il tour in corso con i Cardinals, abbandonerà band e music business. Il ragazzo è prolifico, sono sicuro che continuerà a fare musica e a diffonderla, in qualche modo.
Apprezzo molti suoi lavori, soprattutto i primi.
Proprio sette anni fa assistevo al suo concerto milanese. Per la ricorrenza ripropongo il fantastico servizio fotografico a cura di Alessandro Calabrese, e in parte da “Miss E”, accompagnato dai miei ricordi.

Ryan Adams & The Sweetheart Revolution
Milano, 18 febbraio 2002 - Alcatraz

Buon musicista e valido performer, Ryan Adams chiude, con l’unica tappa italiana, il leg europeo del suo tour.
In due ore di concerto esegue “Gold” quasi per intero, tre brani da “Heartbreaker” e tira fuori dal cilindro qualche sorpresa, anche se molte altre meraviglie restano sotto chiave.
Show a fasi alterne e atteggiamenti spesso irrispettosi suscitano nel pubblico emozioni contrastanti.

Milano, 18 febbraio 2002. Varco le soglie dell’Alcatraz, per la prima volta in vita mia, stringendo un tagliando d’ingresso con su scritto “Ryan Adams & The Sweetheat Revolution”.
Prima di vedere l’americano in azione, però, mi devo sorbire il pesantissimo opening act del duo acustico M. Hederos & M. Hellberg.
Quando gli svedesi liberano il campo, accompagnato dalla band, il ragazzo della Carolina del Nord fa il suo ingresso sul proscenio ove le sagome di cartone raffiguranti Chewbacca e Darth Vader (!), sono già lì a far bella mostra di sé. I due personaggi di “Star Wars”, non sono l’unico elemento che richiama la famosa serie di film ideata da George Lucas: il “walk in”, infatti, avviene sull’arcinota musica composta per la fantascientifica saga.
“What’s up?! Welcome to laaaast european show on this tour”. Un sospiro di sollievo più che un sincero saluto, ecco come approccia col pubblico Ryan Adams.
“Grazie per essere venuti”, continua, “Questo show è dedicato ad Ernest Borgnine e Doris Day” (!).
La strampalata introduzione parlata, lascia intuire che Adams è stanco e che terrà il concerto quasi esclusivamente per mantener fede ai suoi obblighi contrattuali.

Giù di corda Adams lo è, e lo mostra senza ritegno da subito, steccando l’interpretazione vocale del primo brano “To Be Young (Is to Be Sad, Is to Be High)”.
Svogliato, fischietta tra gli ampi spazi che separano un brano e l’altro, cazzeggia sul palco per gran parte dello show, “sfumacchia” sigarette insieme a Bucky Baxter (proprio lui, l’ex della band di sua maestà Dylan) e rilascia audaci affermazioni ai danni dei tedeschi (“per fortuna abbiamo lasciato la Germania!”).

Baxter (acoustic guitar, cigarette), Brad Pemberton (drums), Brad Rice (electric guitar), e R.A. in un disastroso tentativo d'imitazione della cover di Born In The U.S.A.

In compenso Ryan, con la complicità di Dan Eisenberg (organo) e soprattutto Brad Pemberton (batterista sia qui che nei futuri Cardinals), rimonta in sella con una buona versione di “Touch, Feel & Lose” mentre Baxter si fa apprezzare per la sua specialità (pedal steel) su “Harder Now That It’s Over”.
Ma quell’alchimia di generi attorno al quale “Gold” racchiude il suo nucleo, fatica a manifestarsi: la magia del Rock’n’Roll, a stento invocata dallo speranzoso pubblico, aleggia in sala più come un demone, che come uno spirito redentore.
Stasera, insomma, Adams è oppresso da qualcosa che si può solo ipotizzare (delirio da inaspettata notorietà? Estenuante tour promozionale? Primi sintomi della sindrome di Ménière? Oscuri postumi delle dipendenze?) tanto che, giusto per rimanere in tema con “Guerre Stellari”, si può affermare che sul palco si esibisce un musicista vittima del lato oscuro della forza.
Ancora pause lunghe un’eternità prima della bella “Rescue Blue” e della rockeggiante “Firecracker” in una versione che prevede un incisivo Hammond al posto dell’armonica presente su disco, fino all’affascinante esecuzione di “Oh My Sweet Carolina”, rilucente gemma del passato, sfoggiata al momento opportuno. Ryan, qui, sterza verso l’alt-country e proprio quando s’immerge in questa dimensione, lo spettacolo ne beneficia. La cover di “Lovesick Blues”, inclusa nell’album tributo “Timeless”, ne è la conferma: il riuscito omaggio ad Hank Williams Sr., sbalza la platea indietro di 50 anni e l’Alcatraz si trasforma nel “Grand Ole Opry” di Nashville.

