domenica 28 febbraio 2010

Walking In My Shoes

Walking In My Shoes, dei Depeche Mode, è il secondo singolo estratto dall’album “Songs Of Faith And Devotion” (del ’93). Un dramma musicale di cinque minuti scritto da Martin Gore e interpretato con trasporto dal suo alterego, David Gahan. Il testo dal piglio psicanalitico sembra ripercorrere, e a tratti anticipare, la biografia di Dave da tempo ostaggio della tossicodipendenza (Ti racconterei delle situazioni in cui mi sono ficcato/ Del dolore a cui sono stato sottoposto/ Ma il Signore stesso sverrebbe). Non c’è traccia di redenzione, nessuna speranza di salvezza, solo il freddo racconto di un personaggio conscio delle sue debolezze (Gli infiniti banchetti offerti ai miei piedi/ Frutti proibiti, per me, da mangiare). Ogni possibile giustificazione è negata (Non sto elemosinando assoluzione/ Perdono per quel che ho fatto) e allo sguardo severo di “giudice e giuria” si chiede solo un empatico scambio di ruoli (Ma prima di giungere a qualsiasi conclusione/ Prova a camminare nelle mie scarpe/ Inciamperesti nei miei passi/ Manterresti gli stessi appuntamenti che ho preso/ Se provassi a camminare nelle mie scarpe).

Il video ufficiale, diretto dal solito Anton Corbijn, amplifica le angosce già espresse con le liriche ed esalta un arrangiamento gotico. Volti deformi e sguardi inquisitori danno il cambio a immagini, in linea con gli umori del pezzo, di una band con le spalle al muro e le facce accartocciate come anime nel dolore. Toni di grigio e colori vividi impattano sul campo visivo; personaggi mefistofelici dai costumi medievali e umanoidi come uccellacci del malaugurio occupano la pellicola a più riprese.

Inquietante sì, ma mai quanto l’esibizione del pezzo tratta dall’home video Devotional (il film del tour, in supporto dell’album, sempre ad opera di Corbijn). La visione del primo minuto è destabilizzante. L’immagine di Gahan, nota sin dagli esordi - taglio militare, barba rasata e presenza scenica discreta - viene annullata da quella inedita di una star sull’orlo dell’abisso.
Il nuovo Dave balla agile, scuote la chioma, mostra un corpo, ora, tatuato e canta più tetro che mai nel vortice di un incessante ritmo dark. A vedere queste immagini i sensi percepiscono richiami contrastanti: una musica “sintetica” e pulsante sale piano, sagome rosso fuoco dall’incedere sinistro irrompono nel buio, mentre il pubblico erutta eccitazione alla vista di un Gahan strafatto e messianico. Uno spettacolo emozionante e al tempo stesso decadente.

Il preponderante suono del synth di Alan Wilder si mescola alla timbrica della Gretsh di Gore in un sound che esaspera la drammaticità del pezzo. La voce di Gahan cade nella fossa della disperazione, la musica ne ricopre la tomba. La figura mitologica dal grande becco, ereditata dal video ufficiale, questa volta ha le fattezze femminili. Marcia, imponente e minacciosa, sugli schermi alle spalle di Dave e come una sorta di Mòloc ne sollecita il martirio davanti alla folla. Il singer, obbedirà, ciondolante su quel palco che sarà il suo altare sacrificale per i 14 lunghi mesi del tour.

Ma quello sul palco, è un vero dannato o qualcuno che finge perdizione? E’ un uomo sulla via dell’autodistruzione o il consumato interprete? Le due figure coincidono e solo gli sviluppi futuri della vicenda umana di Gahan certificheranno l’autenticità dell’esibizione. Malcelato vizio e becero autocompiacimento si intrecciano fino a rendere indefiniti i contorni tra vita pubblica e privata. Svariati collassi per overdose, di cui uno durante un concerto, e un mancato suicidio costringeranno Gahan a non camminare più in quelle scarpe. “Il suicidio è una soluzione definitiva ad un problema momentaneo” dirà nel 1997. “L’ho capito solo adesso, ma ancora non mi è chiaro perché mi abbiano arrestato per averlo tentato”.