sabato 30 gennaio 2010

La classe operaia non va in paradiso

Il 30 gennaio del 1969 i Beatles decisero di porre fine al loro sodalizio artistico.
Suonarono, per l'ultima volta insieme, dal palco allestito sul tetto della Apple Records di Londra.
I fans, accorsero a frotte su Savile Row, bloccando il traffico e costringendo la polizia ad intervenire per porre fine all'improvvisato concerto.
"Get Back" aprì e chiuse i 43 minuti dell'insolito happening. Il "suicidio artistico" dei Beatles consegnò alla storia un gruppo maturo (il White album era uscito due mesi prima), capace di vendite irripetibili (non del tutto stimabili) e ancora in grado di suonare al top (in tutti i sensi!).

Deve essere stato un atto di emulazione quello che in questi giorni, 41 anni dopo i fab four, ha spinto un "gruppo di attempati emergenti" ad imitarli.
In Sicilia, una nutrita formazione di temerari è salita su un edificio alto 20 metri per sfidare un freddo ancora più penetrante di quello londinese. Esposti ad un vento gelido che lacera la carne, anestetizzati dalla pioggia che tenta di spegnere la fioca fiammella della speranza, stanno lì, tra rabbia, paura e frustrazione.
In barba all'immobilismo che ultimamente contraddistingue la classe operaia, 13 lavoratori sono saliti sul tetto del capannone Fiat (che sta per Futuro Infelice A Tutti) di Termini Imerese. Scioperano e rivendicano quanto sancito nell'art. 1 di una Costituzione ormai ignota ai nostri parlamentari.
Incredibile. Eppure questi isolani hanno la fortuna di avere il sole, il mare, l'amore di una delle più alte cariche dello Stato e non portano più neanche l'anello al naso: cosa desiderano oltre a tutto questo, un Grammy Award?!? Se almeno sapessero suonare!

La Fiat pretende, ordina con il ricatto, più di quanto sia lecito chiedere. Management dell'impresa e Governo se ne infischiano delle richieste di lavoratori all'addiaccio da dieci giorni: non importa se per ognuno di loro "nella testa pesa la maledizione di trenta bollette da pagare" (da Unemployable dei Pearl Jam, 2006).
Gli operai di oggi lottano per tenersi il lavoro (qualunque esso sia), quelli di ieri lottavano per un trattamento più equo.

Non è trascorso molto tempo da quando il proletariato invocava, unito e a gran voce, condizioni di lavoro migliori e un orario sopportabile all'essere umano.
Sull'argomento si sono consumate migliaia di canzoni. Ma su tutte, senza andare troppo a ritroso, me ne vengono in mente alcune del mainstream rock americano. E anche un bel film italiano degli anni '70.
Sembrerà anacronistico menzionare la sottomissione a cui è costretto il protagonista della "Maggie's Farm" (da Bringing It All Back Home, 1965) di Bob Dylan, ma quei versi, pubblicati quasi mezzo secolo fa, sono ancora dannatamente attuali.
"Non lavorerò più nella fattoria di Maggie. Ebbene mi sveglio al mattino, incrocio le mani e prego che piova [...] E' una vergogna come mi fa scrostare il pavimento [...] Non lavorerò più per il fratello di Maggie, lui ti dà cinque cents oppure dieci, ti chiede con una smorfia se ti stai divertendo e poi ti multa ogni volta che sbatti la porta. Non lavorerò più per la madre di Maggie, lei parla, a tutti i domestici, dell'uomo, di dio e della legge [...] Non lavorerò più nella fattoria di Maggie, ho cercato di fare del mio meglio per essere proprio quello che sono, ma tutti vogliono che sia proprio come loro. Ti dicono canta mentre ti ammazzi e io mi sono seccato. Non lavorerò più nella fattoria di Maggie".
Potrebbe essere lo sfogo di uno dei tanti immigrati schiavizzati nei campi del sud, o nei cantieri del nord, e resi celebri dalla battaglia di Rosarno.

Non sempre, però, è possibile ribellarsi alle condizioni di lavoro. Sbattere la porta per andare altrove resta una chimera recintata dai cancelli di una fabbrica. In "Factory" (da Darkness On The Edge Of Town, 1978), di Bruce Springsteen, il fischio della sirena "ha il suono del pianto" e scandisce l'inizio e la fine di un impiego che "ruba l'udito".
In tutto il testo traspare una malcelata sopportazione per un lavoro inevitabile. L'idea di riscatto sociale, in tempi di crisi, si frantuma davanti a calcoli che strillano milioni di disoccupati (due, milioni, in Italia). L'unica considerazione valida, nell'asfittica routine del quotidiano, è che "la fabbrica dà da vivere" a quell'operaio. In "una vita di solo lavoro" ricordare "che qualcuno stanotte si farà male", resta un dettaglio da sottovalutare. ghggggggggggggggggggggggggggggggg

In "Millworker" (da Flag, 1979) James Taylor cambia l'angolo di visuale e con freddezza narra il compito di una madre vedova. Suo marito, "un uomo cattivo del Massachusetts, morto a causa del troppo whiskey", "ha lasciato queste tre bocche da sfamare". L'impiego della donna in fabbrica è "terribilmente noioso", ripetitivo fino all'alienazione: "siamo io e la mia macchina, per il resto della mattinata, il resto del pomeriggio e il resto della mia vita". Al tunnel dell'oblio si sottrae solo la certezza che la sua "vita è stata sprecata, e sono stata pazza a lasciare che questo fabbricante usasse il mio corpo come un attrezzo. Filerò a casa ogni sera guardando le mie mani e giurando il mio rammarico per una giovane ragazza che dovrebbe avere una condizione migliore".