Il punk dell’ancora inedito brano “I Don't Wanna Work”, invece, ha il merito di destare gli astanti dopo una dolente versione di “New York, New York” (siamo a pochi mesi dall’11/9). “Shakedown on 9th Street”, terzo ed ultimo estratto dal primo album solista, chiude il set. Peccato che proprio da “Heartbreaker” non venga eseguito “Come Pick Me Up” previsto in scaletta come pezzo conclusivo.

Ma a dispiacere di più, è l’impossibilità di non poter apprezzare dal vivo una sola composizione a firma “Whiskeytown”, la band che ha lanciato nel giro che conta l’irriverente musicista.

Tormento puro e semplice, invece, per non aver sentito “Ooh Las Vegas” (in setlist erroneamente indicata come “Ooh Las Vega”) e “Sin City” di Graham Parson.

Al rientro dal backstage, il binomio genio e sregolatezza viene confermato una volta di più: Adams improvvisa per la sagoma di Darth Vader, una dolcissima e sboccata ballata occhi negli occhi. Ma fortunatamente questa parte del concerto è prodiga di regali particolarmente apprezzabili. “Nobody Girl”, ad esempio, esalta le qualità della band che si produce in una lunga ed orgiastica chiusura del pezzo, a metà tra Grateful Dead e Neil Young. Nella scarna ma efficace “Desire” si ergono la voce di Adams, il suono della sua Guild malandata e ancora la pedal steel di Baxter: secondo di tre inediti della serata, questo pezzo verrà pubblicato mesi dopo su “Demolition”. Ma il regalo vero è quella “Dance All Night” che troverà spazio su disco solo tre anni dopo, nel doppio "Cold Roses" (2005).
Beh, che dire poi della bravata più grossa? In pieno delirio di onnipotenza Ryan, in combutta con il perfido Baxter, prende per i fondelli Bob Dylan eseguendo una strafottente parodia di “Mississippi”: l’imitazione è buona, l’idea no.
Inorridisco alla visione degli scandinavi M. Hederos & M. Hellberg tornati sul palco per i bis. Per buona sorte riemergono solo per far numero: si manda in scena una chiassosa versione di “Brown Sugar” degli Stones, dove l’ospite d’onore è un simpatico roadie in sovrappeso che si cimenta alla chitarra elettrica.
Il finale è affidato alla ruvida “Tina Toledo's Street Walkin' Blues” e al vano e poco edificante tentativo di Ryan, ad amplificatori spenti, di portarsi dietro le quinte una ragazza delle prime file con inviti tutt’altro che impliciti.
Ah, se al talento si unisse un minimo di umiltà!

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Grazie a “Miss E” per la scaletta originale, e … quant’altro.
Grazie ancora ad Alessandro per queste ed altre decine e decine di foto scattate durante le nostre folli trasferte nell’arco degli ultimi 15 anni.

L’audio del concerto è "qui"
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venerdì 13 febbraio 2009

Droning Maud - The World of Make Believe

Con il nuovo anno nasce Revolving Doors, progetto giornalistico ideato, condotto e curato da Lucia Conti che dedica particolare attenzione agli artisti emergenti e del circuito underground, ma che non tralascia la storia della musica e dei grandi miti del passato.

Ecco una mia recensione, sul debut album dei Droning Maud, apparsa per le pagine web del sito in questione, ripresa anche da "Musicalnews".

Dopo aver testato il sound tra concorsi, live e l’autoproduzione di un demo nel 2007, i Droning Maud danno alla luce The World Of Make Believe, extended play curato e maturo.

I ragazzi della provincia di Rieti, capaci ma prudenti, combinano con sicurezza pop di qualità e rock dai suoni elettronici contando su solide abilità musicali da cui poter iniziare a costruire, ora, un suono più innovativo e distintivo.

Buon proseguimento di lettura su Revolving Doors.