lunedì 30 marzo 2009

A trip back to the Nineties

R.E.M.
Automatic For The People (1992)

Il nome a quest’album, in pratica, lo ha dato il gestore di un ristorante spesso frequentato dal gruppo. Usava come intercalare il termine "automatic" e così, quei quattro mascalzoni di Athens, che ci tengono a battezzare gli album con nomi assolutamente fuori dal comune, hanno pensato bene di chiamare questo ottavo capitolo del loro epico romanzo “Automatic For The People”.
Il disco che include la bellissima e notissima “Everybody Hurts” succede al più commerciale, ma non meno valido, “Out Of Time”. Tristi perle in musica sono qui raccolte (“Drive” è superlativa) insieme a componimenti più confortanti (“The Sidewinder Sleeps Tonite”). Ma in un’ipotetica classifica dei migliori singoli della musica Rock, “Man On The Moon” ha davvero pochi altri pezzi davanti a se, mentre un discorso a parte merita la straordinaria penultima traccia: “Nightswimming”. Si tratta di una ballata pianistica molto dolce ed intensa, che culla liriche tracimate dal cuore in piena di uno Stipe in stato di grazia. Con questi versi, il buon Michael raggiunge vette poetiche inaccessibili a molti suoi colleghi. In pochi altri casi si può godere di un connubio così alto e spirituale tra note e parole. Curiosità: gli arrangiamenti degli archi presenti in questo brano sono opera dell’ex Led Zeppelin John Paul Jones.

Brad
Shame (1993)

Dall’unione artistica tra Stone Gossard e Shawn Smith nascono i Brad.
Non un side-project dei Pearl Jam che vive di luce riflessa, ma un gruppo rock capace di dar vita a lavori interessantissimi. E’ “Shame”, debut album del 1993, il lavoro che si distingue per originalità e ispirazione tra la parsimoniosa produzione della band di Seattle. Alterna momenti riflessivi (le splendide “Buttercup”, da 10 e lode, e “Good News”) a momenti impetuosi (“My Fingers”, “Raise Love”), ma degni di nota sono anche il funk di “20th Century” e l’orecchiabile “Nadine”.
Efficace lo slap di Jeremy Toback che accompagna al basso il falsetto di Smith su “Bad for the soul”, da dimenticare invece “Rockstar”.
La voce altamente soul di Shawn, il suo piano e le semplici trame chitarristiche di Stone, forgiano un sound davvero alternativo e tutt’oggi raro: undici tracce composte ed incise con sentimento, che dopo 16 anni mantengono tutta la freschezza e l’immediatezza dell'idea originale. Completano la squadra alla batteria Regan Hagar, altro esponente di spicco della scena di Seattle anni ’80 (ex Malfunkshun) e al mixer tale Brendan O’Brien.
Un disco buono per ogni momento, da metter su al risveglio o da godersi all’imbrunire.

Mark Lanegan
I'll Take Care Of You (1999)

E' orfano degli Screaming Trees, Mark Lanegan, quando incide questo fantastico album.
Essenziale sin dalla grafica di copertina, nel disco trovano spazio chitarra, voce (che voce!) e davvero poco altro senza mai annoiare.
Lanegan rivisita undici splendidi brani tra cui spiccano il folk di “Shiloh Town”, del compianto Tim(othy James) Hardin, e il traditional “Little Sadie” ripreso negli ultimi ottant’anni praticamente da tutti i più grandi folk singer americani. Ma anche la title track, resa nota dal grande Bobby “Blue” Bland, è davvero un gioiello: tra soul e blues, campanelli ridondanti, eco della chitarra e quel beat triste, "I'll take Care Of You" scaraventa il sound nel mezzo degli anni ‘60. Anche in “On Jesus’ Program” grande gospel di O(verton) V(ertis) Wright sono presenti toni Sixties, come pure nella fedele copia - canto pastoso e trascinato all inclusive - di “Shanty Man’s Life” del mitico Dave Van Ronk, e nella “Boogie boogie” dalla chitarra acquosa che si abbina alla cavernosa voce di Lanegan.
Chi inciampa da queste parti, merita di sapere quanta bellezza può essere racchiusa in un pugno di canzoni. Poco più di trenta minuti di cura disintossicante da tanta merda che circola, impunemente, al giorno d’oggi.

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