Sulla east cost degli Stati Uniti, nel Connecticut, si trova la città di New Haven nota ai più perché sede della prestigiosa università di Yale.
New Haven, però, è celebre in ambito musicale per la rilevante attività live che da anni svolge il “Toad’s Place”. Basti pensare che in questo piccolo locale, negli anni ’80, hanno suonato U2 e Rolling Stones.
Il 12 gennaio 1990 tocca ad un altro mostro sacro del Rock, salire sul palco del “Toad’s” per trasgredire un tabù che dura da lungo tempo.
Insieme al talentuoso chitarrista George Edward "G.E." Smith, al batterista Christopher Parker e al bassista Tony Garnier (oggi unico “superstite” di quella band), Bob Dylan si appresta a suonare in un club per la prima volta in 25 anni. Non solo: il concerto consta di quattro sets, per oltre cinque ore di ottima musica Rock!
Lo spettacolo, infatti, risulta bello tosto rispetto agli standard resi noti da Dylan nel decennio precedente e, a rendere vivace l’atmosfera non è solo l’euforia degli alticci fans presenti in sala. Complice il line up del gruppo, con un Bob Dylan ben più irrequieto della tanto oltraggiosa svolta elettrica del Festival di Newport (1965), a turbare i fortunati astanti è l’interpretazione dal piglio rigorosamente “nervoso” di vecchi e nuovi brani.
Il suono prodotto risulta grezzo, si bada molto al sodo e l’enfasi interpretativa dei testi passa decisamente in secondo piano.
Ma a rendere speciale questa tappa del “Fastbreak Tour” (un paragrafo del capitolo “Never Ending Tour”) sono giusto tre minuti e mezzo di Rock. Forse per la vicinanza al “Garden State” (circa 2 ore e ½ di auto), forse per puro piacere personale o per chissà quale altra causa, Dylan esegue una canzone di Bruce Springsteen: una circostanza che non si era mai verificata prima e che mai si ripeterà. La scelta ricade su una versione tanto stramba quanto preziosa di "Dancing In The Dark".
L’esecuzione è da shock! Il pezzo è vibrante, la carica di Dylan è sconcertante (sembra davvero voler ripetere l’energia che è propria di Bruce) e ciò che elettrizza, è pensare a come Dylan abbandoni i propri panni e lasci libero sfogo ad un'inconsueta irruenza: è semplicemente spiazzante perché fuori da ogni logica dylaniana.
La riproposizione del testo poi! E’ pazzesca: le liriche - chorus escluso - sono completamente inventate (nel senso che sono davvero immaginarie), cioè le parole sono lamenti gridati a caso. Tuttavia questo rigenerato artista riesce a rendere emozionante la fin troppo personale versione dell’hit di Springsteen, senza intaccarne il significato. A volte sembra di sentire un bambino eccitato che imbraccia una Fender per la prima volta e che ha la possibilità di urlare quel che vuole in un microfono “aperto”. Proprio questa primordiale freschezza trasforma in leggenda una performance decisamente underground. La frenesia del pubblico è chiaramente intuibile al termine dell’esecuzione del brano sia dal boato finale del pubblico, sia dai peculiari “Bruuuuuce!” da concerto springsteeniano. Solo che, non siamo ad un concerto di Springsteen!
Sarebbe interessante conoscere l’opinione del body builder del NJ al recepimento della notizia. Che significato avrà attribuito a quello che a me pare il conseguimento di un tributo? Perché di questo, credo, si tratti. Forse perché ritengo che Bob ammiri Bruce, magari non negli stessi termini in cui Springsteen apprezza Dylan come uomo ed artista ma, un fondo di stima - in mancanza di una dichiarazione urbi et orbi da parte del “Poeta” - è ipotizzabile (nonostante la composizione della quantomeno ostile "Tweeter & The Monkey Man"). Springsteen, d’altronde, non ha mai fatto mistero della propria considerazione nei confronti dell’arte di Dylan. Vale la pena, all’uopo, riportare la parte finale del discorso pronunciato il 20 gennaio 1988 (data del loro primo incontro pubblico ufficiale, che qui, verrà riproposta più volte) per introdurre Dylan nella R’n’R Hall Of Fame:
“Ora, parlando da ammiratore, quando avevo quindici anni e ascoltavo Like A Rolling Stone, ascoltavo un tizio che aveva il coraggio di prendersela col mondo intero e che mi faceva sentire come se anch'io avessi dovuto farlo. Forse alcuni fraintesero quella voce credendo che Bob avesse preso posizione anche per loro, ma crescendo, s’impara che non c'è nessuno che può fare qualcosa al posto tuo. Così stasera sono qui solo per ringraziarti, per dire che non sarei qui se non fosse per te, per dire che non c'è un'anima in questa stanza che non ti debba riconoscenza, e per rubare una frase da una delle tue canzoni, che ti piaccia o no, "tu sei stato il fratello che non ho mai avuto".