Monopoli industriali che per decenni hanno goduto grazie ai soldi dei contribuenti, (leggasi "incentivi dello Stato", sic!), smontano la loro storia, rinnegano il passato e vanno all'estero dove la mano d'opera costa quattro volte meno che in Italia. La chiamano "delocalizzazione" ed è l'arguto neologismo che maschera il detto "prendi i soldi e scappa". Non c'è più lavoro, insomma, non dove c'è sempre stato, anche se il lavoro si può interpretare in altri modi. Le fabbriche, e le sue maestranze, non sono cave da svuotare per rubarne il didentro.
"Vedo colonne di fumo salire fino al paradiso mentre, sulla terra, sciogliamo questo portentoso minerale ferroso". L’ipnotica "Bethlehem Steel" (Copperopolis, 1996) dei Grant Lee Buffalo racconta l'epopea di generazioni vissute grazie al lovoro nei giacimenti minerari.
Soprannominata “the Steel City” (la città dell’acciaio) Bethlehem è, fino alla metà degli anni '90, il polo siderurgico più importante della Pennsylvania ed un incontrastato fiore all’occhiello per l’economia americana. La stella di acciaio citata nel pezzo è realmente esistita ed è stata eretta su un punto alto della città, visibile per chilometri. Una guida per la gente, un simulacro dell’evangelica cometa di Betlemme che conduce alle fabbriche del metallo e che lascia credere (invano) che mai ci sarà una crisi economica a farle chiudere. Generazioni hanno lavorato nelle industrie durante la seconda guerra mondiale fino a ritrovarsi schegge di metallo nelle mani, sorta di souvenir degli anni del boom.

Scritto, recitato e realizzato a meraviglia, "La classe operaia va in paradiso" (Elio Petri, 1971) mostra lo strazio dell'operaio nella Milano, ancora nebbiosa, funestata dalla lotta di classe. A Gian Maria Volontè, straordinario interprete dell'operaio frustrato, il compito di rendere chiaro il susseguirsi dei misfatti propri nella catena di montaggio.
Molti i punti in comune con i componimenti già citati. L'utilizzatore e l'utensile sono un tutt'uno di carne e ferro, di sudore e fluido refrigerante.
L'unica preoccupazione è la produzione ad oltranza. La fiacca è solo uno snervante fastidio fisiologico da schivare con audaci pensieri: l'idea di consumare sesso è l'antidoto da assumere per annullare la stanchezza. Un pensiero costoso che porta via l'attenzione e un dito del lavoratore. Il maturo operaio finalmente riesce a strappare un appuntamento alla compagna cui dedica sguardi morbosi: in una fabbrica dismessa giungono in una cinquecento. Sono lì, soli, parcheggiati nel capannone. L'auto, che pare di per sé inadeguata ad essere un'auto, sembra non resistere alla foga dell'intenso incontro. Nel freddo inverno milanese, dentro quell'edifcio fatiscente, non tutto fila per il verso giusto ...
La fabbrica s'è portata l'anima, un dito, il sesso. Una vita. E pare proprio non esserci quell'agognato paradiso per la classe operaia. Come dice, per voce di Springsteen, l'anonimo lavoratore di fonderia di "Youngstown" (The Ghost Of Tom Joad, 1995): "da morto non voglio incarichi in paradiso, non saprei fare quei lavori, prego che il diavolo mi prenda e mi metta agli altiforni ardenti dell'inferno".

martedì 19 gennaio 2010

This machine surrounds hate and forces it to surrender

La musica, l’impegno sociale e la rabbia preservano dalla vecchiaia.
Nel maggio scorso Pete Seeger ha compiuto 90 anni. Gli ultimi 70 (!) li ha trascorsi per strada: a suonare musica, a fare politica, a guidare cortei per la pace.
E ancora oggi, a dispetto della sua veneranda età, il tenace Pete ama esibirsi in pubblico con il suo adorato banjo. Un banjo adibito ad arnese, macchina. “Questa macchina circonda l’odio e lo costringe ad arrendersi”. Ecco la traduzione del motto inscritto lungo il bordo del suo strumento. Un avvertimento più cortese, nella forma, ma non meno esplicito, nella sostanza, di quello esposto sulla chitarra di Woody Guthrie ("This Machine Kills Fascists").