Nella sua carriera Bruce ha già provveduto ad omaggiare più volte il “Menestrello di Duluth” con l’esecuzione di capolavori tratti dalla sua opera: un EP del 1988 riporta addirittura il titolo, oltre la registrazione live, del brano “Chimes Of Freedom”.
Il rapporto tra i due, però, mi è sempre parso contrastato. Oserei dire difficile. Tutto ha inizio con una consuetudine in voga nei primi anni ’70. Al pari di altri giovani emergenti, anche Springsteen viene annoverato - ad inizio carriera (‘73) - tra i cloni di Dylan, anzi, stando a quanto scritto dalla stampa di settore, parrebbe il suo più credibile erede. Ridicolo, ovviamente, il solo pensiero: tra i due, sono più le divergenze che i punti di contatto. Solo che davvero alcuni “giornalisti musicali” di basso rango tentano di infangare, in ogni modo, l’operato di Dylan per convincere l’opinione pubblica della necessità di “rimpiazzare” il cantautore del Minnesota, anche se questi ha alle spalle poco più di dieci anni di rivoluzionaria attività e un brano da brividi appena concepito (“Knockin’ On Heaven’s Door” per la soundtrack del film Pat Garrett & Billy The Kid).
Springsteen viene letteralmente messo in croce con questa storia per almeno tre anni. Per esplicitare questa pressione, faccio menzione di un solo episodio. Ad Atlanta un Dj gli chiede: “Come ci si sente ad essere paragonato a Bob Dylan?” e Bruce di rimando: “Come ci si sente a prendere un cazzotto in bocca?” (articolo di Greil Marcus per Rolling Stone, 20 maggio 1976).
Un altro ricordo fa pensare all’affetto unilaterale che Bruce prova per Bob. Ripenso ad un emozionatissimo Springsteen che tortura i palmi delle proprie mani, si gratta nervosamente, strizza gl’occhi innumerevoli volte durante tutta la lettura del discorso e infine passa la mano tra i capelli rimanendo oltremodo scapigliato e goffo davanti a decine di flash pronti ad immortalarlo, mentre pronuncia un bellissimo discorso (in parte sopra citato) per introdurre Dylan nella R’n’R HoF nel 1988. E Dylan che, “freddino”, archivia la pratica con uno sbrigativo bacetto.
E poi tutte le volte che c’è un duetto Bob non fa nulla per nascondere il suo tipico atteggiamento glaciale, tanto da sembrare scostante.
Questo è quanto ho provato nel vederli insieme durante le rare comuni esibizioni. Oltre alla conclusiva jam session con Jagger, Fogerty, Harrison, Little Steven e Joel svoltasi al Waldorf Astoria Hotel di New York per il conseguimento dell’onorificenza nel gennaio ‘88, i due si sono trovati insieme a Neil Young per un concerto a New York il 20 ottobre del 1994 e finalmente soli, per la prima volta, il 2 settembre del 1995 per inaugurare il museo del R’n’R di Cleveland. Anche in questa circostanza, nel duettare su “Forever Young” Dylan sembra stare un po’ sulle sue. Risulta alquanto eloquente una foto scattata in quell’occasione: mostra la distanza, non solo fisica, tra i due.
Eppure Bruce non perde occasione per elogiare pubblicamente Mr. Wolfman.
Il 4 ottobre 2003 allo Shea Stadium per la chiusura del “Rising Tour” Springsteen chiama sul palco Dylan per “Highway 61 Revisited”, grande pezzo, grande resa dal vivo ma anche qui, Bob suona, saluta e va via. Il solito Bruce lo insegue per l’ultimo sorriso, un altro ringraziamento e l’ennesima pacca sulle spalle, prima che questi scompaia nel backstage. Anche in questa sede il discorso pronunciato dal palco è di pura e sincera venerazione per il suo idolo (ma più che altro, è l’incipit, a chiarire il loro rapporto):
"Un buon amico ed una fonte di ispirazione per tutti noi, Bob Dylan è qui stasera. Non saremmo qui se non fosse stato per lui".