Il 3 maggio scorso, davanti ad un nutrito e partecipe pubblico, Joan Baez, Bruce Springsteen, Dave Mattews, Ani DiFranco, Tom Morello e altri musicisti hanno celebrato il novantesimo compleanno di Seeger al Madison Square Garden di New York. Dall’evento sono state tratte le immagini per l'home video “Pete Seeger's 90th Birthday Celebration: The Clearwater Concert”, i cui proventi saranno devoluti all’Hudson River Sloop Clearwater. L’ente ambientalista, voluto dallo stesso Seeger negli anni '60, è nato per salvaguardare l’ecosistema del fiume Hudson e dei suoi affluenti. Ed è proprio dal palco, per l'occasione allestito a forma di Sloop, un battello a vela, che si sono esibiti folk singer e rocker intenti a festeggiare e a tener testa allo scontroso nonnetto (ecco una corale This Land Is Your Land). Anzi, per dirla alla maniera di Springsteen, “Pete sembra tuo nonno, se solo tuo nonno potesse prenderti a calci in culo”.
A quanto pare il tosto Pete dovrebbe correggere la scritta sul banjo con uno slogan più appropriato, tipo: “Con questa macchina sbeffeggio il tempo e lo costringo ad arrendersi”.

Preview del DVD

martedì 12 gennaio 2010

Grant Lee (Buffalo) Phillips

Se non fosse stato per Michael Stipe non avrei mai conosciuto i Grant Lee Buffalo.
Nel ’95 ho avuto la fortuna di assistere ad un concerto dell’ultimo tour dei (degli?) R.E.M. al completo (con Berry alla batteria). Quell’anno Stipe aveva deciso di portare con sé i Buffalo in giro per quattro continenti: a loro il difficile compito di scaldare il pubblico prima degli osannati headliner. Ma quel mini-set si rivelava, ogni sera, ben più di un riempitivo. In giro per Australia, Giappone, Europa ed U.S.A., i Buffalo raccoglievano consensi di pubblico e critica. Chi li ha visti in almeno uno dei quattro show italiani mantiene vivido il ricordo di quelle performance.

Sorta di nume tutelare, il cantante dei R.E.M. incrocia a più riprese il percorso artistico di Grant-Lee Phillips, il leader dei Buffalo. Stipe elegge Fuzzy miglior disco in circolazione nel 1993: l’affermazione alza la soglia di attenzione attorno al debut album dei californiani e le radio raddoppiano i passaggi dell’omonimo singolo. Due anni dopo arriva la grande vetrina grazie alla tournée con i R.E.M.: Grant-Lee Phillips, Paul Kimble e Joey Peters aprono ben 42 date del colossale “Monster Tour”. E’ sempre Stipe, nella veste di produttore esecutivo di Velvet Goldmine, a richiedere alla band un inedito per la colonna sonora del film (istanza accolta ed assolta con The Whole Shebang), ed è sempre lui a profondere inconfondibili armonie vocali in Everybody Needs A Little Sanctuary, brano di Jubilee (1998). Il calvo Mike coinvolge Grant-Lee perfino nel progetto di world music 1 Giant Leap (2002).

Ma le collaborazioni del prolifico Phillips sono davvero tante. La smania creativa lo induce a partecipare in diversi ambiti, tant’è che il suo nome viene accreditato in decine di progetti. Nel 1998 c’è un favore da ricambiare e così la sua chitarra e la sua voce finiscono in Electro-Shock Blues degli Eels, con i quali collabora anche per Daisies Of The Galaxy (2000). Il nuovo decennio coincide con l’inizio della collaborazione con Aimee Mann: Grant-Lee è ospite negli album Bachelor No. 2 e @#%&! Smilers. I due, poi, dividono il palco per una serie di annuali concerti, i monotematici “Christmas Show”, che propongono alle platee statunitensi traditional natalizi.

Ma la cooperazione di Phillips che più di tutte desta curiosità è quella con Robyn Hitchcock (ex The Soft Boys). Cantautore inglese attivo sin dal 1979, più volte designato quale omologo al “crazy diamond” Syd Barrett, Hitchcock ospita Grant-Lee in Jewel For Sophia del 1999 e con lui duetta spesso e volentieri lasciandone traccia tangibile nel DVD Elixir And Remedies (2002). Con il sentito omaggiato incluso nell’album Nineteeneighties (2006) il californiano dimostra una vera e propria fascinazione per le opere di Hitchcock eseguendo I Often Dream of Trains.

Grant-Lee Phillips non ha mai prodotto un best seller e non appartiene certo al “club dei vincenti”. Piuttosto rientra nella cerchia dei “capaci ma sfigati”, meglio noti come “musicisti di culto”, che si dileguano tra strette strade secondarie. Ecco perché dopo aver ascoltato il recente Little Moon ho pensato di ripercorrere la carriera artistica del genialoide Phillips, e dei suoi Buffalo, in una monografia
(Grant Lee Buffalo: la dodici corde che sfidò il grunge).
Un piccolo tributo da un piccolo scribacchino.