Ed ancora: "Cercare la verità è l'american way. L'ho imparato da Bob Dylan". Poi prima di attaccare “Land Of Hope And Dreams” dice: "L'opera di Bob Dylan è fatta di canzoni nate in un'epoca particolare della storia di questo Paese, quando lui da solo, stava in piedi sulla linea di fuoco. Mi ricordo che da piccolo stavo nella mia stanza e le sue canzoni mi davano molteplici possibilità e mi mostravano un mondo al di fuori della mia città. Non lo so se sono i grandi uomini a fare la storia o se è la storia a fare i grandi uomini ma Bob è uno di questi grandi. Ora e per sempre. Grazie per aver impreziosito questo palco e per essere stato una fonte di ispirazione per me. Quando ho scritto questa canzone io stavo cercando di seguire le sue orme".
Non ricordo altre occasioni di condivisione del palco tra i due. Sono certo, invece, che non esista una sola incisione in studio tra questi due grandi artisti*. Dylan, per contro, ha suonato con membri della E Street Band. E’ successo per le registrazioni del suo album “Empire Burlesque”. Per il solo brano "When The Night Comes Fallin From The Sky", nel febbraio del 1985, vengono “arruolati” gli E Streeters, Little Steven (chitarra) e Roy Bittan (tastiere). Le sessioni di registrazione hanno luogo presso i Power Station Studios di New York (gli stessi ove è stato registrato il doppio LP di Springsteen, "The River"). Grazie al contributo dei due “uomini del Boss” il sound del pezzo è fortemente orientato su registri Rock, ma Dylan decide di incidere nuovamente il brano senza Bittan e Van Zandt: il risultato è quello ufficialmente pubblicato su disco (cioè un brano à la mode, con quel tipico suono di synth a imporsi sugli altri strumenti). La registrazione originaria verrà comunque pubblicata, anni dopo, nelle “Bootleg Series, Vol. I-III".
Da notare che è proprio del 1985 il progetto “Sun City” realizzato da Steve Van Zandt: chissà se è durante le prove di “When The Night Comes Fallin From The Sky”, che il musicista/attore riuscirà a strappare l'adesione di Dylan al progetto benefico.
Ora, tra realtà e leggenda, mi appresto a svelare l’ultima parte di questa storia.
Nell’affollato locale di New Haven, tra fans in delirio accalcati sotto il palco, avventori che tracannano birre e coppie che si tengono per mano, in un cantuccio, c’è pure un solitario spettatore dal volto celebre.
Intanto inizia “Dancing In The Dark”, la chitarra parte per prima, seguita dalla batteria e dai rimanenti strumenti. Bob si sforza di emettere un mugolio intonato che tenta di spacciare per il testo originale (!), “G.E.” cerca di star dietro a quel cantato sghembo e Chris con l’aiuto di Tony, regge l’impalcatura di un fabbricato dalle fondamenta incerte. Nel frattempo quel solitario spettatore mal celato dall’oscurità, ricorda sempre più la fisionomia di Bruce Springsteen. Potrebbe essere lui ma non vi è certezza perché la luce che lo illumina è fioca. Difficile dare un responso certo, anche se a pensarci bene, solo una manciata di miglia dividono casa sua dal Toad’s. Sì, deve essere così, Bruce stasera ha deciso di fare un salto al club per godersi lo spettacolo in incognito e, per questo, si palesa al solo Bob. Questi, dunque, in onore del suo amico, si prodiga in un concerto smisuratamente duraturo al pari, anzi superiore, a quelli che abitualmente quell’anonimo ospite è solito tenere, e decide di tributargli una dedica “in codice” eseguendo il pezzo tratto dal suo repertorio. Così, Bruce, nascosto in un angolo del locale, si gode il concerto del suo idolo e amico … ballando nell’oscurità, finché, il brano termina troncato di netto come il ramo di un albero. Scompiglio sotto al palco un “Thank you!” dallo stage e … via!
Altro giro, altra corsa. Bob Dylan è fatto così: diversamente, non sarebbe Bob Dylan.
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* = escluso il singolo "We Are The World" per il progetto "USA for Africa", ove però, erano presenti molti altri cantanti/musicisti.
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7 ottobre by
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